Sorry we missed you (Scusate non vi abbiamo trovato) è la formula in caso di assenza dei destinatari che anche noi leggiamo sugli avvisi di consegna dei pacchi. È anche il titolo del nuovo film di Ken Loach e dell’odissea di migliaia di corrieri sfruttati e precari.
“Tu sali a bordo – dice Maloney (Ross Brewster), il datore di lavoro della ditta di trasporti a Ricky (Kris Hitchen) il protagonista del film –. Tu non lavori per noi, lavori con noi. Te la senti di essere padrone del tuo destino?”. Parole ammantate di inganno.
Ricky Turner, lavoratore disoccupato di NewCastle, accetta perché vuole dare una casa alla sua famiglia e si illude di farcela.
“ Ho fatto di tutto, l’idraulico, il muratore, ho scavato fosse nei cimiteri, ora vorrei essere io il mio capo” – dice illudendosi di dipendere solo dalla propria buona volontà. Ma lo attende una vera e propria beffa. Non avrà pace. Orari infernali seguiti da uno scanner implacabile, la pistola, che registra percorsi, pause e consegne, in balia, anche di clienti balordi e attaccabrighe. È alle prese con contrattempi improvvisi, ascensori guasti, cani rabbiosi e con gli stessi colleghi privi di senso di solidarietà. Alla fine incappa nei malavitosi che lo derubano e pestano: ecco il suo destino. Ne va di mezzo anche la tranquillità e unità familiare. Il film che rivela tutta la passione progressista del regista non parla solo di una storia britannica, dei precari mortificati dalla new economy e dalle conseguenze della crisi finanziaria del 2008, costretti a sottoporsi al diktat del mercato e del profitto selvaggio. Parla di tutta la società globale, di quella logica feroce del business che è sotto i nostri occhi. La schiavitù ha preso nuove forme che investono il mondo intero.
Seguendo la vicenda dell’esausto corriere, lo spettatore non potrà far a meno di riflettere anche sulle condizioni di lavoro di casa nostra. Quali retroscena, quali abusi a danno di chi lavora nascondono ad esempio quel pacco che riceviamo puntualmente (magari da Amazon) o quelle telefonate dei call-center e della telefonia mobile?
Col valido contributo dello sceneggiatore Paul Laverty, Loach riesce a comunicare a fondo l’indignazione contro l’ingiustizia sociale, il cancro che mina la società contemporanea. Il lucido stile documentario con cui affronta le dinamiche della fiction nutrendole di realtà e naturalezza, inquadra scene familiari, ambientali e sociali in cui tutti possono riconoscersi. Ricordiamo numerosi fotogrammi dal valore simbolico di una condizione umana o psicologica. Quella bottiglia ad esempio che Ricky è costretto a usare per orinare, non riuscendo a trovare neppure un attimo per sé. Il paesaggio contemplato da padre e figlia che esprime il loro desiderio di pace. Il semplice gesto rilassante di un’anziana che pettina dolcemente i capelli di Debby è quasi una terapia.
Gli attori non professionisti, un cast eccellente, trasmettono esperienze vissute, linguaggi e comportamenti autentici. Ogni dettaglio delle condizioni di lavoro di questi trasportatori autonomi è attinto da informazioni dirette.
Seguiamo dunque Ricky nel suo difficile percorso di quattordici ore a bordo del camioncino che ha dovuto noleggiare dal padrone. Lavora in proprio senza contratto, assumendosi tutti i rischi dell’orario e degli incidenti accettando le regole ferree dello sfruttamento.
I ritmi stressanti di lavoro creano reazioni a catena nei suoi rapporti con i figli e la moglie che ne fanno le spese. Non c’è tempo per seguire il figlio adolescente Seb (Rhys Stone) che ha preso una brutta strada. I genitori sono attanagliati dai loro compiti. Il ragazzo non riga dritto, salta la scuola fa il writer e vagabonda in compagnia di contestatori e perdigiorno. Un giorno viene fermato per un furto in un negozio. Ricky esasperato dal suo comportamento alla fine ha un’esplosione d’ira e alza le mani su di lui.
La moglie Abby (Debbie Honeywood) che, assistente domiciliare di signore anziane e disabili, corre da mattina a sera con l’autobus, è una figura positiva, paziente oltre ogni limite e dedita agli altri. Per pagare il noleggio del furgone ha accettato di vendere l’auto che le permetteva di spostarsi più facilmente nelle case degli assistiti. Affronta il suo ruolo con umanità consolando quotidianamente gli afflitti. Il femminile nel film, come spesso riscontriamo nella vita, è l’elemento chiave che cerca di tener saldi gli affetti, l’aggregazione domestica e la pietà verso i perdenti.
Anche la figlia Liza (Katie Proctor) di undici anni è un personaggio positivo, che cerca di difendere la serenità familiare addossandosi compiti superiori alla sua età. È una ragazzina dolce e severa che esorta il fratello a una buona condotta e soffre per i litigi dei genitori. Per fortuna ha un bel rapporto col padre. Un giorno lo accompagna al lavoro di casa in casa ed è emozionante la scena della loro sosta davanti all’orizzonte. Ma anche questo è proibito dalle regole della ditta. Non devono salire estranei sul mezzo e Ricky sarà redarguito.
Non si dica che sono troppi i guai che lo colpiscono. Succede proprio così nella realtà. Chi di noi non ha sperimentato che, nei momenti di maggiore sfiga, capitano altre sciagure che sembrano fatte apposta per aumentarla?
Nel pronto soccorso Ricky, in attesa del referto delle radiografie, racconta al boss per telefono che è stato derubato e bastonato a sangue. Sarà ugualmente multato per la perdita di due passaporti, per la rottura dello scanner e per il rimpiazzo. La spiegazione di Maloney è fredda, precisa. Ricorda come funziona il capitalismo. Ecco la legge: ridurre i costi. Imporre agli autisti il lavoro autonomo e la rinuncia ad ogni tutela significa vincere la concorrenza delle altre società. Debbie snervata afferra il cellulare e protesta, manda al diavolo l’insensibile principale. La seguono sguardi impotenti e rassegnati della gente in fila, in attesa del turno.
Il giorno dopo il corriere si rimette in moto, ancora bendato, parte col suo furgone per tornare al lavoro, invano contrastato da moglie e figli. È come uno schiavo alla catena.
Questo finale non è allegro. Certo, lo spettatore vorrebbe altro. Non bastano l’appoggio e la comprensione rinverditi nel nucleo familiare di Ricky, la resipiscenza di Seb. Ma come si può raccontare diversamente – afferma Loach – la situazione reale di una famiglia operaia di oggi sfruttata e senza speranza? Bisogna dire la verità.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
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