La Verità negata di Mick Jacson (sceneggiato da David Hare) ci propone sull’Olocausto un’angolazione cinematografica inusuale. Il film che si ispira al libro di Deborah Lipstadt del 2005 “Denial: Holocaust History on Trial” (In causa la Verità negata) s’incentra su una querela.
La causa indetta dal negazionista inglese David Irving contro l’autrice del saggio Denying the Holocaust, 1993 (L’Olocausto negato) avrà l’effetto contrario: smascherare chi tentava di nascondere il crimine nazista, l’eliminazione di milioni di ebrei. Tutto ciò attraverso mere prove giudiziali, senza scomodare laceranti presenze, manifesti indignati e pubbliche proteste.
La trama ci presenta Deborah (Rachel Weisz) docente universitaria ad Atalanta e studiosa dello sterminio ebraico, che spiega alacremente la materia ai suoi studenti. Nelle sue pagine mette sotto accusa Irving l’autore di La guerra di Hitler (1977) e fan hitleriano. La studiosa gli contesta la falsificazione di notizie e l’apologia del nazismo. Durante la presentazione libraria lo scrittore si fa vivo tra il pubblico e vorrebbe dire la sua facendosi pubblicità, ma Deborah non glielo consente. Non lo ritiene degno di parlare, per rispetto alle vittime.
Dopo qualche giorno la donna si vede recapitare una citazione in giudizio per diffamazione, insieme alla sua casa editrice Penguin Books. Ha davanti a sé due strade: patteggiare o difendersi. Intransigente e fiera, fedele al suo nome di origine biblica (ape) vuole dare battaglia, è certa di vincere, perché non le sembra possibile un travisamento così madornale degli eventi ormai storicamente documentati. L’americana non ha fatto i conti però con la legge inglese, che attribuisce all’accusato l’onere della prova. Sembra assurdo, ma dovrà dimostrare in tribunale che non ha denigrato il querelante perché ad Auschwitz le camere a gas hanno veramente funzionato. Approdata a uno studio legale britannico di grande rinomanza, deve fare i conti con la strategia di avvocati abili e serpentini, tra i quali Anthony Julius, per cui il fatto incontestabile e tragico della Shoah deve essere aggirato e depurato da ogni indignazione emotiva. La difesa deve basarsi unicamente su prove scientifiche ed esigerà dalla querelata il massimo sacrificio. Abnegazione contro negazione. Dovrà stare in silenzio e rinunciare anche a far deporre alcuni sopravvissuti, per dare modo al bugiardo di svelarsi con le sue stesse parole che si aggiungeranno al curriculum manifestamente razzista e manipolatore di fatti.
Il film, oltre a coinvolgere per gli sviluppi di una verità dolorosa rievocata con i suoi milioni di vittime, presenta un avvincente confronto tra due giurisprudenze, quella inglese e quella americana e un palleggio di punti di vista legali.
È anche una conferma del ruolo decisivo della forma nel diritto. Sarà il giudice Charles Gray dalla maschera impenetrabile (Alex Jennings) a dover decidere se lo studioso filo- hitleriano è stato offeso ingiustamente o no. Intanto Richard Rampton, difensore della protagonista (uno splendido Tom Wilkinson) si reca ad Auschwitz ed esplora minuziosamente ogni angolo del campo. Eccolo che raccoglie, nel terriccio sovrastante i locali delle docce, un minuscolo e quasi invisibile frammento. Servirà a demolire, sommato ad altre prove indiscutibili raccolte dai suoi collaboratori, le affermazioni e il profilo dello pseudo storico. Bastano i discorsi dichiaratamente razzisti, l’adesione a circoli naziskin e le frottole riportate sulle responsabilità del Führer e sulla inesistenza delle camere a gas. Così il magistrato, fedele fino in fondo all’imparzialità, decide l’assoluzione dell’accusata.
Dal film giunge un interrogativo sottile sulla libertà. Un individuo ha diritto di dire e pensare ciò che vuole? Sì, ma poi deve risponderne, sostiene Deborah. Il giudice avrebbe potuto tralasciare il giudizio sulle idee distorte di Irving a proposito degli eccidi nei campi della morte ma non poteva ammettere la manipolazione e cancellazione della realtà storica.
Tutto il racconto cinematografico è incalzante nel contenuto e nel ritmo. Il cast degli attori è ottimo. Timothy Spall rende tutta la protervia narcisistica del negazionista autodidatta e Tom Wilkinson la sapienza professionale del grande avvocato. Indovinata anche l’interpretazione di Scott, nei panni del giovane legale del collegio di difesa, verbalmente agile e volpino. La Reisz è convincente nel personaggio della saggista statunitense e ne riflette i sentimenti e la logica, che include ben più della cultura.
Le scene in tribunale suscitano interesse e curiosità nello spettatore che è portato a schierarsi istintivamente con le ragioni di Deborah e la sua sensibilità, contro la neutralità dei percorsi giuridici britannici. La linea difensiva sembra quasi cinica, a prima vista, di fronte alla pregnanza dell’evento che fa da sfondo al processo. Saranno le sequenze silenziose e spettrali della fabbrica di morte di Auschwitz a riportarci nel cuore di un ricordo oggettivo.
La nostra memoria ha settant’anni e il negazionismo ci sembra inconcepibile, ma la malafede dei neonazisti continua a insinuarlo nell’ignoranza e superficialità dei posteri. E vi è ancora latente un certo antisemitismo segreto.
Per questo il film dovrebbe essere visto e discusso soprattutto nelle scuole. Anche se la storiografia rimaneggia il passato con nuove ottiche ambigue, riduttive, interessate o dimentiche, proprio per questo la testimonianza dei fatti avvenuti anche sullo schermo, deve essere ribadita con fermezza, come un caposaldo.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
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