Nata da una “non vittoria” del centro sinistra, dal previsto exploit del Movimento cinque stelle e dallo stallo elettorale della destra, la XVII Legislatura repubblicana conclusasi a dicembre presenta profili di contraddittorietà che rendono difficile e forse anche poco proficua la pretesa di formulare un giudizio complessivo netto, in positivo o in negativo. Diverso il discorso se si isola un aspetto specifico e si cerca su di esso di costruire una riflessione che si proponga di tracciare, almeno in una certa misura, delle ipotesi di lavoro per il futuro. Per definire il perimetro tematico di questo approccio, viene in aiuto un riferimento temporale che può anche essere assunto come presupposto politico, legato alla ricorrenza del settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione.
Costituzione, Repubblica, antifascismo: se si assumono questi punti di riferimento, è possibile tentare di tracciare una mappa del quinquennio appena trascorso che possa proporsi come guida utile a non perdersi nel labirinto di un discorso politico spesso frammentario e ondivago.
Una grande parte della mappa di questa legislatura, come è noto, è stata occupata dal serrato confronto sulla riforma costituzionale che si è concluso con il voto del 4 dicembre 2016. Per riprendere, almeno in parte, una sollecitazione rivolta su queste pagine dal Presidente emerito dell’Anpi, appare giusto e necessario, a poco più di un anno da quell’evento, tentare di riannodare le fila di una riflessione sui termini di un dibattito che, all’epoca, non ha fatto mancare toni molto aspri.
Al di là di questo aspetto, una ripresa non puramente recriminatoria delle questioni allora sollevate potrebbe concorrere anche a focalizzare un profilo che, in una certa misura, riguarda sia i sostenitori che gli oppositori della riforma Renzi-Boschi: in quei mesi, infatti, il dibattito sulla Costituzione si concentrò in modo pressoché esclusivo sul tema dell’efficienza del circuito istituzionale della decisione politica, e su una contrapposizione (sovente radicalizzata) tra partecipazione e rappresentanza da un lato e stabilità e governabilità dall’alto (quest’ultima unilateralmente enfatizzata nella legge elettorale maggioritaria nota come Italicum); così che, da un lato, i sostenitori della riforma finivano con il presentare la Costituzione come un ostacolo alla modernizzazione del sistema, e poggiavano sovente tale assioma su fantasiose ricostruzioni dei lavori dell’Assemblea costituente e su altrettanto fantasiose previsioni sugli effetti catastrofici della mancata approvazione della riforma stessa; dall’altro lato, obbedendo spesso alle ragioni della polemica contingente, l’opposizione a una revisione che avrebbe avviato una torsione personalistica e decisionista al nostro sistema istituzionale si è manifestata per lo più su un terreno immediatamente politico (salvo rare eccezioni, tra le quali crediamo di potere annoverare la posizione dell’Anpi, che si è spesa per mantenere il confronto sul merito delle questioni), imposto peraltro dai diktat del Presidente del Consiglio pro tempore che hanno trasformato la discussione sui temi istituzionali in uno scontro sul governo. La campagna referendaria, in sostanza, ha finito con il lasciare in ombra proprio il tema che dovrebbe essere al centro di qualsiasi contesa di questo tipo, ovvero la coerenza dell’assetto istituzionale con l’insieme di fini e di valori enunciati nella Costituzione: fini e valori che a suo tempo prefigurarono un modello di democrazia socialmente avanzata, ancora lungi dall’avere trovato piena attuazione a settant’anni dalla sua elaborazione.
Si potrebbe dire, paradossalmente, che nel corso di questa Legislatura, si è parlato troppo e troppo poco della Costituzione: troppo, per quanto riguarda polemiche contingenti spesso mascherate con astratte disquisizioni di ingegneria istituzionale; troppo poco, in quanto poco o nulla ci si è soffermati a riflettere sul fatto che il degrado della qualità della vita politica è riconducibile in larga misura alla sostanziale impermeabilità della maggior parte dei partiti e delle donne e degli uomini che li rappresentano ai valori e ai principi della Carta del 1948. In questo paradosso si possono ritrovare le ragioni di fatti altrimenti difficilmente spiegabili, da ultimo, la mancata approvazione della proposta di legge sul cosiddetto ius soli, caso esemplare della subordinazione di valori e principi a calcoli politici di cortissimo respiro.
La Costituzione, i suoi contenuti, i suoi valori, la sua storia, si annunciano come i grandi assenti della campagna elettorale prossima ventura: assenti nel discorso pubblico delle principali forze politiche, salvo qualche stanco richiamo al presidenzialismo sul versante berlusconiano, ma ben presenti nella dinamica reale degli eventi, se si considera una circostanza che si è imposta di recente ai più distratti osservatori politici, e che riguarda il tentativo dei più attivi nemici della democrazia repubblicana di rialzare la testa e di conquistarsi un proprio spazio anche nell’imminente scadenza elettorale. In sintonia con un processo che assume caratteristiche inquietanti in tutta Europa, infatti, anche il neo fascismo italiano, negli ultimi mesi, ha cercato di farsi largo nell’agone politico e si è candidato esplicitamente a svolgere un ruolo di protagonista. Da ultimo, inoltre, questo intento si è manifestato in vari episodi, tutti sintomatici degli ulteriori sviluppi di una strategia particolarmente aggressiva e, in particolare, di una ripresa dello squadrismo “vecchio stile”, contro giornali e giornalisti, rei di avere svelato i legami affaristici e criminali del neofascismo, contro le associazioni democratiche e i singoli cittadini: un’incoercibile vocazione alla violenza che lascia trasparire i veri tratti del volto “sociale” con il quale i “fascisti del terzo millennio” hanno tentato di cavalcare l’onda del malessere, delle paure e degli egoismi generati da una crisi economica di una gravità senza precedenti. Tutto ciò non ha solo ha suscitato una intensa reazione democratica in tutta Italia, presupposto per un più ampio e unitario movimento antifascista, ma ha anche riportato all’attenzione dei media e di parte delle istituzioni la realtà delle formazioni della destra radicale, realtà peraltro a lungo ignorata da quanti l’hanno considerata un elemento marginale e folcloristico di un sottobosco a metà strada tra politica e delinquenza comune e non invece come una galassia di violenza, xenofobia, razzismo e sessismo, che non rinvia a rischi improbabili di un futuro indeterminato, ma costituisce un fattore concreto e attuale di grave inquinamento della vita democratica, paragonabile, per potenzialità eversiva, alla criminalità organizzata, con la quale peraltro ha da tempo stabilito rapporti di convivenza e collaborazione.
Nella legislatura appena conclusasi la problematica antifascista è stata largamente sottovalutata, come si può desumere in primo luogo dal modo in cui sono state trattate le poche proposte di legge in materia: solo la proposta di legge n. 3343, più nota come legge Fiano, dal nome del proponente, finalizzata a introdurre nell’ordinamento il reato di propaganda fascista, ha raggiunto il traguardo dell’approvazione della Camera dei deputati, arenandosi poi al Senato (cosa che peraltro consentirebbe al prossimo Parlamento di avvalersi delle procedure abbreviate previste dai regolamenti di Montecitorio e Senato per completarne l’iter di approvazione); altre importanti iniziative legislative, come quelle riguardanti il divieto di intitolare monumenti, vie, piazze o luoghi aperti al pubblico a esponenti del regime fascista, o quelle intese a impedire la presentazione di liste elettorali recanti contrassegni o denominazioni esplicitamente riferite al fascismo o al nazionalsocialismo, sono rimaste al palo, arenate nelle Commissioni permanenti alle quali sono state assegnate, nella vana attesa dell’inizio dell’esame.
Non molto diverso il quadro che si presenta se si prende in considerazione la trattazione degli atti di sindacato ispettivo (interpellanze e interrogazioni) tramite i quali parlamentari di diverse formazioni politiche hanno sollecitato il Governo a prendere posizione su iniziative a vario titolo riconducibili al neofascismo; mentre in alcuni casi, come la tempestiva e puntuale risposta del Ministro dell’Interno alle interrogazioni sul divieto della “marcetta” su Roma indetta per il 28 ottobre da Forza Nuova, si può senza alcun dubbio parlare di un atteggiamento positivo da parte dell’Esecutivo, in non poche circostanza, ministri e sottosegretari hanno fornito risposte burocratiche e rituali che, al di là di un ossequio di facciata ai principi dell’antifascismo, si sono poi trincerate dietro un richiamo formale alla normativa vigente, sintomatico di un atteggiamento immobilista e, comunque, dell’intenzione, spesso esplicitata, di non volere adottare specifiche iniziative legislative e di non volersi impegnare per facilitare l’iter di approvazione di quelle già presentate. A titolo di esempio, possono essere ricordate le anodine risposte fornite dal Governo ai numerosi atti di sindacato ispettivo su vicende rilevanti: il monumento dedicato dal comune di Affile al criminale di guerra Rodolfo Graziani (per la quale il tribunale di Tivoli ha recentemente condannato il sindaco e due assessori comunali per apologia di fascismo) o l’intitolazione di una via del comune di Turbigo al gerarca repubblichino Ezio Maria Gray; il caso dello stabilimento balneare fascista di Punta Canna; le intimidazioni ai giornalisti; i giudizi elogiativi espressi su Casa Pound nelle note informative redatte per la magistratura da funzionari di pubblica sicurezza e sostanzialmente avallate dalle risposte dei rappresentanti del governo.
Da quanto qui sommariamente riassunto, emerge un quadro contraddittorio, difficilmente riducibile entro lo schema di una valutazione univoca, ma al tempo stesso indicativo delle difficoltà, delle esitazioni e delle resistenze con cui i tre governi succedutisi nell’arco della legislatura si sono dovuti misurare, non soltanto sulle questioni qui trattate, ma anche nella predisposizione e nel varo di misure rilevanti, soprattutto in materia di diritti civili. Complessivamente, l’azione di contrasto e di prevenzione della violenza fascista, razzista e xenofoba si è rivelata poco incisiva e fortemente carente, al di là di singole iniziative, apprezzabili ma sporadiche, per quanto attiene alla promozione dei valori della Costituzione, sia nelle istituzioni, a partire dalle scuole, sia nella società. Sotto questo profilo, restituire spessore antifascista alla Legislatura che verrà – compito che anche le più ottimistiche previsioni sull’esito del voto preannunciano non facile – implica un impegno a non limitarsi a considerare la questione del neofascismo come un problema solo o prevalentemente di ordine pubblico, ma ad affrontarlo nei suoi molteplici aspetti, come il sintomo preoccupante di una crisi di sistema che si manifesta anche con un marcato calo della fiducia dei cittadini nella capacità delle istituzioni democratiche di fare fronte in modo efficace alle gravi difficoltà di questi anni.
Da una crisi di questa portata non si esce con semplici aggiustamenti di rotta, e tanto meno con ricette miracolistiche sfornate a velocità pari a quella con cui vengono dimenticate. Il richiamo ai valori e ai fini della Costituzione repubblicana costituisce, in tal senso, un punto di passaggio obbligato per la realizzazione di una proposta politica di più ampio respiro che, al di là delle singole prospettive programmatiche, ponga al centro dell’attenzione il tema di una profonda riforma intellettuale e morale della vita pubblica, che miri a restituire alle istituzioni e ai partiti l’autorevolezza e la credibilità così gravemente logorate in questi ultimi anni.
Pubblicato martedì 23 Gennaio 2018
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