I numeri acquistano spesso, nella vita e nel cinema, un valore emblematico. È il caso, nel film di Michele Placido, dei sette minuti da sottrarre alla pausa-mensa richiesti alle operaie della ditta Varazzi, perché la fabbrica continui la sua attività. La rinuncia, però, si vedrà, vale assai di più. Il numero è il succo dell’intero film con l’omonimo titolo proveniente dal fortunato testo teatrale di Stefano Massini che riecheggia la suspence e i ritmi avvincenti di La parola ai giurati del grande Sidney Lumet.
Protagonista è il lavoro ai giorni nostri, con i drammi scatenati dalla globalizzazione imperante: un quadro veritiero che emoziona e va ben oltre la vicenda particolare di un’impresa che cambia padrone. Lo sorregge un dirompente cast al femminile. Attrici e cantanti nelle vesti di nove operaie e un’impiegata più la rappresentante sindacale, sanno trasformarsi in figure vive della società di oggi, incalzate dalle riprese di tre macchine on the road per far esplodere la loro autenticità.
Bianca, sindacalista, Greta, Ornella, Angela, Marianna (disabile), Alice, appena assunta e le altre, membri del consiglio di fabbrica, sembrano gente comune pescata dalla vita di ogni giorno fatta di storie, debolezze, speranze e delusioni, alle prese con i problemi dell’occupazione e della sopravvivenza. Madri con figli, giovani e mature, fidanzate, ragazze al primo impiego, straniere discriminate. Personalità vulnerabili, o determinate, le undici dipendenti sono chiamate a decidere per tutte le altre.
I proprietari hanno ceduto a una multinazionale francese la maggioranza delle azioni anche se l’azienda tessile non è in crisi. Le maestranze e le loro famiglie sono in subbuglio, temono licenziamenti, chiusura o delocalizzazione. Sono tempi duri per tutti.
Nel lasso di tempo concesso alla scelta delle operaie, chiamate intorno a un tavolo a decidere, il futuro non esiste, il passato è pieno di sconfitte, il presente in pericolo. Balzano in primo piano i diversi caratteri, retroterra, situazioni, motivi impellenti, dubbi. I personaggi, accomunati da un dato comune, la paura dell’incerto, tendono a risolvere l’attimo fuggente e ad afferrare quel poco che offre loro il padrone. Si è fatta strada una sfiducia generale negli altri, che bersaglia anche chi le rappresenta. Per esempio la portavoce Bianca, un tipo serio, che hanno eletto e che ha anni di esperienza sulle spalle. Alcune giungono a fare insinuazioni sulla sua correttezza. In qualità di rappresentante non ha forse pranzato, poco fa, con i padroni? Non potrebbe essersi venduta?
Sembrava facile al primo momento, un vero sollievo. Erano tutte felici della notizia che la fabbrica non chiudeva e che c’era solo quella piccola clausola, richiesta dalla nuova direzione. Sette minuti in meno! Erano disposte a firmare l’accordo all’istante.
Ma Bianca, corrucciata, le invita a riflettere. A pensare. “Non dovete leggere solo quello che è scritto ma quello che non lo è”.
Il racconto filmico prende via via intensità proprio nel crescendo di un dialogo spontaneo, non lineare, a volte battibecco sfrontato, che mette a nudo l’indole e la realtà culturale di ognuna. Chi sbraita citando frasi fatte, o parolacce, chi si lascia prendere dalla logica della disperazione. Che cosa c’è da cavillare quando è in gioco la sopravvivenza?
Placido contrappone in allusivo confronto le due parti separate in conflitto. Ci mostra gli ex proprietari Varazzi con l’amministratrice delegata francese, elegante e snob, che si fanno i convenevoli. Poi le operaie che urlano, litigano, si infiammano (forse con qualche accentuazione di troppo).
La nuova manager (Anne Consigny), dal paternalismo mellifluo, porta con sé la ragione metallica del profitto. Conduce con fair play le pubbliche relazioni con quegli italiani provinciali che le offrono con orgoglio la mozzarella locale detta zinna (il film è girato a Latina). Non nasconde un sorriso di sufficienza. Poi però si fa nervosa, ha fretta che si concludano gli accordi per prendere l’aereo per Parigi. Ha importanti impegni familiari, c’è di mezzo un nipotino (viene istintivo un confronto con i patemi d’animo delle lavoratrici). Si irrita per la durata della discussione che ancora non si conclude nel capannone.
Bianca infatti ha sollecitato le compagne a ripensare quanto avevano già approvato di getto. Lei sola dice no, argomentando. L’accettazione è una resa, ripete, un sondaggio delle nostre capacità di resistenza per poi man mano strapparci sempre di più, tutto. Le costringe a sputare il rospo, a tirar fuori tutto ciò che pensano di bene e di male. Ricordatevi – aggiunge – che non conta solo il pane ma il coraggio delle idee.
Vengono a galla sia riflessioni che meschinità. Isabella (Cristiana Capotondi) figlia di Ornella, si chiede cosa potranno ancora perdere. Saranno in gioco le assicurazioni? Marianna (Violante Placido) dalla sedia a rotelle, spiega che il sì o il no coinvolgerà anche le altre fabbriche. Il problema è più vasto, il loro voto è terribilmente importante. Confessa che la promozione a impiegata da lei ottenuta, quando le capitò l’incidente in fabbrica che la rese disabile, ebbe un prezzo: il silenzio sulle responsabilità dell’azienda nella carente manutenzione del macchinario.
Il testa a testa fra le esigenze immediate e il dopo è serrato. Si viene anche alle mani. C’è una battaglia tra poveri che investe le straniere, accusate da qualcuna di svalutare i compensi.
Le interpretazioni sono forti, incisive. Efficacissima Ottavia Piccolo che ci offre la consapevolezza di Bianca; sanguigna Maria Nazionale nella parte particolarmente indovinata di Angela, madre di famiglia napoletana grezza e scatenata (“Con le idee non si mangia”). Convincente Ambra Angiolini, una Greta rabbiosa che non crede più a nessuno. Una vera scoperta Fiorella Mannoia, l’Ornella risoluta, fedele a Bianca con cui ha condiviso anni di fatica e di lotte. Sensibile Sabine Timoteo, l’albanese Hira vessata dalle molestie del padrone. Forte Balkissa Maiga, che parla della paura vera della migrante nera Kidal costretta ad abbassare il capo. Il suo proverbio è tragica poesia (“crediamo ci sia il cielo sopra di noi ma ecco a un tratto il mare arrivare sopra la nostra testa”). Vale per gli africani, i siriani, gli albanesi, gli afgani, arabi ed ebrei, ma domani può essere valido per tutti.
Infine è quasi generale il riconoscimento del gioco della nuova proprietà, il fil di ferro con cui estenuare la dignità delle lavoratrici.
Eppure non basta. Il ricatto pressante dell’oggi ha il sopravvento. Tra ragionamenti e “scazzi”, il gruppo arriva a cinque sì e cinque no. Manca l’undicesima firma, quella della più giovane, Alice (Erika D’Ambrosio) ancora incerta. La diciannovenne grida la sua sfida a Bianca. “Ho 19 anni, sono al primo lavoro, una conquista che mi sembrava impossibile. Cosa facevi, cosa avresti fatto all’età mia?”. La risposta di Bianca è chiara. “Ho sempre accettato e queste sono le conseguenze. Quando abbiamo cominciato a cedere e arretrare, abbiamo perduto i diritti conquistati uno dopo l’altro”.
Le sequenze scorrono sottolineando l’aspettativa, tenendoci col fiato sospeso.
Infine la decisione di Alice. Il suo no è l’ago della bilancia di un’azione ricca di contenuto in cui il motore pulsante è stato la discussione e l’obbiettivo la presa di coscienza. Sintetizza lo spiraglio di speranza nelle nuove generazioni a cui Placido, insieme a noi, vuole dare fiducia. Si completa nella didascalia finale con la citazione della battaglia delle undici operaie francesi di Yssingeaux, al tavolo delle trattative contro la multinazionale nel 2012. Rifiutarono con coraggio per giorni e giorni la decurtazione della pausa. Fu un episodio esemplare, in Europa.
Non tutti si arrendono. Questo è il messaggio del film, che sembra auspicare: “C’è ancora spazio per resistere”.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 2 Dicembre 2016
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