Era il 1993 e Luisa Passerini scriveva in Politiche della memoria: “Il semplice ricordare è inadeguato ai compiti del presente. Ciò che occorre è una memoria della memoria, che riconosce di essere possibile perché riprende e si fonda su una memoria precedente. L’attività del ricordare deve essere riconosciuta come una relazione fortemente intersoggettiva, tra generazioni, luoghi, e tempi diversi”.
Una relazione intersoggettiva che può essere fondata sul collegamento fra le domande che si formano qui e ora e le risposte che vengono dalla memoria di percorsi di vita; ma la memoria è spesso selettiva, può contenere rimozioni, distorsioni, silenzi, mentre occorre individuare percorsi lunghi e ampi fra le domande e le risposte per costruire la consapevolezza di cause comuni tra “generazioni, luoghi e tempi diversi”.
Ciò indurrebbe a identificare un paradigma resistenziale valido ovunque e in ogni tempo per analogie. Però queste possono essere scorciatoie pericolose: la realtà attuale in cui si generano le domande non è il 1943, come non sono comparabili l’insurrezione napoletana del settembre ‘43 e quella settentrionale dell’aprile ’45. Eppure nelle diverse durate, nei diversi contesti scorre il filo di una storia il cui capo è adesso nelle nostre mani e che si impone al nostro giudizio perché ognuno sia capace di determinare, oggi, la soglia dell’intollerabile e la necessità della scelta di cui parlavano Tzvetan Todorov e Claudio Pavone. L’intollerabile e la scelta che possono essere il punto di riferimento comune di cui parlava Luisa Passerini. Un’ottica di questo tipo non solo recupera la relazione fra storia e memoria, ma pone dentro l’orizzonte della contemporaneità sia l’antifascismo della generazione che permise la nascita della democrazia sia le esperienze dei giovani che oggi devono formarsi perché essa viva.
Se questo è il punto di partenza occorre individuare un percorso che unisca memoria e storia attraverso livelli di crescente complessità, occorre chiedersi se la Resistenza possa essere considerata come la categoria generale di tanti singoli episodi, tra cui si può discutere se inserire o no, e secondo quali principi, quelli avvenuti al sud oppure se ci sia un nesso, nel teatro generale degli eventi, fra la periodizzazione minima dei venti giorni napoletani, quella breve dei venti mesi partigiani e quella lunga che arriva fino al presente.
I parametri storici del tempo e dello spazio che videro gli eventi del 1943 sono strettamente coordinati: c’è un fronte che si muove dal sud al nord mutando continuamente l’assetto territoriale degli stati italiani monarchico e repubblicano, e determinando le diverse durate in cui si sviluppano i processi di liberazione che assumono il nome unitario di Resistenza.
Sono processi fortemente legati alle situazioni locali e allo sviluppo delle operazioni belliche, per cui va posta grande attenzione a che cosa abbia significato per le popolazioni il passaggio del fronte, lo stabilirsi delle linee di difesa tedesche, il tipo di controllo che esse crearono nei territori e le forme della reazione popolare, le ragioni della scelta contro l’intollerabile.
Mascalucia, Bari, Barletta, Matera, Nola, Napoli, Sanza, Lanciano, altre città, altri borghi sono tappe di una storia del sud come del nord: negli stessi giorni, in assoluta contemporaneità, a Boves e ad Acerra avvennero rivolte molto simili, e stragi. Dovunque, al sud come al centro e al nord, la storia individua il punto di frattura con il nazifascismo, il momento in cui l’autodifesa diventa azione popolare di solidarietà, mentre si intravedono i contorni di una “zona grigia” fatta di timore, sfiducia, smarrimento e opportunismo.
Fase apolitica, potrebbe sembrare, movimenti tellurici di collera popolare non controllata e non controllabile, destinati a spegnersi. Eppure in quella spontaneità si costituirono legami con l’antifascismo militante, naturale punto di aggregazione nel passaggio all’azione. Così Napoli divenne la prima città italiana che costrinse alla resa le forze tedesche.
Nei paesi del Casertano sulla Linea del Volturno, dal legame fra i militari sbandati delle numerose caserme della zona, le presenze antifasciste e i gruppi popolari nascevano bande che, sottratte o saccheggiate armi nei depositi, cominciarono atti di sabotaggio ai tedeschi. Sul monte Tifata nel comune di san Prisco per due giorni, il 26 e il 27 settembre, mentre cominciavano le Quattro Giornate di Napoli, avvenne la prima battaglia fra i patrioti e le truppe tedesche in assetto di guerra, con gravi perdite di morti e feriti. La salita al monte, la banda, lo scontro armato: era l’alba del partigianato al sud.
Allo stabilizzarsi del fronte sulla Linea Gustav nasceva in Abruzzo la Brigata Maiella che dopo la liberazione del suo territorio nell’estate del ‘44 risalì la penisola combattendo a fianco degli alleati nelle Marche, in Emilia-Romagna, fino al Veneto.
Intanto i militari meridionali dopo lo sbando dell’8 settembre entravano nelle formazioni partigiane del nord, finalmente conosciuti attraverso la ricerca ANPI Il contributo del Mezzogiorno alla Liberazione italiana (1943-1945), mentre negli Stalag tedeschi gli Internati militari del sud e del nord facevano del loro NO alla richiesta di arruolarsi con il III Reich e poi con la RSI, il primo, concreto referendum della nuova Italia. E fu un NO pagato con lunghissimi mesi di schiavitù e con migliaia di morti.
Quando il fronte passò oltre il Volturno e il re si stabilì a Salerno e poi a Roma, cominciò un’altra storia nelle terre meridionali, laboratorio privilegiato per le forze congiunte della monarchia, del governo e degli alleati di quel processo di “normalizzazione” che si preparava per l’Italia intera, ma anche vivaio di energie per la costruzione del patto costituzionale antifascista. É un quadro complesso ma riconducibile a griglie di lettura capaci di spiegare come e perché nella Resistenza ci sia anche il Sud. E come la Resistenza sia stato un processo ampio e articolato, ma unitario nella responsabilità della scelta contro l’intollerabile.
Non basta. I grandi eventi storici generano delle onde lunghe che, attraversando strati tellurici diversi, si ripropongono alla realtà con altre urgenze, altri significati. A uno sguardo superficiale emergono segni da cui sembra che la storia stia tornando indietro con la riproposizione di un fascismo di immagini, di parole, idee, gesti violenti, stracci consunti di memorie sventolati come bandiere trasmesse a nuove generazioni.
Però le generazioni non sono mai la semplice riedizione di quelle passate. Quando la storia sembra tornare indietro sta in realtà intraprendendo un nuovo cammino. Sapere da dove si è partiti, ma saperlo fino in fondo, è oggi più che mai necessario. Nel nord come nel sud.
Pubblicato venerdì 26 Giugno 2020
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