“Io aiuto la mamma a portare le pietre” dice di sé Saroo, il piccolo protagonista di “Lion – La strada verso casa”, diretto da Garth Davis e basato sull’omonimo libro autobiografico di Saroo Bierley. In queste parole c’è tutta la storia vera del protagonista, la sua infanzia in un piccolo villaggio dell’India, quella di un bambino, abituato a “dare, a lavorare”. Infatti lo vediamo rendersi utile alla madre (Priyanka Bose), povera bracciante che raccoglie pietre dalla montagna, o seguire Guddu il fratello più grande in imprese rischiose, saltando sui treni in corsa per arraffare qualche sacchetto di carbone e poi scambiarlo con buste di latte o a trasportare balle di fieno.
Il film di impianto realistico, commovente e di nobile contenuto, è dedicato all’infanzia ferita e sfruttata dell’India e di tutto il mondo, a chi non ha voce e paga le spese del cinico sistema di ingiustizie che da sempre governa il globo. Non è solo il profilo melodrammatico e di suspense a coinvolgere da cima a fondo i sentimenti dello spettatore, ma la citazione di valori di grande livello etico come la solidarietà, l’amore disinteressato verso l’altro contrapposti ad un ambiente sconvolto dalla miseria, dove sono sempre in agguato la corruzione, l’indifferenza, la cattiveria e il sopruso sui deboli. Questi messaggi prevalgono sui fattori stilistici. Non a caso il film ha ottenuto, al Festival mondiale di Toronto del 2016, il 2º Premio del Pubblico.
Un altro elemento interessante è il contrappunto, tra la modernità informatica, velocemente sviluppata col business, e l’altra faccia del Paese, l’antichità e l’abbandono degli angoli remoti nella sconfinata geografia, con le sue scene di povertà. Se la rete sarà lo strumento prodigioso per restituire a Saroo le sue radici, il contrasto è nell’immagine di quei vagoni ferroviari che sappiamo sempre teatro di terribili incidenti e che qui vediamo in una versione deserta e angosciosa o assaltati da masse formicolanti di umani.
La storia, interpretata da Sunny Pawar (un bambino dal vero talento, dall’intensa espressività) è dunque profondamente emblematica e richiama tutte le possibili analogie con i piccoli umiliati e offesi ovunque nel pianeta.
La svolta drammatica avviene quando Saroo si rifugia su un treno mentre aspetta il fratello, impegnato in un lavoro notturno. Ha solo cinque anni, ha troppo sonno e non ce la fa a seguirlo. Il treno però non è in servizio e parte d’improvviso strappandolo per sempre dal suo piccolo villaggio. Sembra un incubo, un brutto sogno. La destinazione è Calcutta, lontana 1.600 chilometri. Nelle rare soste nelle stazioni di passaggio, le grida d’aiuto del ragazzo rimangono inascoltati fino all’arrivo nella metropoli, rumorosa e caotica. Saroo riesce a sopravvivere sfuggendo alle insidie di sfruttatori e pedofili, fino a che non viene internato in un orfanotrofio, luogo di ulteriori umiliazioni e paure. Un’adozione fortunata lo porterà a Hobart in Tasmania. La coppia di benefattori australiani, Sue (Nicole Kidman) e David (David Wenham) lo accoglie a braccia aperte. I due hanno fatto una scelta generosa, decidendo di non avere figli propri ma di divenire genitori di bambini diseredati. Così Saroo crescerà amato e seguito, studierà in un ambiente illuminato e privilegiato chiamando i due mamma e papà. A lui si aggiungerà un altro fratello adottivo, Mantosh (Divian Ladwa), un ragazzo problematico e tormentato, elemento conflittuale del percorso. Ma Saroo (ora ben interpretato da Dev Patel), a cui non mancherebbe niente, venticinquenne universitario e sportivo, innamorato di Lucy, ragazza dolce e comprensiva (Rooney Mara) non riesce a dimenticare le sue origini. È ossessionato dal ricordo del volto materno e del fratello. Turbato da questa memoria, risvegliata anche da vaghi frammenti visivi e dal colore e sapore degli jalebi, dolci tipici della sua terra, finisce col ricorrere al programma di Google Earth. Il progresso tecnologico gli offre i mezzi per rintracciare la casupola familiare nel Khandwa, così importante al suo cuore e alla sua identità. È un puntino nascosto e introvabile ma non sfugge all’occhio del programma. Lo scorrere delle mappe riproduce a ritroso il cammino dell’esilio.
Saroo non osa però condividere la scoperta con Sue, temendo di ferirla. Solo alla fine si renderà conto che la donna non rifiuta il suo passato affettivo. La Kidman, che la impersona ottimamente (anche lei madre adottiva) dice in un’intervista che la parte riflette la sua esperienza personale e che il momento clou delle sequenze è stato per lei quando la madre prende il volto di Saroo tra le mani e gli augura di trovare la vera genitrice.
Il film apre in proposito un argomento importante. Ogni affetto ha il suo posto particolare, autentico e insostituibile, non esclude gli altri. L’abbraccio finale tra le due donne darà consistenza cinematografica a questa verità umana e civile.
La narrazione, malgrado qualche lungaggine nel secondo tempo, trova i suoi risultati migliori nel confronto tra la minima statura del bambino e i grandi spazi allucinanti, ponti e stazioni deserte o brulicanti di misere folle, immagini dell’India complesse e sofferenti, valide anche sotto il profilo sociologico. Seguiamo il piccolo solitario, imprigionato nel gelo metallico di un treno che corre per chilometri fino al Bengala, la regione lontana, di cui egli non conosce la lingua. Lui parla hindi e non pronuncia neppure bene il suo nome che significa “leone”, né quello della mamma che chiama solo “mamma” o del suo paesino immensamente distante. Poi lo vediamo farsi largo nella moltitudine dei mercati gremiti, o negli anfratti della metropolitana di Calcutta sempre in corsa per salvarsi dai cattivi o dalla polizia ostile. Un bambino che si è perduto, ma vuole vivere e sa già come reagire come confermano le sue fughe per evitare il pericolo “uomo”.
Il film mette anche in evidenza il ruolo dello sguardo, quella comunicazione intensa ed elementare che traduce una richiesta di aiuto e una risposta. Lo sguardo è il miglior veicolo dei messaggi d’amore. Quegli occhi scuri e profondi con il loro linguaggio sono più eloquenti di una battuta. Ritroviamo il valore del gesto nella toccante sequenza degli emarginati, sdraiati nel sottopasso della metropolitana, quando un altro minore, dopo averlo fissato in silenzio, offre a Saroo un cartone per coricarsi.
Tra le sequenze di forte effetto emotivo, ricordiamo l’incontro con la madre, l’avvicinarsi graduale e carico di trepidazione di due persone segnate dal tempo trascorso che si sono a lungo pensate e cercate. Procedono quasi incredule, l’una incontro all’altra.
“La mia felicità è profonda come il mare” – dirà la madre dai tratti invecchiati ma luminosi. Parole semplici e significative di un film empatico che trasmette la forza della perseveranza.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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