Maria Luisa Tomba (“Teresa”), nata a Bologna nel 1925 in una numerosa e umile famiglia bolognese, partecipò alla Resistenza sin dai primi giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, entrando a far parte del Fronte della Gioventù e poi della 4ª brigata Venturoli Garibaldi.
Abitava a Bologna a Porta San Vitale, ma in seguito al devastante bombardamento che colpì la città il 25 settembre 1943 si rifugiò con la famiglia in campagna a Rovere. E lì un giorno udì la zia, che faceva la modista, parlare con un meccanico, anch’egli sfollato, della raccolta di abiti civili che si stava organizzando per aiutare i soldati scappati dal fronte.
Maria Luisa era diciottenne ma, con la sorella Giuliana di tre anni più giovane, decise in quel momento di voler dare il proprio contributo alla guerra di Liberazione.
Il meccanico le disse di recarsi da una signora bolognese, che faceva da collegamento con Giacomo Giuffa, un giovane avvocato a capo del Fronte della Gioventù emiliano.
Le due ragazze iniziarono così a fare le staffette trasportando documenti falsi, armi, chiodi a quattro punte (solitamente usati per bucare le ruote delle auto nazi-fasciste), vestiti, volantini. Nascosero per un certo periodo in casa anche una macchina ciclostile con cui producevano documenti falsi («stampavamo anche i permessi di lavoro per i nazisti, i tesserini rosa»).
Uno dei luoghi per gli appuntamenti clandestini era in Porta San Felice a Bologna, dove c’era un distributore di benzina: si incontravano con un partigiano detto “il Moro”: «Il suo vero nome era Cuppini, di lui spesso i fascisti ci chiesero informazioni durante la detenzione».
I nascondigli per i volantini erano tra i più insospettabili, per esempio una gabbietta, solitamente adoperata come frigorifero, che stava fuori dalla finestra di una casa usata come punto di scambio, la canna della bicicletta, il fondo della borsa, il pianoforte o la credenza di casa.
«Una volta passammo da un posto di blocco con una rivoltella nascosta sul fondo della borsa, fummo fortunate; mia zia era solita mettere un cappello rosso in vetrina quando nel negozio c’erano i tedeschi, che andavano a comprare il feltro… era un segnale».
Un giorno, mentre durante un bombardamento si trovava nel rifugio dell’ospedale Sant’Orsola, Maria Luisa venne raggiunta da Giacomo Giuffa, che le disse di andare subito a Modena da alcuni loro parenti, senza tornare a casa.
«Evidentemente Giacomo aveva capito che sarebbe stato meglio andare via immediatamente da Bologna».
Maria Luisa fece ben 38 chilometri a piedi per arrivare dallo zio medico, Michele Lovine, che allestiva finti funerali per i partigiani feriti. Lui avrebbe voluto essere aiutato nell’organizzazione, portando orfanelli e coordinando le fughe. La giovane però non restò molto a Modena e decise di tornare a Bologna.
Bologna, tuttavia, non era più sicura per loro, e infatti il 1° gennaio ’45 le due sorelle furono arrestate.
«Quel giorno con Giuliana stavamo per uscire di casa per consegnare dei documenti. Rovistarono in tutta la casa, ma per fortuna la macchina da scrivere non c’era e trovarono solo la carta. Mi giustificai dicendo che l’avevo presa nella cartiera del Manlio, appena bombardata. Non trovarono neanche i documenti nascosti nel pianoforte.
Appena arrivammo in caserma, io chiesi di andare in bagno con mia sorella, così gettammo i documenti nello scarico.
Durante l’interrogatorio, mia sorella venne frustata più volte e la donna di uno squadrista le tirò addosso delle palline di carta aizzandole contro un cane».
Nel carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, Maria Luisa e Giuliana conobbero numerose donne arrestate per i motivi più disparati. Tra queste ricorda tre partigiane: Ivonne Trebbi (“Bruna”, poi dirigente Pci); una donna che partecipò alla celebre battaglia di Porta Lame, avvenuta nell’ottobre ’44 (ma di lei non seppe mai il nome) e Gemma Ferrari Leuzzi, un’arpista del Partito d’Azione, che era stata messa in isolamento.
Durante la detenzione era prevista la confessione della domenica e Maria Luisa, pur non essendo cattolica, ci andava sempre per non far insospettire i carcerieri.
«Un giorno alla fine della confessione io dissi “Sia Lodato Gesù Cristo” e il prete mi rispose, stupendomi: “Viva l’Italia!”».
Dopo 38 giorni di detenzione, le sorelle Tomba furono rilasciate:
«Ci fecero uscire dal carcere, perchè non rivelammo nulla e perchè una parente acquisita si mise in contatto con esponenti della Curia che garantirono il controllo sulla nostra attività. Ci affidarono al professor Pierazzoli, già appartenuto ai servizi segreti dell’esercito, il quale ci ospitò a casa sua. Eravamo nel febbraio del ’45 e quest’uomo aveva tanti strumenti radiofonici che montava e smontava tutte le volte che li usava. Noi andavamo a prendere quotidianamente l’acqua in cantina e un giorno non tornammo più su in casa. Decidemmo di scappare, di andare in campagna (a Corticella) dove sapevamo si trovava un compagno partigiano, Gombi, il quale, pur preoccupato dell’opinione che avrebbero avuto i nostri parenti, ci inserì nell’organizzazione e da quel momento entrammo in clandestinità. Giuliana diventò “Wanda” ed io “Teresa”; fummo assegnate a due zone diverse, in modo che nessuno potesse riconoscerci come sorelle (anche se eravamo molto simili). Rividi mia sorella solo dopo la guerra».
Numerosi sono gli episodi che Maria Luisa ricorda di quel periodo:
«I paesi della mia zona erano Malalbergo, Minerbio, Altedo e Baricella. Nella mia zona, c’era anche una ragazza jugoslava, di nome Mariza. Una volta, mentre dormivamo nel fienile di un contadino, nascondemmo la stampa sotto la paglia; per fortuna il contadino non la sollevò quando la mattina arrivarono i tedeschi; un’altra volta vidi un soldato tedesco nel fosso, gli misi un dito sul collo e capii che era morto, ma non ebbi il coraggio di togliergli la rivoltella».
Mangiava quando c’era la possibilità e molto fecero i contadini della zona.
Imparò dal dottor Palmieri, un medico, le azioni di primo soccorso per aiutare i compagni feriti e a sua volta le insegnò alle contadine.
«Un giorno mi requisirono la bicicletta, come spesso accadeva in quegli anni, e allora per averne un’altra dissi ai tedeschi che ero l’infermiera di uno dei capi tedeschi e che quindi loro avrebbero dovuto procurarmene un’altra. Così lo fecero! Un altro giorno, in campagna, presi una scorciatoia, ma incappai in un comando SS e mi fermarono per interrogarmi. Dissi che ero andata a trovare una compagna di scuola in quel paese. Nei miei documenti trovarono un foglietto su cui avevo segnato gli appuntamenti. C’erano dei disegni che rappresentava facce con dei peli in testa, che erano le ore, e dei peli sul naso, che erano i quarti d’ora. Dissi che erano solo dei disegni e così, per dimostrarlo, dovetti disegnare lì davanti a loro.
Poi il tedesco cercò di tirarmi su la gonna ed io gli tirai un ceffone. A quel punto lui battè i tacchi e fece il saluto, in segno di rispetto. Era la fine della guerra».
Il 21 aprile 1945 Bologna fu liberata e “Teresa” sfilò al fianco alla sua squadra.
La sorella Giuliana, tornata a Bologna la sera prima, sfilò con il suo gruppo in un altro punto della città.
Il giorno della Liberazione è ancora oggi per Maria Luisa il ricordo più bello di quegli anni.
Dopo la Liberazione, a Milano ci fu un bando dedicato a ex partigiani e reduci per riprendere loro gli studi interrotti a causa della guerra. Si trattava dei “Convitti Scuola Rinascita”, fondati da un gruppo d’insegnanti antifascisti e partigiani, tra cui Luciano Raimondi (il cui nome di battaglia era stato “Nicola”).
Anche Maria Luisa e Giuliana avevano interrotto i loro studi, così decisero di rispondere al bando. A Milano Maria Luisa frequentò il Liceo Artistico, dove incontrò Germano Facetti, un ragazzo che era stato deportato a Mauthausen e con cui decise di andare a Roma per frequentare un corso per grafica pubblicitaria. Facetti poi si trasferì a Londra e divenne un famoso designer, il suo taccuino con i disegni e le storie che aveva raccolto durante la detenzione nel lager fu pubblicato molti anni dopo.
A Roma, Maria Luisa conobbe il professor Radice e Alighiero Manacorda (preside del convitto romano).
Rimase nella Capitale per qualche anno cercando lavoro e un giorno incontrò casualmente Luciano Romagnoli, giovane dirigente del Partito comunista, attivo nella Resistenza tra i contadini, divenuto un dirigente della Federterra, che le diede un’opportunità di lavoro come segretaria di Bosi.
In seguito, lasciò il lavoro nell’organizzazione sindacale e, grazie alla conoscenza del pittore Mario Mafai, padre di Miriam, la nota giornalista e scrittrice, incominciò a fare disegni per tessuti in un famoso atelier (Budurio).
«La proprietaria dell’atelier era monarchica. Un giorno dovevano fare un servizio per un giornale e la proprietaria voleva che indossassimo tutte il grembiule con lo stemma della monarchia: io quel giorno non andai a lavoro».
Era un bel lavoro, ben retribuito, ma Maria Luisa decise di tornare a Milano.
Cercò di disegnare e vendere direttamente una sua collezione, ma non ebbe fortuna.
Fece poi richiesta per lavorare a Bologna al genio civile, come disegnatrice tecnica, ma in quegli anni avere un passato come partigiana non era ben visto dalla Prefettura, quindi, nonostante le sue doti, le venne rifiutato l’impiego.
In seguito, grazie al fidanzato di sua sorella Giuliana venne a sapere che il giornale l’Unità stava cercando una correttrice di bozze, ritornò quindi a Milano e incominciò la sua carriera all’interno del giornale. Si occupò negli anni di vari compiti, dal disegnare cartine all’archivio, fino agli anni 80 quando concluse la sua carriera lavorativa.
Negli anni della pensione ha sviluppato la sua passione per la scultura e l’incisione, seguendo corsi in tutta Europa e ottenendo successi con mostre personali.
Emanuela Manco, componente del Coordinamento donne Anpi
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Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
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