“Il denaro è un ferro da stiro: dove passa raddrizza tutto”, dice la madre del protagonista di Parasite, il film di Bong Joon-ho, regista tra i maggiori del cinema sud-coreano che ha ottenuto meritatamente la Palma d’oro a Cannes.
Il film è un affresco incisivo della disuguaglianza e delle sue conseguenze. Sì, la ricchezza ripulisce e garantisce, spiana le rughe, mentre la povertà penalizza i disoccupati del mondo di sotto, che sguazzano nelle loro tane allagate, intossicati dagli spruzzi di insetticidi, tra puzza, scarafaggi, topi, cibo inquinato e ubriachi che pisciano vicino alle loro finestre. Gli umiliati però afferrano l’inganno come un pugnale e si presentano come esperti, gente per bene, pronti a servire i loro padroni e a sostituirli.
Vediamo due famiglie che si specchiano: i King e i Park. Gli stessi rispettivi cognomi, tra i più comuni in Corea del Sud, li rendono simbolici.
Il giovane King woo, vive di espedienti col padre Ki-taek, la madre Chung-sook e la sorella Ki-jung in un lurido seminterrato, finché un amico non gli offre un posto di insegnante di inglese nella splendida villa dei ricchi Park per istruire la figlia Da-hye, una ragazzina svogliata.
La menzogna con destrezza del ragazzo, abile e talentuoso e una certa preparazione tecnologica gli permettono di conquistare la fiducia dei padroni e di inserire non solo se stesso nel clan benestante, ma progressivamente tutti i suoi familiari. Con un piano diabolico, King woo inizia col convincere la signora, poi la figlia e Mr Park dong-ik. Grazie alle bugie e a falsi documenti fa entrare uno per volta in casa la madre, come governante, il padre come autista e la sorella insegnante di disegno del figlio più piccolo, capriccioso e bizzarro. E tutti collaboreranno negli intrighi.
Un’incognita si presenta però d‘improvviso. La governante già assunta in precedenza, dall’architetto Namgoong, ex proprietario e rimasta in casa Park, nasconde da anni il marito sbandato nello scantinato, rifocillandolo. La donna che i truffatori hanno già fatto licenziare con un perfido pretesto perché scomoda per i loro raggiri, li sorprende mentre bivaccano in assenza dei proprietari. Convinti a seguirla nei meandri del piano inferiore si imbattono in una verità foriera di complicazioni disastrose.
I sotterranei hanno un ruolo concreto ed emblematico nel film. Caratterizzano i poveri che li abitano in mezzo ai putridi vicoli della zona ma sono anche il bunker segreto della residenza dei Park, costruito dall’architetto e ignorato dai nuovi proprietari, rifugio dell’emarginato e luogo di scontri. Sotterranei ma reali sono l’egoismo e lo sfruttamento dei reietti, il profitto e l’ipocrisia coperti dall’eleganza formale e dalla spensieratezza dei ricchi. Invano occultato è anche il tanfo nauseante della pelle di Ki-taek, frutto dei miasmi del suburbio. Le narici di Mr Park lo avvertono sia nell’auto che in salotto.
Sotterranei sono gli imbrogli dei poveri e l’incoscienza sprovveduta dei ricchi adagiati sui comodi divani di ultimo grido, ignari della bomba che sta per esplodere nella loro dimora. Bomba che appare un’allusione sociale alle rapine, alle sommosse delle periferie, ai delitti, al sangue sempre pronto a sgorgare nel nostro mondo globale.
Altrettanto falsi sono i nomi americani inventati da fratello e sorella King per apparire credibili ai datori di lavoro.
Le sequenze dunque sono un contrappunto di opposti, di due mondi, quello dell’indigenza rabbiosa e quello dell’opulenza, del comfort e della serenità privilegiata. Da una parte il caos dei bassifondi fatto di lotta per sopravvivere, dall’altro la raffinatezza delle abitudini e degli interni luminosi dei Park, le regole del menage tutte improntate alla buona educazione, al servizio dei sottoposti solleciti. La volgarità dei dialoghi e degli insulti tra i coniugi King stona con il bon ton della coppia Park, anche se la finezza altolocata viene meno nei momenti segreti della libidine.
La padrona di casa sventata e leggera, i figli problematici, il marito assente e distratto necessitano dell’aiuto competente dei poveri nella loro vita quotidiana, dietro compenso di banconote. Ma sono all’oscuro della tempesta che sta preparandosi nel loro nido.
Bong non ha lesinato le sottolineature in crescendo degli episodi filmici. Tra le molte immagini graffianti che puntualizzano la condizione di inferiorità dei King ricordiamo quella di sorella e fratello arrampicati nel loro anfratto, sopra la tazza del gabinetto, alla ricerca di campo per lo smartphone.
La narrazione è fin troppo accentuata nella scena della mattanza, quando il recluso sbucato dalla cantina, assale a coltellate gli invitati al party dei Park e le riprese esplodono in una sanguinosa carneficina. Ma è di grande forza allusiva e quasi biblica la sequenza del rigurgito delle fogne e dell’allagamento dei seminterrati.
La regia fa tesoro della cultura sociologica di Bong ed è accurata in ogni dettaglio passando dal simbolo alla commedia e al dramma, dal grottesco, al disastroso, in una corsa senza fine che si avvale di ottimi attori. Le grandi vetrate sul parco suggeriscono una dimensione artificiale che sembra travolgere i personaggi e rappresentare l’illusione sociale dei padroni e dei servi e l’omologazione dei due nuclei familiari entrambi a modo loro parassiti. Il film non racconta solo la loro storia ma la commedia umana, contemporanea delle disuguaglianze e dei trasformismi ove il malessere degli uni dipende dal privilegio o dalla rivincita degli altri.
Nel finale il superstite Ki-taek (il grande attore Kang-ho-Song) rifugiato nel bunker della villa deserta, rimasta sfitta, comunica col figlio, con l’alfabeto Morse, manovrando l’interruttore di un fanale a luce intermittente. Ki-woo in viaggio in cerca di fortuna, risponde al genitore, gli promette che farà strada e soldi e verrà a liberarlo. Ma l’altro sembra convinto dell’inutilità dei piani, quando a decidere è il destino.
Il messaggio di Bong è amaro. La lotta di classe evidenziata dalla trama non mira a distruggere il sistema, ma a sostituirsi alla classe dominante, adottandone i vantaggi, i modi e i soprusi. In questo scorcio metaforico della società globale, basata sul denaro-ferro da stiro, anche il legame filiale sembra egoistico. Con il solo spiraglio di una rivendicazione di giustizia che sale da tutta la vicenda, col ritmo del segnale luminoso. Il diritto degli ultimi ad uscire dal sottosuolo.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato venerdì 20 Dicembre 2019
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