“Sono caduto dalle scale”. Queste parole pronunciate da Alessandro Borghi nei panni di Stefano Cucchi, per spiegare le tumefazioni sul volto inferte dai pestaggi di due carabinieri nel film Sulla mia pelle, sono purtroppo non nuove alla quotidianità delle nostre carceri. L’uso ripetuto di questa formula rivela la sconfitta della legge ad opera dei suoi tutori, la crisi della fiducia dei cittadini in chi dovrebbe difenderli e tutelarli anche nella detenzione, il silenzio estorto con la paura e la certezza di non essere creduti.
La storia presentata da Alessio Cremonini al recente 75° Festival di Venezia nella sezione “Orizzonti” ed ora in visione nelle nostre sale, ripercorre la tragica vicenda del trentenne romano arrestato per detenzione di stupefacenti nell’ottobre del 2009 e restituito cadavere alla famiglia una settimana dopo.
Per il buon nome delle forze dell’ordine, di chi rischia la vita in una funzione espletata con correttezza e sacrificio per i diritti dei cittadini, queste sequenze incisive, costruite con precisione hanno un valore di coraggio e di trasparenza. Non dicono né più né meno di ciò che sono i fatti. Evidenziano le mele marce, le note dolenti del nostro sistema giustizia.
Il calvario di Stefano, descritto con puntualità essenziale, dalle celle, al tribunale e agli ospedali non suscita solo rabbia e lacrime ma attenta riflessione perché è frutto di uno sguardo vigile, di quella volontà civile e presenza nel sociale, vanto del miglior cinema italiano.
La vicenda notissima, divenuta simbolica, tratta dalla cronaca, continua ancora, dopo nove anni irrisolta, a indignare e preoccupare l’opinione pubblica. È materia di discussione giuridica e dovrà tornare in tribunale. Le varie sentenze fra reticenze, bugie, coperture, contraddizioni, si sono alternate con condanne per i medici e poi assoluzioni degli agenti per insufficienza di prove. Ma il reato esiste, il pestaggio c’è stato, bisogna provare chi lo ha fatto, ci sono altri soggetti da interrogare. Gli operanti che hanno arrestato Stefano all’inizio sono indagati. Nel 2018 il maresciallo dei carabinieri, Riccardo Casamassima, compare come testimone chiave d’accusa dell’inchiesta Cucchi bis e i magistrati riaprono il caso rinviando a giudizio i militari dell’Arma presunti responsabili della morte del fermato.
Come molti giovani, caduti nella trappola della droga, Stefano non è uno stinco di santo, ha una vita non priva di ombre e ambiguità, si barcamena con spacci di modesta entità, ma sta correggendosi. Dovrebbe essere aiutato secondo la nostra legislazione, volta al recupero dei tossicodipendenti e sbandati. La catena di abusi, di lesioni corporali e psicologiche che subisce durante la sua reclusione va in senso contrario, potrebbe rientrare nel reato di tortura sancito dal nuovo art. 613-bis del codice penale.
Cucchi sarà vittima soprattutto della violenza punitiva, delle complicità e omertà poliziesche, della sciatteria ospedaliera, dell’assenza di cure: una vera e propria condanna a morte. Il suo comportamento, come mostra il percorso filmico, è quello di un disperato, confuso per non avere il minimo ascolto, che incontra nel tunnel dell’ingiustizia i peggiori nemici, i violenti, i burocrati, i menefreghisti.
Nel film (siamo in aula), un magistrato frettoloso (una donna purtroppo) non guarda neppure in faccia l’imputato e non vede o non vuole vedere le ecchimosi evidenti del suo volto. È il sintomo di una decadenza sconfortante del diritto. Il muro invalicabile di complicità che si contrappone a Stefano, lo scoraggia a raccontare la verità a chi di dovere, nelle sedi istituzionali. È stato massacrato di botte, ma si limita a confidarlo ai compagni di carcere al di là di una parete o a gridarlo a casaccio a chi non è competente.
Pensa, come molti suoi compagni di penitenziario, che denunciare le percosse è fatica sprecata, lo porterebbe a nuovi guai irreparabili, magari ad aumenti di pena. La sua voce non conta contro quella di un servitore dello Stato. Chiede di vedere il suo avvocato e gli viene negato. Domanda un farmaco per le sue crisi di epilessia e il farmaco non arriva.
I familiari sono un altro lato del dramma. Gente onesta, normale, che ha combattuto le scelte tossiche del figlio e fratello e cercato di aiutarlo a recuperare. Ora, dopo il suo arresto tremano. Ma sono ancora ignari del peggio.
Al reparto protetto dell’ospedale Pertini, dove è finito, i genitori vengono ostacolati da perdite di tempo, cavilli burocratici. L’ingresso è vietato, bisogna avere il permesso dal magistrato. Non si possono dare notizie del ricoverato. La sorella Ilaria si attiva energicamente, ma è tardi. L’odissea termina solo all’obitorio dopo la notifica spietata alla madre di un decreto di autopsia. Qui assistiamo all’irreparabile sconforto.
I congiunti fissano impietriti al di là di un vetro la salma martoriata del loro caro. L’immagine è fuori campo ma la si intuisce, tristemente presente. Abbiamo già visto abbastanza quello scheletro ferito e disidratato divenuto una larva, sballottato nei carrelli per gli esami medici e poi abbandonato a se stesso.
Dobbiamo un plauso all’attore Alessandro Borghi, che già si era fatto notare in alcune pellicole di Claudio Caligari. Rende il film un documento pulsante, riesce a trasformare la recitazione in vita. Ci offre dello sfortunato protagonista, più che un’interpretazione, un’incarnazione profonda e dolorosa, un’equivalenza espressiva. Diviene lui, il suo corpo (“sul set volevo gridare aiuto come lui”). Ci immerge nei gesti, nei passi, nella sofferenza e solitudine del giovane al punto che noi, così lontani dal suo mondo ne condividiamo gli spasimi.
Ciò avviene perché Borghi, come il regista Cremonini, crede in un cinema che ha contenuti da raccontare. “Questo film è una cosa piccola, ma vera, seria – afferma in un’intervista –. Comunica a tutti una storia necessaria da capire”.
Accanto a lui, Jasmine Trinca impersona bene Ilaria, che non è riuscita a salvare il fratello ma che diverrà il difensore a oltranza della sua memoria e dignità nelle aule di giustizia. “Questo film è ciò che gli dovevo” – ha detto Ilaria Cucchi a Venezia spiegando con quanto strazio, amore e determinazione ha offerto un lembo di vita privata allo schermo per poter urlare suo tramite tutte le verità taciute, trasmesse da quella morte. Perché siano sempre meno i deboli, gli ultimi, gli indifesi lasciati soccombere nell’ipocrisia generale.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato venerdì 28 Settembre 2018
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