Immagini residue (Powidki, 2015) è l’ultimo film di Andrzej Wajda. Giunge alla festa del Cinema di Roma senza di lui, spirato proprio l’8 ottobre, a Varsavia. Come per un addio, il regista polacco torna qui all’amore dell’infanzia, la pittura, ispirandosi alla figura e alla vita travagliata dell’artista Vladyslaw Strzeminski, astrattista, discriminato negli anni 50 dalla cultura ufficiale, obbediente al “pompierismo” sovietico imperante, il realismo naturalistico.
Nel panorama europeo, Wajda è un maestro riconosciuto, cultore del visuale per una innata disposizione al disegno fin dall’infanzia, capace di trasmettere nel cinema i fremiti di eventi storici e letterari. Lega la sua ricca attività (40 film e numerose regie teatrali) alle vicende e inquietudini della polonità. I suoi film, subito apprezzati dai cinefili, rinnovarono nel suo Paese lo stile di stampo politico e descrittivo. Il suo linguaggio attingeva alle esperienze surreali ed espressioniste della letteratura, del teatro nazionale e internazionale. Fotogrammi e sequenze erano accuratamente studiate in chiave espressiva come dimostrano le immagini intense di Kanal (I dannati di Varsavia, 1957) rievocanti l’eroica insurrezione del Ghetto polacco. Il contrasto fra buio e luce opponeva disperazione a salvezza nella sequenza della fuga attraverso le fogne di un gruppo di patrioti assediati dai tedeschi. Cenere e diamanti (1958) dal contenuto controcorrente, toccava invece il tasto dolente del nazionalismo polacco. Il protagonista, Macjek, membro dell’Armia Krajowa (l’esercito clandestino antinazista diretto dal governo in esilio di Londra) dopo la vittoria nel 1945 e l’avvento del regime comunista, è un perdente, che compie un atto terroristico uccidendo Szczuka, segretario del partito. Nella parte si evidenziava la verve drammatica dell’attore Zbigniew Cybuklski. Il film, accusato in patria di ambiguità e formalismo, fu invece apprezzato in Europa per le qualità estetiche e l’individuazione delle contraddizioni dell’epoca.
Con Sansone (1961), pregnante storia di un giovane ebreo durante l’occupazione hitleriana di Varsavia, ritorna il tema della strenua rivolta del Ghetto, con paralleli biblici. Lotna (1969) film simbolico e romantico evoca il ruolo storico della cavalleria polacca nella difesa dei valori nazionali, eco del ricordo del padre perito a Katyn, ufficiale in quelle formazioni. Paesaggio dopo la battaglia, (1970) ambientato in un campo di concentramento tedesco dopo la liberazione, sviluppa la problematica della difficile scelta del futuro da parte di un giovane ex prigioniero che alla fine decide di tornare nella Polonia comunista. Il bosco di betulle (1971) ci offre una visione onirica nella pace della foresta tra sogno e realtà, ricca di ritmi poetici e suggestivi.
Nel 1976, la messa in scena televisiva di La Classe morta (1976) pièce teatrale grottesca di Tadeusz Kantor, ci offre un capolavoro corrosivo sull’uomo la Storia e la cultura.
In Italia i film del regista polacco erano noti soprattutto ai critici apparendo al massimo nei festival e cineclub. Fu l’emblematico L’uomo di marmo (1977) a far balzare quel nome in primo piano, in un momento di grandi fermenti e tensioni politiche. Il film, centrato sulla figura dell’operaio stakanovista Tadeusz Birkut, l’eroe dei 35.000 mattoni in un unico turno, che lavora generosamente per il socialismo, dedicandosi anima e corpo alla produzione, fu il simbolo di una generazione di idealisti, credenti comunisti in un sistema ormai in crisi e irto di contraddizioni. La giovane cineasta Agnieszka, che indagava sul destino del campione dopo la sua caduta in disgrazia, s’imbatteva in un fitto reticolato di censure reticenze e silenzi.
Nel settembre del 1980, durante il Festival cinematografico di Danzica, nella riunione a porte chiuse dell’Associazione cineasti polacchi, Wajda pronunciò un importante discorso sulla situazione del cinema e sulla responsabilità del regista. Quest’ultimo aveva il dovere di dire la verità sullo stato delle cose. E la parola d’ordine della libertà era “ormai inscindibile dal programma del socialismo in Polonia”.
Con il successivo L’uomo di ferro del 1981, nel culmine delle conflittualità sociali, sull’onda della lotta di Solidarnosc contro il sistema autoritario, Wajda rappresentò fatti e figure della contestazione operaia nata nei Cantieri navali di Gdansk e nelle università e gli ostacoli alla trasparenza da parte governativa. La pellicola, accolta dapprima da certa nostra cultura come utile propaganda contro il socialismo in sfacelo, fu ben presto trascurata, quando apparvero le scene della repressione poliziesca polacca stranamente somiglianti a quelle che si stavano svolgendo nelle nostre piazze, col movimento giovanile schierato contro i meccanismi violenti del potere.
Wajda non sceglie a caso i suoi personaggi e i momenti storici, ricchi di allusioni al presente. La figura di Danton gli ispira nel 1982 il film omonimo forte e metaforico sui guasti del potere rivoluzionario. La trasposizione del romanzo di Fjodor Dostoievski i Demoni (1987) riflette accanto al fascino della letteratura il bisogno morale di rivoltarsi contro la crudeltà e i crimini del passato e del proprio secolo. Nel 1990 spicca l’umanissimo Dottor Korczak, in un bianco e nero significativo, ricordo esemplare del medico Henrik Goldszmit che non abbandonò i piccoli pazienti ebrei arrestati dalla Gestapo e li accompagnò nell’ultimo viaggio fino al lager di Treblinka. Dopo Pan Tadeusz (2000) colossal non privo di enfasi tratto dal poema epico di Adam Mickiewitz che condensa le istanze nazionaliste dei polacchi ed ha fortuna soprattutto in patria, il regista, memore dell’antico impegno di glaznost, affronta in Katyn (2007) un argomento per anni tabù. Nel 1944 i sovietici fucilarono nella foresta, presso Smolensk, circa 22.000 prigionieri di guerra, ufficiali dell’esercito polacco e funzionari ritenuti oppositori del regime. L’episodio terribile e inquietante nella storia della Polonia, scomodo per l’Unione Sovietica, tenuto segreto per anni negli archivi ufficiali e attribuito ai nazisti, rivive in tutta la sua drammaticità, compresi gli atti persecutori contro chi cercava la verità.
Guerra contro il nazismo, shoah, stalinismo, sono gli eventi che fanno parte del vissuto di Wajda ed entrano nella sua tematica, facendone un testimone delle vicende e sofferenze del suo e di altri popoli nel ’900, secolo di massacri. La sua conclusione filosofica è la dolorosa inutilità di tanti sacrifici umani, il suo messaggio un auspicio libertario.
Nel film L’uomo della speranza (2013) ritrae Lech Walesa (Robert Wieckiewicz) il semplice operaio dei cantieri di Gdansk che diviene, sull’onda portante degli avvenimenti e con l’appoggio della Chiesa, leader del movimento di Solidarnosc. Ricostruisce il personaggio ispirandosi all’intervista del 1981 di Oriana Fallaci (Rosaria Omaggio) trattandolo con humour e vigore nella tipicità, nelle doti e nei limiti. Lech dice di sé, riassumendosi a perfezione, “Io sono solo un uomo che vuole un po’ di giustizia”.
L’ultima fatica d’autore ci introduce negli spazi di linee e colori di Sztreminski (Boguslaw Linda) esponente dell’avanguardia polacca, allievo di Malevic e amico di Chagall, e nella sua difficile esistenza. Il filo conduttore delle frustrazioni l’indigenza pagata per le proprie scelte creative e la fierezza contro il muro burocratico della dittatura, mostrano appieno nel racconto filmico la dignità dell’ideatore e l’impari duello col potere. Così Wajda ribadisce con le immagini il valore dell’arte come alternativa alla morte e alla sudditanza e la sua sfida alle ingiustizie dei tempi.
Pubblicato lunedì 31 Ottobre 2016
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