La storia di Antonio Ligabue, pittore sfortunato e bizzarro del Novecento, dall’infanzia e vita travagliata, ha interessato il cinema e la letteratura fin dagli anni 60. Giorgio Diritti con il film “Volevo nascondermi” la rivisita oggi in modo penetrante ponendo l’accento sulla diversità e il trionfo del talento. Questa figura tormentata circondata dall’incomprensione, respinta ed emarginata dalla gente, riesce ad imporre il fascino della sua arte.
La trama avvincente insiste sulle origini familiari e ambientali del disturbo mentale del protagonista, spesso accoppiato col talento artistico. Contribuiscono ad arricchire la visione le sequenze pittoriche di qualità.
I paesaggi dell’Emilia padana, i campi, il fiume, le rive, gli interni ed esterni in cui si svolge la vita di Ligabue sono quadri impressionisti. Un occhio realista e un intento espressionista individuano e risuscitano i capanni, le cascine, la piazza coi portici e le figure divenute parti attive del racconto.
Diritti parte subito dalle angosce di Antonio bambino, nato a Zurigo da una ragazza madre emigrata dal bellunese. La donna, Elisabetta Costa, sposata poi all’italiano Bonfiglio Laccabue, affida il bimbo (Oliver Ewy e Leonardo Carrozzo) a una famiglia svizzera. Seguiamo i frammenti del calvario infantile, dalla rigida educazione scolastica calvinista, alle precoci malattie (gozzo e rachitismo) dovute a denutrizione, alle ottusità del nucleo familiare adottivo culturalmente arretrato e superstizioso.
La fanciullezza incompresa di Antonio è straziata dagli adulti, la sua personalità è lacerata anche dagli internamenti in istituti. Gli inadatti interventi medici si sommano ai lontani e confusi antecedenti dell’abbandono e causano la nevrosi.
I ricordi traumatici che sfilano nell’intreccio fanno della memoria del pittore un protagonista. Ci mostrano un essere fragile e impaurito capace di comunicare solo con gli animali semplici e buoni più degli umani. Dopo la morte della madre, insieme ad altri tre figli per un avvelenamento alimentare rimasto oscuro, il giovane ventenne, denunciato dalla matrigna, viene espulso dalla Svizzera per “cattiva condotta” ed estradato in Italia a Gualtieri, paese natio del patrigno nel territorio di Reggio Emilia. Quest’ultimo è però finito in carcere incriminato per omicidio.
Solo e sbalzato nella nuova terra, Antonio è straniero, non conosce neppure la lingua e diviene bersaglio dei paesani miseri e ignoranti, deriso e insultato perfino dai bambini. Risponde e si difende con attacchi d’ira, ma le sue urla animalesche lo configurano come un folle e lo ricacciano in una solitudine sempre più profonda.
Lo chiamano Il “matto” o il Todesc. Vive alla giornata, spesso senza cibo lungo le rive del Po. Nei casolari e capanne o nel fienile di villa Malaspina. Entra ed esce dagli ospizi, ricoverato per le crisi psicotiche. Nei momenti di raptus si ferisce, si accanisce col coltello sul proprio corpo, si taglia il naso per renderlo somigliante al rostro dei rapaci. Ha paura dell’uomo che gli si è sempre mostrato nemico, cerca solo la compagnia degli animali imitandone i versi, i movimenti e li dipinge.
Disegna il leopardo, il suo grido di rabbia e di dolore e l’aquila arcigna visti da piccolo, come creature prigioniere, nello zoo di Zurigo. Riproduce anche se stesso guardandosi allo specchio, ritrae la fiamma torva che si agita nel suoi occhi, esterna con tratti e colori forti le tempeste dell’animo. Gli autoritratti sono più di un’intervista, sono una confessione.
Per sopravvivere scambia quei lavori e più spesso li dona. Ma gli zotici analfabeti del luogo sono raramente in grado di apprezzarli.
Qualche intervento pietoso spezza il muro di ostilità. Un giorno la madre dello scultore Renato Mazzacurati (Orietta Notari) si avvicina al disperato e calma con dolcezza i suoi attacchi. Va a trovarlo, lo conforta, gli porta del cibo.
Il riscatto di Ligabue avviene con l’arte, vena liberatoria che sgorga veemente dal suo inconscio. L’incontro con Mazzacurati, artista conosciuto e presidente dell’Accademia delle Belle Arti (Pietro Traldi) sarà decisivo. È lui a scoprire la genialità nello stile grezzo del naif, a incoraggiarlo a continuare a dipingere e a scolpire con la creta, lui a procurargli i primi colori a olio.
Seguono altri sostenitori che gli apriranno la strada nel mondo culturale come Cesare Zavattini (che nel 1967 gli dedicherà una bella biografia poetica) e artisti come Arnaldo Bartoli e Andrea Mozzali che gli saranno di valido aiuto. Mozzali, lo ospiterà a Guastalla a casa sua, liberandolo dall’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia e alla fine sarà l’autore della sua maschera mortuaria.
Viene il momento del successo. La personalità sorprendente del pittore farà scalpore nelle varie mostre a Roma, Milano, Firenze, ed altre città d’Italia. La critica acclama.
Quelle volpi, tigri, leoni, i cani, i cavalli , gli insetti, lanciano dalle tele un messaggio autobiografico sconvolgente, come le immagini del suo volto. Esprimono il furore, l’ingenuità, la vitalità indomabile.
Coi plausi arriveranno i compratori, ma lui non sa che farsene del denaro e delega ad altri gli accordi sugli acquisti. Ciò che vuole è la moto desiderata, una Guzzi rossa che guiderà con la stessa carica furiosa con cui muove il pennello. Le corse per la campagna sconfinata che riempiono lo schermo sono simbolo di un abbraccio figurato, di libertà, di evasione dalle ansie e dalla malevolenza del mondo esterno.
Negli anni le moto saranno dodici. Ma c’è anche una BMW e un autista fidato Vandino Da Olio che sopporta le sue bizzarrie e lo accompagna. Lo considera un maestro, diverrà suo allievo e amico e quando è solo e dimenticato dagli altri, durante il suo ricovero lo va a trovare.
È toccante la sete d’amore inappagata dell’artista. Nella stamberga sogna l’impossibile felicità, si inventa la donna travestendosi di abiti femminili, inventa una fantomatica compagna. È commovente la scena in cui chiede un bacio a una ragazza in cambio di un disegno, ma le donne lo evitano spaventate dalle sue anomalie. Quando s’innamora di Cesarina (Francesca Manfredini), cameriera nella trattoria Croce Bianca dove lui soggiorna, lo vediamo soffrire tra il grande bisogno di tenerezza e i timori della ragazza. Le sue fantasie cozzano con la realtà. Vorrebbe sposarla, portarla come una principessa nel castello di Albinea, sulle colline di Reggio Emilia o in Svizzera ma le sue tasche sono vuote.
Le crisi depressive e autolesioniste continuano e così i ricoveri sanitari. Fino alla morte nel 1965 nell’ospizio “Carri” di Gualtieri, dopo una paresi e un ictus, con pochi amici e pieno di amarezza.
Ma la vera vita degli artisti è l’atto creativo e Ligabue ha la certezza di essere grande e di sopravvivere nel tempo.
La performance di Elio Germano nei panni del protagonista è strepitosa e gli vale nel 2020 a Berlino l’Orso d’argento per il miglior attore.
La regia di Diritti ha puntato sulla maestria della recitazione e con essa si è fusa. Germano mima infatti con meticolosa umiltà le sfaccettature del personaggio non comune, la sua complessa psicologia, forte anche di un’identità di vedute sul concetto dell’arte. Nella sua interpretazione conta senza dubbio anche la lezione dei filmati precedenti, quello intenso di Salvatore Nocita nella miniserie televisiva del 1977, con la forte presenza di Flavio Bucci, e le riprese autentiche e taglienti di Raffaele Andreassi del 1961.
“Volevo lasciarmi attraversare da Ligabue”, dice l’attore. E in effetti riesce a divenire nel cinema quell’uomo che riconquista sé stesso con la vocazione artistica.
Lancia anche un messaggio attuale, un paragone con lo scadimento dell’arte nella nostra epoca, ridotta a effimero oggetto di consumo. Mette a confronto la coerenza di Ligabue, il suo credo nel valore puro della creazione, con la superficialità e casualità del mercato. Al naif non interessa il business, scambia le sue opere per necessità, le regala, le distrugge per scontentezza ma è convinto fino all’ultimo della propria statura. Vive per il futuro.
Ancora una volta la sua sorte richiama quella di tanti artisti sfortunati e invisibili in vita, Van Gogh, Modigliani, Gauguin e molti molti altri, contesi post mortem dai galleristi, decantati dai critici e immortalati nei musei. L’arte è ciò che di meglio possiede l’uomo. È preda dell’ingordigia dei mercanti ma è prima di tutto grande soluzione per la mente e resistenza alla morte.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato venerdì 25 Settembre 2020
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