Schierati in un gruppo compatto, fianco a fianco, tenendosi sottobraccio, ben stretti, avanzavamo come una falange macedone: eravamo i parlamentari di sinistra, seguiti da un corteo di cittadini, che era abituale, allora, definire “democratici”. “Democratici di passaggio” spesso ironizzavamo tra noi. Quei cittadini infatti non erano certamente “di passaggio”, non vi si trovavano casualmente: erano convenuti grazie a una mobilitazione: compagni del Pci, militanti socialisti, iscritti all’Anpi, antifascisti romani erano accorsi in gran numero. In testa al corteo veniva recata una corona d’alloro rotonda con il nastro tricolore da deporre sulla lapide di Porta S. Paolo che ricordava i soldati e i civili italiani caduti nella resistenza alle truppe naziste dirette a occupare la capitale l’8 settembre 1943. Eravamo a piazza Albania. La decisione di andare in corteo a portare la corona alla lapide di Porta S. Paolo, malgrado la manifestazione contro il governo Tambroni, in precedenza autorizzata, fosse stata vietata dal Prefetto di Roma solo mezz’ora prima dell’appuntamento – un’autentica e voluta provocazione! – era stata adottata durante una concitata riunione improvvisata, convocata da Paolo Bufalini, allora segretario della Federazione romana del Pci, non ricordo bene dove, forse nella sede della sezione del Pci di S. Saba. Si era deciso, per “forzare il blocco” – l’idea era stata proprio di Bufalini –, di mettere tutti i parlamentari in testa al corteo.
Era il 6 luglio 1960. Ci si trovava in un momento climaterico, di acuta tensione politica. Come vi si era giunti? In febbraio il Partito liberale, diretto da Giovanni Malagodi, aveva tolto l’appoggio al governo di Antonio Segni, che, di conseguenza, si era dimesso. Si era aperta una crisi lunghissima e ricca di mutamenti di fronte: prima un “incarico esplorativo” al presidente della Camera Giovanni Leone, poi, dopo la rinuncia di Leone e il rifiuto di Attilio Piccioni, l’incarico era stato nuovamente affidato a Segni, il quale, vista l’impossibilità, per l’opposizione di una parte della Dc, di formare un governo che si reggesse sull’astensione dei socialisti, aveva rinunciato. Il 26 marzo Gronchi aveva affidato abbastanza inopinatamente l’incarico a un fanfaniano suo amico, Fernando Tambroni. Il Ministero presieduto da Tambroni aveva ottenuto in aprile la fiducia della Camera col voto determinante del Msi.
Tre ministri democristiani (Bo, Pastore e Sullo) e tre sottosegretari (Antonio Pecoraro, Nullo Biagi e Lorenzo Spallino) avevano immediatamente abbandonato il governo. La Direzione Dc aveva dovuto chiedere al Gabinetto Tambroni di dimettersi. Dopo un incarico a Fanfani perché tentasse di comporre un governo tripartito con l’appoggio del Psi, tentativo abortito ancora una volta per l’opposizione interna Dc, Gronchi aveva respinto le dimissioni di Tambroni, che a fine aprile aveva ottenuto anche la fiducia del Senato, sempre con i voti determinanti di monarchici e missini. La Dc aveva votato la fiducia “fino al 31 ottobre”, una fiducia “tecnica” per garantire l’approvazione del bilancio.
Situazione torbida, dunque, confusa e di tensione. Ma il casus belli era sorto con la decisione del Movimento sociale italiano di tenere il proprio Congresso nazionale a Genova. Ai cittadini del capoluogo ligure l’idea che si potessero riunire a congresso i neofascisti di Giorgio Almirante nella loro città, Medaglia d’oro della Resistenza, era parsa una intollerabile provocazione. Ed era chiaro che i missini se lo potevano permettere solo perché coperti dal governo, ben deciso a proteggerli perché determinanti della sua maggioranza.
Quasi spontaneamente erano cominciate fermate del lavoro nel porto e nelle fabbriche, poi erano scesi in corteo i docenti universitari; la protesta era estesa e capillare: si narrava che persino nei pitali dentro ai comodini delle camere da letto negli alberghi prenotati per il Congresso fosse stato scritto “via i fascisti da Genova”. E soprattutto erano scesi in piazza migliaia e migliaia di ragazzi giovanissimi, alla loro prima manifestazione: una nuova generazione in campo, che, dall’abbigliamento caratteristico, venne definita “la generazione delle magliette a strisce”. La repressione da parte della polizia era stata dura, scontri, feriti, arresti. Il 28 giugno Sandro Pertini aveva parlato in una grande manifestazione organizzata da Pci, Psi, Psdi, Pri, radicali e dalle associazioni partigiane. Il 30 giugno un grande corteo antifascista era stato violentemente bloccato dalla polizia: 38 i feriti.
A Genova si reagì proclamando lo sciopero generale, mentre la protesta si estendeva ad altre città italiane. In questo contesto si collocava la manifestazione indetta a Roma.
Così ci muovemmo, preceduti dalla corona, lungo viale Aventino. Fatti pochi passi, prima ancora di raggiungere Porta S. Paolo, cominciò il finimondo: la cavalleria, guidata da Raimondo d’Inzeo, caricò la testa del corteo, su cui si rovesciava il getto di acqua colorata degli idranti, e intervenivano le camionette della celere. La folla si disperse per i giardinetti dietro l’ufficio postale Ostiense, per le scale che salivano tra le case verso S. Saba e per le vie del vicino quartiere Testaccio. Si scatenò una vera e propria guerriglia urbana: i manifestanti si difendevano dalle cariche gettando sulla polizia tutti gli oggetti che riuscivano a trovare. Franco Rodano, Ugo Bartesaghi ed io non so come ci ritrovammo illesi e asciutti in mezzo alla confusione. Pietro Ingrao però, e un parlamentare socialista di Bologna, l’on. Gian Guido Borghese, vennero feriti dalle manganellate e furono subito portati alla Camera: entrarono sanguinanti in aula, dove avvenne un vero putiferio.
Quella decisione di portare la corona a Porta S. Paolo avrebbe avuto conseguenze di non poco conto: gli eventi di Roma – l’attacco ai parlamentari che guidavano il corteo, il ferimento di alcuni di loro – scatenarono scioperi generali e manifestazioni in tutta Italia, innescando una serie di drammatici scontri: 5 uccisi dalla polizia il 7 luglio a Reggio Emilia, 4 a Palermo e a Catania l’8 luglio. Il 9 ai funerali dei morti di Reggio Emilia parteciparono 80.000 persone. Il 19 luglio il governo Tambroni fu costretto a dimettersi. L’incarico tornò a Fanfani; si costituì un governo monocolore democristiano, che ottenne la fiducia del Senato il 3 agosto e alla Camera il 5 agosto, grazie al voto favorevole di Dc, Psdi, Pri e Pli e all’astensione di socialisti e monarchici. Votarono contro comunisti e Msi: Aldo Moro lo definì – definizione tanto contraddittoria quanto destinata a restare famosa – il “governo delle convergenze parallele”. Dopo mesi di manovre, di scontri di piazza, di morti e feriti vedeva la luce una nuova fase della politica italiana: l’astensione socialista apriva la strada al centro-sinistra, una strada, però, ancora lunga e tortuosa.
Marisa Rodano, partigiana, già deputata, senatrice e parlamentare europea
Pubblicato mercoledì 1 Agosto 2018
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