Sappiamo che la Shoah nella sua incommensurabile tragedia non potrà mai trovare un’adeguata espressione realistica, filmica o letteraria ma solo degli approcci relativi alla verosimiglianza capaci di superare le distanze storiche e psicologiche del pubblico. Eppure, forse perché la barbarie umana continua, sciagurata, in varie forme, il tema continua a riproporsi sullo schermo. In modo diverso dal solito lo affronta Il Figlio di Saul opera prima dell’ungherese Lazlo Nemes, Grand prix Speciale della giuria al festival di Cannes del 2015, Oscar e Golden Globe per il migliore film straniero nel 2016.
Il film è un tentativo di tener vivo il ricordo del male assoluto, al di là di ogni mitizzazione della realtà del lager, da una prospettiva inconsueta di contenuto e formale. Il regista che ha ricordi di familiari vittime nei campi, conosce la truce materia e vuole raccontarla senza veli. Affida la parte di Saul Auslander, ebreo magiaro, al poeta Gèza Rorhig scaricando sul primo piano del suo volto e della sua persona la sofferta trama filmica. L’attore regge e conduce il filo delle sequenze, facendosi largo fra dramma personale e collettivo, tra uomini e cose indicibili che lo fiancheggiano.
Siamo ad Auschwitz-Birkenau nel 1944. Il nostro protagonista è tra i Sonderkommando, prigionieri incaricati di eseguire tutte le pratiche dell’eliminazione, dunque di quella schiera di disperati che sopravvivono servendo il nemico e per questo porta sulla giacca la X rossa, il marchio di riconoscimento. Primo Levi li definisce “i corvi neri del crematorio” che preferiscono pochi giorni in più di vita alla morte immediata. Egli non vuole però giudicarli. Invita chiunque a configurarsi l’inferno totale in cui l’offerta di breve salvezza si baratta con la complicità di manovalanza nell’attuazione della strage, principalmente di ebrei, ma anche di politici (comunisti), omosessuali, rom.
Saul, sottoposto all’iniquo compito, deve dunque indirizzare i nuovi arrivati nel campo verso le camere a gas tacendo la sorte spaventosa che li attende. C’è la sua gente, donne, uomini, concittadini. Aiuterà i deportati a spogliarsi e li accompagnerà fino alle camere a gas, mascherate da docce. Insieme agli altri “pulirà” la scena dell’orrore, rimuoverà i corpi dopo l’avvenuta asfissia. Raderà poi i capelli delle donne uccise, destinati all’invio in Germania per farne tessuti, estrarrà i denti d’oro dalle bocche dei morti, che divengono anche moneta di scambio di favori. Trasporterà le salme (chiamate “pezzi”) nei crematori e, dopo aver alimentato i forni, dovrà disperdere le ceneri.
Il museo degli orrori nel film non appare che come un confuso e frammentario contorno, come uno sfondo parallelo che si apre a sprazzi, quasi surreali e questo rende l’idea dello chock di chi sta vivendo un trauma inaudito, accompagnato dai lamenti, dagli spari e dalle urla gutturali e comandi dei tedeschi. L’inquadratura sempre concentrata sul volto teso di Saul e sui suoi scatti, fanno del racconto una visione e un vissuto soggettivo e in qualche modo astratto, un punto di vista e di azione nell’occhio del ciclone che lo spettatore deve scoprire. Le scene sono girate in campi stretti. Bisogna soltanto immettersi dal principio alla fine nei passi di un cammino ossessivo, leggendo il tormento sul viso del personaggio e seguendo i gesti concitati nella giungla umana di morte.
Ma ecco che una visione come un lampo colpisce Saul e sembra risvegliarlo dal suo stato di larva divenuta carnefice. Egli sembra uscito dal suo gestire automatico. Ha davanti agli occhi, in un mucchio di membra, un ragazzino moribondo che ben presto sarà un cadavere. Non importa se si tratta di verità o illusione, egli lo riconosce come suo figlio e, da quel momento, la sua mèta diviene sottrarre alle fiamme quel corpo e seppellirlo secondo i dettami della religione. Per questo cerca affannosamente, nell’intrico di condannati, un rabbino, uno che abbia la barba e reciti la preghiera funebre, il Kaddish. Accompagnare il ragazzo alla soglia dell’al di là secondo il rito diviene una forma simbolica di salvazione paterna e di rivolta contro il genocidio hitleriano, una restituzione della dignità di essere umano. Ed anche un disperato riscatto della propria identità. Per questo l’uomo traffica con gli addetti, suoi colleghi, consegna a qualcuno l’oro sottratto ai morti, collabora con chi nasconde foto che testimoniano le fasi dello sterminio e con chi, convinto del destino incombente, prepara la fuga. Troverà un rabbino greco, potrà eseguire alla meglio la cerimonia, ma il tentativo rivoltoso non andrà a buon fine e i fuggiaschi saranno intercettati nel bosco e uccisi dalle SS. Le acque del fiume porteranno via la salma del ragazzo. L’episodio forse si ispira a una delle rare insurrezioni dei lager, sconfitta nel sangue, quella del 7 ottobre 1944 ad Auschwitz, protagonisti i Sonderkommando.
Il film di Nemes definito dall’intransigente Claude Lanzmann, autore di “Shoah”, l’anti “Schindler’s List”, induce al dibattito, non solo come opera coraggiosa che affronta l’Olocausto considerato materia sacra e comunicabile solo attraverso la pura testimonianza, ma anche per la scelta di un’espressione cinematografica originale, lucidamente costruita. Vi si esprime la volontà di mostrare ciò che i nazisti volevano nascondere e ciò che la stessa memoria concentrazionaria tendeva a coprire. Le parole che emergono dal brusio fuori campo provengono dai documenti dei Sonderkommando tenuti segreti per anni (Voci sotto la cenere) e riesumati dal regista. I “corvi” infami, a loro volta condannati all’eliminazione dai germanici per occultare gli orrori commessi, hanno tra le colpe il merito di aver lasciato tracce.
Questa rappresentazione ruvida, inflessibile dei lati più oscuri del lager approfondisce la tessitura dei fatti e porta veridicità al racconto. Fa rabbrividire, ma mette radici nella mente. Troviamo molto attuale anche il soffermarsi sulle spoglie del figlio, quasi a memento dei macelli contemporanei, dell’infanzia martoriata nei moderni bombardamenti indiscriminati, nei raid dei droni e nei massacri terroristici, nelle catastrofiche migrazioni. Il regista, infatti, trae dalla turba di innocenti il prototipo della vittima bambina dei terribili eccidi degli adulti, ponendola a simbolo centrale della storia. Nel finale Saul è sereno e trasforma in illusione l’immagine del bambino che all’imbocco del nascondiglio, in cui s’imbatte per caso, li guarda sconcertato per poi allontanarsi. Egli è convinto di aver compiuto la sua missione. Ma proprio quel ragazzino in fuga nel finale conferma l’esistenza di un pericolo madornale e persistente.
“Ho voluto portare l’attenzione sugli esseri umani”, ha detto Nemes.
Pensiamoci. Non solo – come afferma Primo Levi – “è stato”, ma continua ad “essere”.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato lunedì 16 Gennaio 2017
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