Nell’ottobre 1952 Il Ponte, rivista fiorentina fondata e diretta da Piero Calamandrei, inaugurava un numero speciale dedicato alla marcia su Roma. L’iniziativa editoriale prendeva avvio nel trentesimo anniversario del colpo di mano fascista e a soli sette anni di distanza dalla conclusione del conflitto mondiale. In tale occasione Calamandrei, osservatore sensibile della realtà del suo tempo, sviluppava una riflessione pungente, puntando il dito contro la «facilità dell’oblio» tipica degli italiani. A suo giudizio, nel Paese si era diffuso un generalizzato senso di ripulsa: la volontà di dimenticare le cicatrici del Ventennio e di rimuovere le macerie della guerra.
Insomma, il «desiderio di “non sentirne più parlare”». Addirittura «si addormentarono anche molti di coloro che dal fascismo avevano sofferto prigione e torture»; agli occhi dei più, infatti, il fascismo appariva come un mondo ormai sbiadito e lontano, popolato da «miserabili fantasmi» e destinato a «inabissarsi per sempre». Con queste parole, Calamandrei coglieva una caratteristica nazionale tutt’altro che effimera, destinata anzi a pesare nella storia del dopoguerra, al punto da protrarsi fino ad oggi, a livelli, forse, persino accresciuti. In tal senso possiamo dire di disporre, a Genova, di un caso emblematico. Si tratta delle vicende della Casa dello Studente di Corso Gastaldi, che nel biennio 1944-1945 divenne quartier generale della Gestapo e teatro di torture a danno di oppositori – o presunti tali – al nazifascismo.
Ebbene, proprio in questo luogo, così importante per la memoria storica cittadina, all’indomani della Liberazione il «desiderio» di dimenticare trovò un terreno fertile. Lo rimarcava, ancora nel 2008, un grande difensore dei valori della Resistenza, l’ex sindaco Fulvio Cerofolini, all’epoca presidente provinciale dell’Anpi, che denunciava la prolungata reticenza a parlare «della Casa delle torture». In effetti quei locali furono consegnati all’oblio per ventisette anni, con tanto di muri e barriere innalzati (materialmente) per nasconderli agli occhi della cittadinanza. Dopo una breve gestione caratterizzata da attriti e polemiche, il Comune li aveva infatti restituiti all’Ateneo genovese, e quest’ultimo, prontamente, si era incaricato di murare i luoghi di detenzione e di tortura. L’edificio tornò dunque, fin dall’immediato dopoguerra, a ricoprire il suo ruolo originario, deludendo le aspettative di chi, invece, avrebbe voluto farne un luogo simbolo per la città. L’operazione avvenne in un silenzio assordante; e se quegli spazi tornarono alla luce, nel 1972, fu solo in virtù dell’impegno di un gruppo di giovani internazionalisti, protagonisti della stagione di lotte che, in quegli anni, investiva il mondo studentesco. Non è nostra intenzione ricostruire tali vicende; quella storia, d’altronde, è stata oggetto di un meticoloso lavoro di ricerca, da cui è nato il libro La Casa dello Studente di Genova. Una pagina della Resistenza di Piero Ferrazza e Luigi Barco (Edizioni Pantarei, 2012).
Ci limiteremo, piuttosto, a descrivere come il lascito di quei giovani sia stato raccolto, preservato e coltivato, nel corso degli anni, da altri giovani, con l’intento di restituire quello spazio alla memoria cittadina. Si tratta di un intento tutt’altro che retorico o commemorativo, che è animato, semmai, da una profonda convinzione: gli ideali della lotta partigiana vanno non solo difesi, ma anche e soprattutto diffusi. Devono essere resi vivi e concreti, specialmente tra le giovani generazioni, le quali, purtroppo, spesso hanno una conoscenza alquanto confusa e lacunosa di quella tragica pagina della nostra storia.
Proprio con questa convinzione, nelle ricorrenze del Giorno della Memoria e del 25 Aprile, si rinnova l’impegno del Centro di documentazione “Logos” e dell’Anpi per rendere accessibili e visitabili i locali della Casa, oggi Museo della Resistenza europea. Le visite si articolano in due momenti: dapprima nelle piccole celle adiacenti alla mensa, sulle cui pareti, ancora oggi, sono leggibili le scritte lasciate dai prigionieri, e poi nel cosiddetto “sotterraneo dei tormenti”. Qui è stata allestita una mostra permanente, con alcuni pannelli che propongono ai visitatori diversi spunti di riflessione. Vi sono, innanzitutto, numerosi estratti delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea: testi che testimoniano la passione e la fiducia in un avvenire migliore che animarono migliaia di giovani, impegnati nella lotta fino all’estremo sacrificio. È esposto, inoltre, materiale fotografico, tra cui un’immagine della Casa nel 1944, cintata dal filo spinato, e una drammatica testimonianza delle torture che avevano luogo nel sotterraneo. E ancora: l’elenco di coloro che sono morti dopo essere passati per la Casa, alcuni racconti di chi è sopravvissuto a quel calvario, e per concludere una lapide in onore di Rudolf Seiffert, operaio alla Siemens di Berlino, assassinato dalla Gestapo nel 1944.
Un operaio tedesco, appunto: a lui vollero rendere omaggio i giovani internazionalisti del 1972, con una scelta senz’altro provocatoria, in un periodo in cui la vulgata dominante tendeva a contrapporre i “bravi italiani” ai “cattivi tedeschi”. Sappiamo invece che anche la Germania fu teatro di una vasta lotta contro il nazismo; così come è noto che, nell’Italia occupata, non furono pochi i soldati tedeschi che gettarono via la divisa della Wehrmacht per unirsi alle formazioni partigiane. Quest’ultimo argomento, peraltro, è stato al centro di un incontro svoltosi il 17 aprile, con Matteo Frulio dell’Anpi voltrese, dal titolo “Tedeschi, disertori, partigiani”.
Le visite sono frutto dell’impegno dei volontari di “Logos”, con il supporto attivo dell’Anpi di Genova e di Alfa (Agenzia regionale per il lavoro, la formazione e l’accreditamento), nonché degli insegnanti che portano le loro scolaresche – centinaia di studenti ogni anno – a visitare la Casa. È un’esperienza che smentisce i classici “mugugni” che tendono a rappresentare i giovani in toto come “svogliati” e “disinteressati”; al contrario, durante le visite si percepiscono, in quegli studenti, una forte curiosità, interesse, anche commozione. E sono moltissime le domande che vengono rivolte durante le conferenze che si svolgono al termine delle visite, incentrate ogni anno su temi differenti. Per citare solo alcune delle iniziative che hanno caratterizzato il fitto programma del 2018, si va dalla storia dei martiri della Benedicta – a cura di Massimo Bisca, presidente dell’Anpi di Genova, e Roberto Rossi, dell’Anpi di Alessandria – alla vicenda dei diciotto professori che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, raccontata dal prof. Marco Martin, fino alla testimonianza di Gilberto Salmoni, sopravvissuto all’orrore di Buchenwald. E dato che oggi come ieri, purtroppo, non manca chi fomenta l’odio agitando temi razzisti e xenofobi, si è organizzata anche un’iniziativa, con la professoressa Daniela Malini, su un tema sempre attuale: “Resistere all’indifferenza”. A inaugurare il ciclo di appuntamenti, invece, è stato un incontro con l’Istituto “Vittorio Emanuele II – Ruffini”, i cui studenti hanno realizzato un video sulla Casa.
Il nostro calendario si è poi arricchito della collaborazione con l’associazione “Memoria della Benedicta”, con un allestimento, opera dell’artista e performer Setsuko, dedicato alla figura di Anna Ponte, detenuta per cinque giorni alla Casa perché “colpevole” di «aver fatto le tagliatelle ai partigiani». Si è parlato anche di lei durante gli appuntamenti di quest’anno, portando avanti un’iniziativa inusuale ma senz’altro efficace: nella mensa universitaria sono state distribuite agli studenti tovagliette-sottopiatto con sovrimpressa la fotografia delle mani di Anna – oggi novantanovenne – che impastano.
Inoltre, grazie ai lavoratori e ai dirigenti della mensa e della Casa, appositamente per l’occasione sono state preparate le tagliatelle; in questa maniera, gli studenti che ogni giorno pranzano alla Casa – circa cinquecento, molti dei quali ignorano la storia delle celle e dei sotterranei – sono stati stimolati a riflettere su dove possano portare il nazionalismo e il razzismo. È un esempio di come la memoria sia in grado di interagire, in maniera proficua, con diverse discipline, dall’arte allo spettacolo, per provare a lasciare un segno, un messaggio forte e chiaro. E il messaggio ha davvero una forza incredibile: i giovani che vengono in visita alla Casa riescono a “toccare con mano”, a comprendere effettivamente cosa siano stati il fascismo e la Resistenza. Riescono a calarsi concretamente in una realtà che, se appresa solo nei manuali di scuola e nei libri, rischia di restare evanescente, impalpabile. Perché, quando lasciano le aule scolastiche per entrare nelle celle e nel sotterraneo, sono materialmente portati a interrogarsi, a “dialogare” con quei giovani che lì hanno sofferto e sono morti. Tra l’altro, molti di quei nomi che leggono sui pannelli affissi nel sotterraneo non sono, per loro, dei “perfetti sconosciuti”: li hanno già “incontrati”, magari andando a scuola o semplicemente camminando per la città, passando per via Ulanowski, per via Spolidoro o via Bellucci, ecc. È un lavoro importante, che va portato avanti: perché se è vero, come si usa dire, che i giovani “sono il futuro”, è altrettanto vero che i giovani sono “il presente”. E solo vivendo nel tempo presente con curiosità, con interesse, con motivazione, impegnandosi in prima persona, partecipando e confrontandosi, quei ragazzi possono custodire e mantenere viva la memoria.
Luca Sansone e Giacomo Lertora, giovani studiosi, collaboratori del progetto per far conoscere la storia della Casa dello Studente di Genova
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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