L’assassinio di un intellettuale di grande livello come Pier Paolo Pasolini il 4 novembre 1975 resta ancor oggi un caso bruciante da chiarire malgrado i numerosi tentativi di inchiodare i mandanti, protetti dall’ombra costante dei poteri forti e delle connivenze.
La macchinazione di David Grieco (co-sceneggiatore Guido Bulla) cerca coraggiosamente di riproporre la vicenda. Nei limiti della struttura filmica investigativa riesce ad incidere con la sua verità, non trascurando la figura umana dello scrittore, la sua statura artistica. In questo lo soccorre il ruolo del cantante Massimo Ranieri nella parte del protagonista, di serio impegno interpretativo e con un volto sorprendente di sosia.
I ritmi della cronaca si bilanciano con allusioni interiori. Sullo sfondo le atmosfere intense della colonna sonora dei Pink Floyd (Atom Heart Mother Suite).
Se la rappresentazione del sentimento per la madre (Milena Vukotic) sembra un po’ debole, è riuscita quella del retroterra erotico fisico-mentale. Attraverso il leit motiv delle presenze ostinate di Pier Paolo in attesa del giovane Pino (Alessandro Sardelli) conosciuto da qualche mese, il movente carnale si complica con l’illusione di trovare genuinità e purezza nei sottoproletari poveri e disponibili.
Accanto c’è sempre il pensiero di uno studioso profondo dei fenomeni sociali, che vede il futuro di una società destinata a corrompersi fino alla perdita di identità dei propri membri. Le intuizioni profetiche di Pasolini parlano di una mutazione antropologica creata dal consumismo che possiamo verificare oggi. I giovani, conquistati dall’omologazione mercantile, diverranno simili tra loro nel vestire ed anche nella cattiveria, nel modo di parlare e di “non pensare”. Si dissiperanno anche le ideologie, “secondo un codice interclassista”. La manipolazione pubblicitaria corroderà il linguaggio umanistico, sostituito da un nuovo modo di esprimersi pragmatico e spersonalizzato.
Il film è tutto un inseguimento di fatti, cita fonti processuali dagli interrogatori del presunto colpevole, alle ritrattazioni, alle testimonianze. Troppo tempo è passato tra vani tentativi giuridici e prese di posizione singole e collettive. Una sentenza di condanna definitiva della Cassazione nel 1979 non dissipa i dubbi sulle reali responsabilità di Pelosi, detto “la rana”.
Si delinea il puzzle ambientale di malaffare degli spacciatori di cocaina, futuri membri della banda della Magliana legati ai fascisti, a cui obbedisce la manovalanza di tossici, pronti a tutto. A poco a poco si svela la trama dei mandanti massonici ordita dall’alto e protetta da settori inquinati della polizia.
Le indagini sul crimine dell’idroscalo di Ostia, grondano di lacune e manchevolezze. I risultati delle analisi rimasero a lungo secretati e scarsamente attendibili per le negligenze verificatesi nelle quarantotto ore successive delitto, come sostennero gli avvocati Nino Marazzita e Guido Calvi. Inerzia colpevole, degli inquirenti, volontà di mettere a tacere la verità con ogni mezzo. Pelosi, che ottenne la semilibertà nel 1982, continuò ad autoaccusarsi dell’omicidio fino al 7 maggio del 2005. A questo punto, in un’intervista alla Rai, ritrattava. A uccidere lo scrittore sarebbero stati tre uomini. Più tardi pubblicava un libro in cui confessa che le persone erano cinque. Egli sarebbe stato costretto ad attribuirsi la colpa del crimine per evitare la vendetta sui genitori.
Grieco sceglie la pista investigativa del delitto di matrice politica su commissione. Il cineasta, intento a montare le ultime scene del film Salò, sta scrivendo Petrolio, un romanzo originalissimo per forma e contenuto, pubblicato poi incompiuto e postumo. Uno dei capitoli, “Lampi su Eni”, per ciò che rivela su Eugenio Cefis, presidente di Eni e Montedison, potrebbe chiarire il movente della sua eliminazione. L’inquietante capitano d’industria (nel testo Troya) è un abile manovratore di politici, industriali, giornalisti, aziende pubbliche e private e, secondo una informativa dei servizi segreti, capo della loggia massonica P2 passata poi a Licio Gelli e Umberto Ortolani.
La documentazione viene dal libro Questo è Cefis, l’altra faccia dell’onorato Presidente (1972), firmato da Giorgio Steimetz, pseudonimo del giornalista Corrado Ragozzino edito dalla sua agenzia, l’Ami, e subito ritirato dalla circolazione.
Il film segue gli incontri di Pasolini con il fantomatico autore ben interpretato da Roberto Citran. Egli vuole saperne di più. L’interlocutore però tiene a mantenere riservatezza e irreperibilità per ragioni di sicurezza e fa il nome di Graziano Verzotto, come suo ispiratore. Il politico democristiano della corrente dorotea ex presidente dell’Ente minerario siciliano, è anche il finanziatore della sua Agenzia milanese di informazioni. È noto anche come l’informatore di Mauro De Mauro, il giornalista de l’Ora di Palermo sparito nel 1970, il cui corpo non fu mai ritrovato.
L’intreccio procede. Dopo il trafugamento di una pizza del film Salò, dagli stabilimenti technicolor da balordi del gruppo di Pino, Pasolini ottiene, tramite l’amico, un appuntamento segreto per pagarne la riconsegna. Una soffiata maldestra sul luogo e l’ora dell’incontro permette all’infame capo degli spacciatori di borgata (Sergio, interpretato da Matteo Taranto) di infiltrarsi e rendere il servizio richiesto dai mandanti. L’ordine è partito dai loro potenti uffici. Le immagini emblematiche di Salò, sui seviziatori neri e le nuove pagine scottanti che il cineasta ha in serbo sullo stragismo legato al petrolio, lo rendono pericoloso. Scrive troppo sulla stampa in tema di servizi deviati. Deve sparire.
Così inizia la costruzione del tranello in cui cadrà, ridotto in fin di vita a bastonate da più persone e finito con due passaggi sopra il suo corpo di un’auto, uguale a quella di Pelosi. Quest’ultimo è costretto a schiacciare ulteriormente sotto le ruote le povere spoglie e ad assumersi la colpa per salvare la famiglia. Penserà a tutto l’avvocato di estrema destra (Toni Laudadio) a far la spola tra la mala e i vertici eversivi e a terrorizzare i testimoni.
L’ipotesi di Grieco, che ha conosciuto da vicino Pasolini da amico ed ha scavato scientificamente su tutta la vicenda, appare credibile alla luce delle prove esibite. Il film non raggiunge stilisticamente una definizione profonda del complesso giallo pasoliniano, ma rappresenta dallo schermo una sfida esplicita al pregiudizio, all’omertà e ad una stasi della giustizia di 41 anni. Suona come utile stimolo civile verso l’opinione pubblica e la magistratura.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato mercoledì 6 Aprile 2016
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