Il cinema – e non solo – vive di colpi di genio. È indubbio che un giovane George Lucas ne abbia avuto uno notevole nell’inventare la figura di un archeologo, molto colto ma altrettanto dinamico, capace di vivere grandi avventure. Il fascino dell’archeologia unito a quello di un personaggio che coniuga cultura e azione, un dotto professore universitario capace di menare forte, il tutto espresso nello stile del cinema e del fumetto americano di avventura degli anni 30. Un personaggio in cui è facilissimo immedesimarsi.
Ma Lucas ne avrà un altro, di questi colpi: affidare la regia del primo film di quella che diventerà una serie, che si protrarrà per 42 anni, all’amico Steven Spielberg, talentuoso regista di grandi capacità, soprattutto nel passare da registri diversi per narrare le storie che propone al suo pubblico (e la Storia gioca quasi sempre un ruolo fondamentale per i soggetti che traduce in film o produce). I due sono a pieno titolo genitori e custodi del personaggio, visto che sono anche i produttori dei film: Spielberg ne dirigerà quattro, l’ultimo passa nelle mani di James Goldman.
Il personaggio di Indiana Jones (al secolo Henry Walton Jones junior, classe 1899) diventerà uno dei più amati del cinema contemporaneo: mi ascrivo senza pudore tra i suoi fan. Interpretato sempre da Harrison Ford, vivrà il destino di invecchiare attraverso l’attore (non come l’Agente 007, che cambia pelle dal 1962 per rinnovare il cast), diventando una icona cinematografica che appassiona il pubblico da tempo.
Diranno i lettori di Patria Indipendente: Andrea, ti ricordi che stai scrivendo per il periodico dell’Anpi? Certo.
I nemici di Indiana Jones, in ben tre film su cinque (negli altri due: i membri di una setta indù e i sovietici del 1957), sono i nazisti. E vi dirò: descritti in modo del tutto efficace.
Del resto il suo ideatore esordisce alla regia con un film sul totalitarismo come L’uomo che fuggì dal futuro, e la saga di Guerre Stellari ha un’impronta anti-nazista ben determinata (basti pensare alla contrapposizione tra Impero e Repubblica, e l’elmetto del cattivissimo Lord Darth Vader – nonché il suo abbigliamento – è di foggia tedesca).
Steven Spielberg non è da meno: riflettendo sulla sua origine etnico culturale, l’ebraismo, ha fatto in tal senso un ottimo cinema militante. Film come Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan (da cui nasce la serie televisiva Band of Brothers, sui soldati americani che combatterono la II Guerra Mondiale) sono indubbiamente letture storicamente adeguate della lotta al nazismo. Aggiungiamoci le tematiche antirazziste in Il colore viola, Amistad e Lincoln e possiamo definire il pedigree di un cineasta di sicura fede progressista (non a caso sostenitore del Partito Democratico statunitense).
Nel 1994 Spielberg fa una cosa molto importante: crea la Survivors of the Shoah Visual History Foundation, destinata a raccogliere e catalogare il materiale audio-video delle testimonianze di sopravvissuti e testimoni del tentato genocidio del popolo ebraico (nonché di Rom e Sinti).
Un’accoppiata di grandi uomini di cinema ben qualificata per raccontarci, in chiave popolare, chi sono i nazisti. Avete letto bene: chi sono, non chi erano. Spielberg e Lucas lo fanno nel primo, terzo e quinto film della saga. La ricerca di elementi esoterici per vincere la guerra corrisponde a realtà (primo film); i roghi di libri che segna una delle scene più belle la troviamo nel terzo; ma è nel quinto (che dovrebbe chiudere la saga, a detta di Harrison Ford: “Sono Indiana Jones. Quando me ne vado, lui se ne va”. Al cinema, dunque, “mai dire mai”) che si dicono cose molto interessanti su quanto accaduto dopo la II Guerra mondiale. Soprattutto su come alcuni nazisti arrivarono negli Stati Uniti per aiutarli a vincere la Guerra Fredda e la Corsa allo Spazio.
Il personaggio (di terribile cattiveria, forse il più nazista di tutta la serie) di Jurgen Voller sembra rimandare alla figura di Wernher Von Braun: Voller è rimasto radicalmente nazista e cerca il quadrante del destino, inventato da Archimede, per tornare indietro nel tempo e far vincere la guerra al III Reich. Lettura storica non banale e ampiamente suffragata dai fatti.
Non voglio avanzare ipotesi sul perdurante nazismo di von Braun, ma devo anche annotare che il personaggio del dottor Stranamore dell’omonimo film di Stanley Kubrick è chiaramente lui… Un passaggio di sceneggiatura non così scontato, direi. Come non scontato è il fatto che i cattivi siano i seguaci di Hitler (quest’ultimo compare nel terzo film in una scena assai divertente), ma soprattutto che si sia in grado rappresentarli in modo efficace.
La cinematografia sembra distante dal revisionismo: il nazifascismo non viene ripensato, resta il nemico per antonomasia. Forse perché la cinematografia statunitense resta sotto l’influsso del come si prodigò per motivare il conflitto, operando un’opera di convincimento a partecipare alla guerra e sostenerla economicamente (a riguardo si veda il magistrale Flags of our Fathers, 2006, di Clint Eastwood: che sarà di destra, difficile perdonargli il sostegno a Trump, ma non fa film reazionari).
In questi film i nazisti sono odiosi nel modo giusto: assolutamente indifferenti alla vita altrui, capaci di manipolare e ricattare, totalmente succubi di un disegno omicida a cui si dedicano con ferocia, razzisti. Per cui, vedendoli sullo schermo, non puoi fare il tifo per loro o provare un benché minimo senso di simpatia. Raccontare il male senza farne subire il fascino: in altri ambiti, a esempio i film sulle mafie, è assai difficile. O meglio: si sceglie spesso di fare una elegia della figura del mafioso, a partire da un grande malinteso sulle mafie stesse. Che è quello di ritenere che il codice di onore mafioso abbia una sua fosca grandezza. Errore capitale: non ha onore chi uccide persone inermi, disprezza il bene comune, offende la dignità collettiva. È come se le vittime avessero meno fascino e sia difficile costruire un film spettacolare su di loro.
Pensiamo però a un film come I cento passi di Marco Tullio Giordana dedicato a Peppino Impastato, che realizza un ribaltamento di quanto detto prima: ci si appassiona alla vicenda di un attivista politico, di famiglia mafiosa, riflettendo su come si possa sfidare un potere negativo così forte affermando così una dignità morale più alta di chi lo assassinò.
Si ripensa alle nostre infanzie e forse film come quelli di Indiana Jones, magari senza che ce ne accorgessimo del tutto, hanno contribuito a farci avversare le ideologie di cui si parla. Personalmente penso a un film come Il buio oltre la siepe che, visto da piccolo, posso citare come uno dei testi (molto bello anche il romanzo) che mi hanno fatto maturare un viscerale anti razzismo. Penso occorra una predisposizione da cercare prima sul piano culturale: vedere sul grande schermo i nazifascisti che le buscano e vengono sconfitti è sempre stata una grande soddisfazione, comunque.
In un (per me grande) film dell’anno precedente ai Predatori, il 1980, abbiamo visto i membri del Partito Socialista Americano dei Bianchi finire nel fiume dal ponte dove stavano facendo una manifestazione (con tanto di bandiere con la svastica) bloccando il traffico, per non farsi travolgere da un’auto che irrompe. Sull’auto due fratelli, Jake “Joliet” e Elwood Blues, The Blues Brothers. Scena mitica e di culto la battuta di Elwood, prima di mettere in moto: “Io li odio i nazisti dell’Illinois”.
Sinceramente: anche quelli che non sono dell’Illinois.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato sabato 22 Luglio 2023
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