Un incontro con Giacomo Vallozza autore e attore dello spettacolo «No, storia di un rifiuto», un “dialogo-monologo” dedicato al padre Tommaso, internato militare dal 14 settembre 1943 al 6 aprile 1945 in un lager nazista. La narrazione svela sentimenti, incontri/scontri generazionali, riporta la storia dell’Italia dalla nascita del fascismo alla Liberazione. Interrogativi, pensieri, dubbi si rincorrono grazie ad una narrazione priva di retorica e molto curata storicamente, offrendo spunti e riflessioni di sicuro interesse.
Giacomo, ci racconta del ritrovamento del diario scritto da suo padre durante l’internamento?
Il diario era stato conservato dalla zia e, dopo la sua morte, mi è stato consegnato da un cugino. Non so se per esplicita decisione di mio padre o se, in realtà, lo scritto fosse stato semplicemente dimenticato, perduto e ritrovato fortuitamente.
Ho ricevuto il quaderno nel 2012. Ho impiegato un anno per decidere di leggerlo, poi nel 2014 ho iniziato ad approfondire lo studio della storia degli Internati Militari Italiani, un modo per riavvicinarmi a mio padre. Decisi in seguito, grazie al materiale che avevo raccolto, di scrivere una pièce teatrale, presentata per la prima volta nel dicembre del 2015.
Conosceva già la storia dell’internamento di suo padre?
Mio padre è morto quando avevo 12 anni e sull’esperienza di internamento mia madre ha preferito raccontare solo l’essenziale, praticamente nulla. Nella soffitta di casa avevo trovato la «Guida ad Hammerstein», una storia a fumetti disegnata da Franco Quattrocchi durante la sua prigionia in Pomerania (Polonia) nella Seconda Guerra mondiale e pubblicata nel 1946, che mi aveva fatto immaginare quella esperienza come una reclusione “facile”. Fu solo attraverso la lettura del diario di mio padre, molti anni dopo, che compresi quanto le cose in realtà fossero state molto diverse. Scattò subito l’inevitabile necessità di approfondirne la conoscenza attraverso un percorso di ricerca che iniziò con lo studio del contesto storico in cui mio padre era cresciuto, il fascismo. Il documentario della Bcc «Fascist Legacy» (L’eredità del fascismo) è stato fondamentale per farmi conoscere i crimini compiuti dagli italiani durante la conquista coloniale dell’Etiopia e l’occupazione della Jugoslavia, attraverso l’impiego dell’iprite, le rappresaglie, i bombardamenti, la costituzione di campi di internamento. Notizie e considerazioni largamente riprese durante lo spettacolo.
Nel tentativo di comprendere l’esperienza di mio padre ho, inoltre, cercato di ripercorrere il suo viaggio tra un campo di internamento e l’altro. Non sono, però, riuscito a completare l’intero percorso. Mi sono limitato a Norimberga e a Neribka presso Przemysl in Polonia. Mio padre è stato catturato a Lubiana nel settembre del 1943 e trasferito prima a Fürstenberg, poi a Przemysl – Neribka – e ad Hammerstein in Polonia. Con l’avanzata dei contingenti sovietici è stato internato a Norimberga e nell’ultimo mese di prigionia ricoverato nel campo ospedaliero di Fullen perché affetto da tubercolosi. Qui è stato liberato dai canadesi. Del suo ritorno, dopo una degenza all’ospedale di Merano fino all’ottobre del 1945, dai familiari viene ricordata solo la magrezza e l’estrema povertà, la difficoltà ad inserirsi nuovamente nella quotidianità, a riprendere gli studi universitari che abbandonò per dedicarsi al commercio di tessuti, lavoro che fece per il resto della sua vita.
Assieme alle sue memorie mio padre aveva conservato tre libri: «Filo spinato» di Giuseppe Zaggia (1945); «Fullen: il campo della morte» del cappellano militare Ettore Accorsi (1946) e «Uomini e tedeschi: scritti e disegni di deportati» di Armando Borrelli e Anacleto Benedetti (1947).
Quali fonti di ispirazione, oltre al diario di suo padre, ha usato per scrivere lo spettacolo?
Mi è stato di grandissimo aiuto il «Diario clandestino 1943-1945» di Giovannino Guareschi, scritto durante la sua prigionia nel campo di internamento di Sandbostel in Germania. Mi ha permesso di rileggere, e poi di interpretare, l’esperienza degli IMI anche attraverso l’ironia.
Altre importanti fonti di ispirazione sono stati il «Diario di prigionia» di Calogero Sparacino internato a Dora-Mittelbau, gli studi «Gli internati militari italiani in Germania 1943/1945» di Gabriele Hammerman e «I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich» di Gerhard Schreiber e, più in generale, gli approfondimenti storici di Vittorio Emanuele Giuntella. Inoltre ho trovato di grandissima utilità l’immenso progetto di censimento «Dimenticati di Stato. I caduti sepolti nei cimiteri militari italiani in Germania, Austria e Polonia» di Roberto Zamboni sui militari “dispersi” dopo l’8 settembre 1943, pubblicato nel sito https://dimenticatidistato.com/.
Ci sono delle parti recitative che avresti voluto aggiungere allo spettacolo?
Inizialmente avevo concepito lo spettacolo ripercorrendo le 14 stazioni della Via Crucis per descrivere dettagliatamente la vita nei campi di internamento. Per scelta del regista Giancarlo Gentilucci questa parte è stata tolta, così da ridurre il tempo di recitazione ad un’ora, anziché due. Questa Via Crucis, ispirata al testo «Via crucis dei lager» pubblicato dall’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) negli anni Novanta, è diventato in seguito un reading a cui sono molto affezionato.
Qual è la finalità dello spettacolo?
Prettamente divulgativa, indirizzata alla trasmissione di questa parte della storia perlopiù sconosciuta non solo alle generazioni più giovani. Ho pensato e scritto questa rappresentazione da padre, partendo dal rapporto tra me e mio figlio e recuperando il non detto tra me e mio padre.
In questo percorso di studio e di ricostruzione storica c’è qualcosa che l’ha colpita in modo particolare?
Mi ha emozionato l’importanza che nella vita degli internati, non solo di mio padre, ha rivestito l’amicizia. Era stata, a mio avviso, una forza vitale necessaria per poter superare l’inedia, la fame, il freddo, le malattie. Assieme al diario ho trovato alcune lettere scritte dallo Stalag di Norimberga, in quella del 15 dicembre 1944 mio padre racconta del suo amico e compagno di internamento Marcello Occioni: «Insieme abbiamo deciso di dividerci tutto quello che ci mandavano. È per bontà sua perciò se sono riuscito a tirare avanti alla meglio sino ad oggi. Adesso però aiuti dall’Italia settentrionale non ce ne vengono più. Perciò ho pensato di mandare a voi i miei e i suoi tagliandi per i pacchi. Il suo indirizzo è uguale al mio: il nome e il numero di matricola ve l’ho scritto sopra. Se potete, inviate anche pacchi senza tagliandi sia a me che a lui».
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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