“Le invisibili” di Louis Julien Petit è un film di oggi, che conquista e fa meditare. Il regista riesce a fondere humour, psicologia e approfondimento umano. Sembra una commedia ma è una storia seria. Non a caso Petit a suo tempo ha scelto “La vita è bella” di Benigni per la tesi di regia, un modo di raccontare giunto al cuore di milioni di spettatori.
Le protagoniste sono delle donne senza fissa dimora e quattro operatrici sociali, tanto volonterose quanto precarie, che incontriamo all’ostello parigino diurno L’envoi. Eventi di tutti i giorni, in Francia come in Italia, sullo sfondo di una società ingiusta con le sue sordità burocratiche e amministrative. Un film che riguarda i deboli, finiti ai margini della comunità per motivi personali e sociali, ispirato al documentario di Claire Lajeunie “Femmes Invisibles” e al suo saggio “Sur la route des Invisibles”. “Nessuno è nato per essere una persona senza fissa dimora – ci dice il regista –. Ti rendi conto che potrebbero essere familiari, amici cari, e che in un attimo la vita può cadere a picco”.
Ad essere invisibili non sono solo queste clochards che ci passano accanto, che scorgiamo sui marciapiedi delle stazioni o su panchine di tristi giardini con fagotti, cartoni e tende improvvisate. Le stesse benevoles (volontarie) che si battono per sistemarle e dar loro una chance, sono invisibili nel loro ambiente familiare o nella routine istituzionale, svolgono la loro battaglia faticosa nell’indifferenza, mal pagate e ostacolate dalla forma di regolamenti e pregiudizi.
Lo stile di Petit si rifà al cinema di Ken Loach e ricorda l’ironia di “Full Monty” (1997, di Simon Beaufoy), cogliendo sul campo gli aspetti umoristici dei drammi quotidiani e inserendoli come specchi della realtà multiforme. Il riso, anche se amaro, rende accessibili a un pubblico sonnolento i problemi dolorosi narrati, impersonandoli in volti espressivi. Accanto ad attrici esperte come Audrey Lamy, Corinne Masiero (riabilitata da esperienze di droga e prostituzione grazie al cinema e al teatro) Deborah Lukumuena, Noemie Lvovsky, ci sono donne con esperienze di strada, testimoni dirette di una condizione umana. Sono cadute in basso, difendono la loro fragile privacy con pseudonimi come Chantal, Lady D, Cicciolina, Brigitte Macron, Beyoncée.
Le altre, le operatrici sociali sono delle disobbedienti civili per umanitarismo. Non vogliono abbandonare le loro assistite quando la direzione comunale decide di chiudere il servizio giudicando la struttura improduttiva. In alternativa alle statistiche impietose, si adoperano per trovare riparo e soluzioni lavorative per le emarginate. Naturalmente tra molte difficoltà.
È Aubrey (Lamy) una giovane donna volitiva e sensibile, l’animatrice di questa solidarietà, insieme a Manu (Masiero) alla psicologa Helène (Lvovsky) e alla volontaria Angelique (Lukumuena). Organizzano segretamente nel centro l’ospitalità notturna e attivano un fertile cantiere di riabilitazione, in cui si aggiustano materiali vari raccolti nelle discariche, si vendono e si fanno consulenze di ogni tipo. Le allieve inconsuete di questi stages clandestini del riciclaggio, hanno fantasia e caratteri di tutti i colori, come le vicende della loro esistenza. Non sono delle sante, la loro dignità nasce dalle vicissitudini. A poco a poco le vediamo uscire dall’ombra, rendersi esplicite. Non sono più anonimi fantasmi passeggeri coi loro stracci, ma persone con le loro capacità, che riafferrano ruoli e attività interrotte dai traumi del passato. Accanto alla migrante e alla ex detenuta spuntano nelle sequenze vari curricula, una contabile e perfino una ex psicoterapeuta e questa varietà culturale arricchisce la narrazione.
Chantal è la figura “chiave” che campeggia e diverte. Interpretata da Adolpha Van Meerhaeghe di Lille è un personaggio di spicco, di una veridicità eclatante. Ha scontato il carcere per omicidio. Ha ucciso il marito, un bruto picchiatore. La sua descrizione breve e lapidaria dell’evento, ha il sapore di un romanzo americano degli anni 40. Non riesce a nascondere l’esperienza della prigione anche quando la rivelazione le fa rischiare la perdita del posto. Farà impazzire la povera Audrey che tenta a tutti i costi di inserirla in una occupazione esterna, mentre la confessione della sua protetta manda puntualmente a monte ogni offerta. Solo verso la fine del film, mentre ci attendiamo un ennesimo flop, avviene il prodigio. La donna, che ha acquisito abilità di bricolage e riparazioni di elettrodomestici durante la reclusione, spiattella ancora la sua verità al mediatore interinale. Sì, si è specializzata nella città di Loos, ma in galera. C’è un lungo attimo di suspence. Poi un sospiro di sollievo: vedremo vincente proprio la schiettezza di Chantal che convince il suo interlocutore.
L’interprete Adolpha è perfetta per il personaggio. Sembra uscita dalle pagine di Zola. Ha conosciuto la miseria, l’alcolismo, le violenze. Dopo un percorso di riabilitazione, ha scritto un libro sul suo vissuto. Al testo si è ispirata poi la Masiero che ne ha ricavato una pièce teatrale portandola con successo sulla scena.
L’altruismo del film ci appassiona. Anche le assistenti hanno i loro problemi personali. Aubrey deve superare il peso della solitudine e il dolore della imminente separazione dal fratello che andrà a vivere con una compagna. Sarà anche ferita dall’ingratitudine di Julie (Sarah Suco), una ragazza sbandata che, malgrado l’appoggio ricevuto, farà la spia sulle attività del gruppo. Helène è abbandonata dal marito e beve per dimenticare. Eppure questa variopinta squadra femminile si fa forte della posta in gioco e il fervore etico del compito l’aiuta a dimenticare frustrazioni e a ricostruire legami e speranze.
La storia è realistica, non ha un lieto fine. Scoperta la sede clandestina delle senza-casa, il Comune ordina lo sfratto. La partenza finale delle erranti, tra le cupe ali dei gendarmi schierati per sgomberare il centro, ci riporta alle scene di attualità nelle nostre periferie. La sconfitta non cancella la loro mordace sfida. Sono persone consapevoli, perfino spiritose, mentre fronteggiano le forze dell’ordine a testa alta e si imbarcano coi loro fardelli, a piedi o nei furgoni, verso tappe ignote. Il pubblico è dalla loro parte e applaude nelle sale cinematografiche. La resistenza ha la forza di un seme.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato lunedì 20 Maggio 2019
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