“Una domenica come le altre”, pensa il sagrestano della Chiesa madre dedicata a San Giovanni Battista mentre guarda il calendario e mette una spunta sulla data 23 agosto 1942. Quindi apre la porta che conduce alla cella campanaria per richiamare i fedeli alla messa delle otto, ma quando rientra in chiesa si rende conto che sono presenti solo gli anziani. Le donne con i bambini dove sono finite? Almeno loro di solito alla messa non mancano mai, dal momento che la maggior parte degli uomini sono al fronte e i vecchi si recano in chiesa più per necessità che per devozione, tranne in occasione della festa di san Rocco di Montpellier, patrono del paese.
Ma oggi no. Oggi, domenica, le donne di Monteleone di Puglia, nel territorio di Foggia, dove si incrociano le vie di collegamento tra Puglia e Campania, alla messa non ci sono. Cosa sarà successo? Si domanda il sagrestano, non potendo sapere ciò che sta accadendo poco distante dalla chiesa.
Infatti le donne sono uscite da casa, come ogni domenica, ma si sono recate dal barbiere del paese, in largo Croce, lo spiazzo intitolato alla memoria della sollevazione della cittadina contro l’esercito napoleonico. Quelle donne non vogliono farsi la permanente, né tagliarsi i capelli, ma solo cercare quel “fetente” del farmacista Pasquale Trombetti. Ha spacciato medicine false? No, no, assolutamente no. Quel farmacista, residente nel palazzo baronale, ricopre da qualche mese la carica di commissario prefettizio, proprio in virtù di questa carica hanno deciso di affrontarlo.
Il dottor Trombetti richiamato dalle voci delle donne che chiedono la concessione di nuove tessere per consentire la macinazione del grano a uso privato, s’alza infastidito dalla sedia da barbiere, e dopo essersi ripulito dal sapone s’affaccia sull’uscio.
Le donne tacciono, tranne una, più peperina delle altre, che lo affronta e gli espone il motivo della protesta. Il dottore sbuffando le risponde: “Mangiatevi le pietre, questa è la legge”.
Il farmacista sarà un bravo chimico, ma un pessimo alchimista della mediazione, infatti la frase suscita la rabbia delle convenute, che inveiscono: “ Stu scurnatu, ci vuole affamari!”. “Figghiu ri introcchia – grida un’altra – tu mangi e noi moriamo di fame”.
In aiuto dell’uomo viene il sottotenente Antonio Alfieri, anche lui nel salone per il taglio della barba, tutti lo conoscono e sanno che appartiene a una buona famiglia del paese, ma in quel frangente alle dimostranti importa poco: inveiscono anche contro di lui.
Finalmente il farmacista capisce che ha mescolato incautamente degli elementi esplosivi, per cui decide di rabbonirle con delle promesse. “Tanto son donne – pensa fra sé e sé – e quelle credono a Dio, vuoi che non credano alle mie fandonie?”.
Ma si sbaglia, eccome si sbaglia! Ha dimenticato l’istinto materno, proprio quello che guida la dimostrazione, e quelle donne per preservare i figli sono disposte a tutto e non vogliono farsi abbindolare.
Le grida e gli improperi richiamano dalla stazione dei carabinieri, i cui locali confinano con quelli del palazzo baronale, il comandante brigadiere Italo Piccione, che, accompagnato dai militi Pietro Altavilla Pietro e Valentino Ventura, si precipita sul posto per sedare gli animi e riportare l’ordine costituito.
Il farmacista vista la malaparata, seguito dal sottotenente, decide di recarsi lui stesso nella caserma dell’Arma; ai due s’unisce la guardia campestre Generoso Cornacchia.
Una scena quasi assurda: circondati da donne indifese, tre uomini a passo veloce cercano scampo tra le braccia dell’ordine costituito: “Fitusu scurnatu tu e i tuoi uomini ci avete sequestrato il grano”, continuano a urlare le dimostranti.
La protesta è nata perché il giorno precedente il brigadiere ha ordinato di “far sequestrare e distruggere delle pignatte di granoturco a delle donne in fila davanti al forno del paese”. In realtà ha dato esecuzione all’ordinanza del commissario prefettizio, il farmacista dottor Trombetti, di far chiudere il mulino per impedire che si macini abusivamente qualunque tipo di cereali.
Il grano da distribuire alle singole famiglie in realtà non manca, anzi. La coltivazione del grano e del mais ha conosciuto un’espansione rilevante, ma la produzione è stata posta sotto il controllo dei consorzi agrari e degli ammassi obbligatori anche detti “i granai del popolo”. Conseguenza: la quota assegnata ai singoli produttori è stata progressivamente ridotta dai tre quintali del 1936 ai due del 1940, ulteriormente, abbassata, nel marzo 1942, a 1.85 quintali. Inoltre, nella primavera del 1942 vengono prelevati sulla quota dei produttori ben 25 kg, determinando un diffuso “malcontento sia parte dei civili sia da parte dei militari per l’alto costo dei generi alimentari e manifestazioni di protesta per l’esaurimento delle scorte che le autorità di pubblica sicurezza segnalarono in diversi paesi della provincia di Foggia (Trinitapoli, Torremaggiore e Vieste), di Avellino e di Benevento”.
Una delle prime sollevazioni avviene a Cagnano Varano, dove 400 donne il 1° dicembre 1941 protestano dinanzi alla sede comunale chiedendo di poter molire senza la carta di macinazione.
Tutte le rivolte sono gestite dalle donne, che sostituiscono, loro malgrado, gli uomini nella gestione quotidiana, a seguito del loro richiamo al fronte.
Le donne si sono ritrovate a dover fare i conti con la fame, la povertà propria e dei propri cari, e se si tratta di figli…
In Capitanata la situazione è peggiorata con l’intensificazione dei controlli, dopo la nomina a prefetto di Giovanni Dolfin, che si distingue per un “attivismo frenetico”: le sezioni annonarie intensificano l’azione di repressione delle infrazioni, per cui spesso vengono requisiti indiscriminatamente «fave, avena, fieno, paglia per l’esercito sicché gli animali da lavoro non possono essere abbastanza alimentati».
Ricordiamo che gli asini sono fondamentali per una civiltà agraria, dal momento che vengono utilizzati come mezzi di trasporto, ma anche come trattori per arare, dissodare la terra. Se non sono in grado di potersi reggere in piedi risultano inutili.
Tutti elementi che diventano insostenibili e che favoriscono lo scoppio di proteste e sollevazioni di cui la rivolta delle Leonesse di Monteleone di Puglia è solo l’apice.
E torniamo dunque a quel giorno di agosto ’42. Troviamo il commissario prefettizio, il dottor farmacista Trombetti, dinanzi al portone della stazione dell’Arma, forte della protezione dei militi e speranzoso che nessuno oltraggerà quelle divise. Decide di rivolgersi alle donne: “Vi prometto che più tardi il mulino riaprirà”.
Ma Pasqualina Volpe si lancia contro il comandante brigadiere nel tentativo di disarmarlo della sciabola: subito intervengono i militi a supporto, con la conseguenza che un’altra donna, Teresa Visconti, interviene per supportare la compagna e, sfortunatamente per lei, viene colpita al volto dall’appuntato Altavilla. Nel tafferuglio che ne segue la comare Pasqualina si ferisce con la spada del brigadiere, che animato dall’intento di medicarla, la trascina all’interno del portone della Caserma, dove lo segue il resto del gruppo.
Fuori le donne urlano e inveiscono, temono l’arresto della loro compagna per aver oltraggiato un esponente delle forze dell’ordine. E in parte hanno ragione. Il brigadiere Piccione, infatti, ha sì medicato Pasqualina però poi l’ha fatta rinchiudere in una cella di sicurezza. Non intende procedere a un arresto formale, è sicuro che quelle povere contadine si stancheranno di stare sotto il sole di agosto e se ne torneranno a casa.
Ma si sbaglia e di grosso!
Le donne non abbandonano affatto la piazza, corrono invece ad avvisare il marito di Pasqualina. A sua volta, l’uomo chiama altri compagni e insieme si precipitano a bussare, o meglio a battere furiosamente, contro la porta della caserma per pretendere il rilascio della signora.
E tutte le altre, contrariamente a ogni previsione, urlano: “vogliamo le tessere, vogliamo sfarinare”.
Il commissario prefettizio decide di affacciarsi ma sbaglia per l’ennesima volta. Invece di rasserenare gli animi li inasprisce e provoca la reazione: Vincenza Lamanna raccoglie un sasso e lo scaglia contro il balcone della caserma dove si trova anche il farmacista Trombetti, che schiva il colpo e si rifugia dentro, in tempo per evitare la gragnuola di pietre che infrange alcuni vetri.
A quel punto, supportato dal tenente Alfieri e dalla guardia campestre, il comandante brigadiere decide di sparare per intimidire, non capisce che sta innescando la miccia della rivolta.
Gli spari infatti disperdono solo momentaneamente la folla, perché la paura è il migliore generale e lo spirito di sopravvivenza, unito alla rabbia, un ottimo stratega: gli uomini decidono di ammassare legna e paglia dinanzi al portone della caserma e appiccare il fuoco. Per coprirli le donne continuano a lanciare sassi contro le vetrate.
In breve la porta arde.
Il brigadiere si rende conto che la situazione gli è sfuggita di mano e spara contro la folla dallo spioncino della porta infuocata. I suoi colpi feriscono Antonio Visconti, Perla Morra, Domenico Colangelo Domenico, Giuseppina Grosso e anche Pasqualina Volpe.
La folla impazzisce, si scaglia contro la porta e la abbatte. Il brigadiere e tutto il gruppo si rifugiano nella cucina della caserma, dove si trova anche la madre del carabiniere comandante. Gli asserragliati decidono di sfondare un muro, passare nella casa del commissario prefettizio e da lì cercare la fuga.
Nel frattempo il sottotenente si cala con un lenzuolo da una finestra che dà su una parte incustodita dello slargo e si precipita a chiedere soccorso: i rivoltosi hanno deciso di distruggere gli uffici del comune e dell’ammasso. Per riuscire ad agire, tagliano i cavi telegrafici, sbarrano con balle di fieno e mobili le strade di accesso al paese.
Monteleone sembra di rivivere la situazione descritta da Verga nella sua novella Libertà, anche se i ribelli non giungono a trucidare i notabili
Il prefetto Dolfin, si ritrova a dover organizzare la repressione. In breve carabinieri, polizia e militi si muovono a bordo di camion verso la località del foggiano con l’ordine di perquisire ogni casa e trarre fuori gli abitanti. Un rastrellamento in piena regola contro persone inermi e semplicemente affamate.
I romani gli avrebbero suggerito di adottare il famoso detto “panem e circensem”, i Borboni di utilizzare la prima F di Farina-Feste-Forca, ma il prefetto è un uomo ligio al regime e pertanto adotta la terza F, la forca.
Deve punire, dare l’esempio a quei miscredenti e contestatori. E procede ad un arresto in massa: 96 persone, la maggioranza donne, tra cui una con una figlia piccola, e anche un disabile.
Tutte vengono caricate su camion e destinate alle carceri di Lucera, San Severo, Bovino, Foggia e di altre città pugliesi.
L’indomani un fascicolo contro i rivoltosi viene aperto dal procuratore regio disponendo il rinvio di 91 persone a giudizio. “Delle deplorevoli scene di violenza – afferma nell’udienza del 4 settembre – una vera e propria mania di devastazione pervade gli animi dei tumultanti (…). Sì profondo era lo spirito dei sediziosi, così acceso il proposito di sovvertire l’ordine costituito”.
Sarà Radio Londra a dare notizia della ribellione, portandola a esempio per invitare tutti gli italiani a fare altrettanto. I coraggiosi protagonisti di questa vicenda però pagheranno caro.
Delle nostre eroine detenute in carcere, due muoiono dopo poche settimane, lasciando i figli, in assenza dei padri al fronte, privi di tutela. Anche le terre rimangono incolte e abbandonate e pertanto l’intera economia del paese ne risente.
Questa situazione dura quattro anni, quattro interminabili anni, durante i quali gli inquirenti indagano. Il giudice istruttore conclude che 64 degli accusati dovranno rispondere di devastazione e saccheggio (reato quest’ultimo per un paio di scarpe rubate da un minorenne presso la stazione dei carabinieri). A nulla vale l’arrivo degli Alleati, a nulla valgono i Decreti amnistiali del 17 novembre 1945 e del 21 giugno 1946, di cui non si fa menzione nel rinvio a giudizio, quasi che nulla fosse cambiato a livello istituzionale e politico.
La data del processo viene fissata alla primavera del 1950 presso la Corte d’assise di Lucera. Il collegio di difesa, guidato dall’avvocato Quintino Basso, all’inizio del dibattimento presenta l’istanza di concessione dell’amnistia a favore degli imputati, alla luce delle disposizioni del comma 4 dell’articolo 1 del Dl 17.11.1945: “È concessa amnistia per tutti i reati che, prima del 28 ottobre 1922 o durante il regime fascista, sono stati commessi in lotta contro il fascismo o per difendersi dalle persecuzioni fasciste o per sottrarsi a esse”.
Il Presidente prende atto, concede la parola al Pm, che però rimane sordo alle richieste di amnistia e chiede pene pesanti per cinquantasei imputati, mentre per gli altri otto chiede il proscioglimento per insufficienza di prove.
Sarà la Corte d’Appello, composta da due giudici togati e cinque giudici popolari, il 9 giugno 1945, ad accogliere la richiesta di applicazione dell’amnistia e ritenere irrilevanti la sottrazione del paio di scarpe e di un timbro dalla caserma dei carabinieri.
La vicenda si conclude il 18 ottobre 1950 con la sentenza d’inammissibilità di ogni altro ricorso, a seguito della rinuncia, depositata il 12 settembre 1950, del Procuratore presso la Corte d’Assise di Bari.
Finalmente le leonesse possono rientrare a casa e vedere riconosciuti i propri diritti e la propria dignità calpestati da un regime dispotico.
Stefano Coletta, insegnante
Pubblicato sabato 29 Agosto 2020
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