La lentezza e la pur encomiabile fatica con cui sono stati prodotti i recenti strumenti normativi di contrasto al fascismo, quali, ad esempio, i regolamenti comunali o, caso di questi giorni, l’estenuante dibattito (tre ore) che ha impegnato il consiglio comunale di Mantova per l’annullamento del provvedimento che, 94 anni fa, attribuiva la cittadinanza onoraria al duce del fascismo, forse più ancora degli episodi di piazze, gazebi e cimiteri da cui si levano saluti romani, per tacere di episodi squadristi come a Como, stanno a dimostrare che l’antifascismo, che pure innerva la Costituzione della Repubblica, non è il paradigma consolidato e diffuso di “autoriconoscimento” degli italiani. Intiepidito come “patto sulle procedure”, che ha caratterizzano l’intera cosiddetta Prima repubblica, o quietamente smarrito in salvifico e generico accordo contro ogni violenza, spesso declinando al tempo stesso la mai sopita voluttà di una memoria equidistante tra “neri” e “rossi”, proprio ora che il fascismo torna ad occupare sotto diverse sigle il palcoscenico di una politica spesso ridotta all’esibizione sgrammaticata di vacue promesse, l’antifascismo sembra diventare terra di nessuno e terra di tanti, indifferentemente accomunati dalla generica pietà per i Caduti partigiani o da un altrettanto generico appello alla Costituzione, allora ultimo frutto di una lotta durata venti mesi, e, in settant’anni, in troppe sue parti, mai rigorosamente applicata.
Noi che scriviamo non siamo estranei alla fatica di cercare le parole per proporre i valori dell’antifascismo nel III millennio. Lo confessiamo con serenità: di quale antifascismo abbiamo bisogno noi, e il nostro Paese che, pure, il fascismo lo partorì e lo vide crescere, nella diffusa acquiescenza e nella lamentosa e autoassolutoria rivendicazione del “tengo famiglia” di tanti?
Forse le parole in cui ci ritroviamo di più, e che vorremmo fossero a fondamento dell’antifascismo di questo nuovo secolo, sono quelle del “meno italiano” degli antifascisti: Piero Gobetti, che muore esule in Francia nel febbraio 1926; e che in Francia riposa, lontano dal Paese di cui ferocemente descrisse nella cortigianeria e nella demagogia, nella assenza di serietà e di responsabilità, nella disoccupazione intellettuale e morale, nel dannunzianesimo straccione e nella assenza di una etica civile, i mali storici che, in maniera determinante, avevano fornito radici al fascismo del ventennio.
“Noi non combattiamo specificatamente il ministero Mussolini, ma l’altra Italia” – scriveva Gobetti di cui il 15 febbraio ricorre l’anniversario della morte. Quell’Italia, cioè, accomodante, preoccupata delle esigenze spicciole e del compromesso con la realtà, attenta al successo immediato e pratico che, sommessamente aggiungiamo noi, permise al fascismo un lungo e florido radicamento nello Stato e nelle coscienze. Fenomeno tutto italiano che non può certo dirsi felicemente conchiuso all’indomani della lotta di Liberazione, che, pure, in talune sue componenti lucidamente vide (e combattè) nel fascismo i mali antichi del nostro Paese: “la tradizione trasformista, unanimista, moderata, conformista e ministeriale, legalista e leguleia, corrotta nel suo gusto di quieto vivere e nel suo rifiuto della chiarezza, adoratrice della mediazione e dell’annacquamento” (Revelli – De Luna, Fascismo e Antifascismo).
Mali che continuano a essere immutabilmente disegnati nelle cronache del presente. “Non può essere morale chi è indifferente” scriveva Gobetti, rivendicando il paradigma di una “incrollabile intransigenza” come valore fondante di un antifascismo disperatamente etico, e perciò disperatamente affidato al futuro di “un’altra rivoluzione”. Meno di ogni altra interpretazione dell’antifascismo comprimibile all’interno del mero arco temporale del fascismo, il canone dell’antifascismo etico di Piero Gobetti ci sembra, ora e qui, quello che davvero può essere destinato a produrre le parole nuove di cui abbiamo bisogno.
Annalisa Alessio e Mario Albrigoni, Comitato provinciale Anpi Pavia
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
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