Il 12 settembre del 1953 Renzo Renzi, autorevole critico cinematografico di Cinema Nuovo, viene arrestato insieme al direttore responsabile della rivista, Guido Aristarco, con l’accusa di “vilipendio delle forze armate”. Sette mesi prima, nel numero del 1° febbraio, il quindicinale aveva pubblicato nella rubrica Proposte per un film, il soggetto L’armata s’agapò (ti amo in greco) di Renzi, titolo che traslava in chiave ironica i ricordi delle sue esperienze di ufficiale durante l’occupazione italiana in Grecia. Entrambi i giornalisti vennero rinchiusi per quarantacinque giorni nel carcere militare di Peschiera. Fu un fatto clamoroso, nato nel clima di ottusa restaurazione post 1948 e suscitò veementi proteste generali nella stampa e nel mondo culturale. Dopo il processo gli imputati vennero liberati, ma condannati secondo il codice penale militare vigente (otto mesi per Renzi e 4 mesi e mezzo per Aristarco), poi modificato nel 1956 anche in seguito all’intenso movimento d’opinione.
Col suo contributo, Renzi intendeva sfatare tutte le descrizioni edulcorate della campagna in Grecia e ristabilire la verità sul costume, gli abusi e i crimini perpetrati dopo l’invasione nel 1940, dal 1941 al 1943. Con la resa dell’esercito greco, gli italiani si erano aggiunti ai tedeschi e ai bulgari per reprimere duramente ogni reazione partigiana infierendo sulle popolazioni stremate. Domenikon, Tsaritsani, Domokos, Farsala, Oxinià furono teatro di terribili ritorsioni ed eccidi a opera dagli occupanti. In sostanza, altro che italiani brava gente!
E Renzi, con voce nuova, interrompeva la falsa retorica con cui veniva rappresentata la guerra fascista, delineando l’immagine reale di un esercito che si dedicava in larga parte al gallismo, alle requisizioni di scorte alimentari primarie nelle case dei civili e alle fucilazioni indiscriminate di ostaggi.
Gli appunti nel n. 4 della rivista del 1953 erano quindi un esame di coscienza, una condanna della guerra e insieme un atto di fratellanza verso il popolo greco aggredito.
Oggi un docufilm potrebbe riprendere l’idea del critico cinematografico per dare voce alle vittime di allora e assolvere pienamente quei giornalisti ingiustamente imbavagliati. Sul filo dell’articolo, fotogrammi e sequenze potrebbero ripartire dai monti di Albania, dalla sconfitta dell’esercito italiano; dal flop del duce, infatuato del proprio mito imperiale, che dirige di persona le operazioni; dal sopravvento dell’ingente appoggio tedesco alle spalle degli avversari, che consentì agli italiani di recitare la parte dei vincitori, come mosche cocchiere. Un racconto per immagini che passa dalla tragedia all’operetta, senza tralasciare la farsa.
Renzi intravede l’esordio dell’operetta in un dialogo musicato sulla preparazione della campagna descritta da Mussolini nell’opuscolo Il bastone e la carota, con il duce nella parte del tenore. I soldati, catapultati in una guerra dalle ignote motivazioni, non reggono al ruolo trionfale di conquistatori. I superiori, allevati dal regime, li incolpano dei fallimenti della “missione”. Una sequenza buffonesca potrebbe sceneggiare le regole del comportamento “imperiale” nei riguardi della popolazione impartite al corso per ufficiali di Nauplia, presso le città murate di Argo e Tirinto: Camminare in mezzo alla strada, non cedere mai il passo, non fraternizzare, avere sempre ragione.
In parallelo, la corsa di ufficiali e soldati al possesso delle donne greche affamate, facilmente conquistabili con una pagnotta (questa la tariffa): le case di tolleranza sono piazzate in ogni dove, di qui l’appellativo “l’armata s’agapò” affibbiato agli italiani dalla propaganda inglese.
Ed ecco un attendente il cui compito è quello di accudire il figlioletto di una giovane donna per tutta la durata del convegno amoroso col capitano. La madre, consegnato il piccolo, si toglie le scarpe, esce in punta di piedi e raggiunge l’ufficiale tra i fichi d’India. Commenta la scena l’aria di Nemorino dell’Elisir d’amore, “Io so solo/Io so solo sospirar”. Per passare agli alti gradi, ecco un comandante che si sposta dal Peloponneso all’Epiro seguito dal bordello al completo con la direttrice come amante. Parte la colonna con prostitute al seguito, mentre sopraggiungono i tedeschi sgombrando l’edificio e gettando i letti giù dalle finestre.
La parte farsesca ha un risvolto tragico con le scene di guerra: spostamenti notturni per allarmi, segnalazioni di razzi misteriosi, lanci di paracadutisti, operazioni segrete di sottomarini avversari sbarcanti armi ed emissari sulle coste. Lunghe autocolonne partono dal golfo di Arcadia dirette alle montagne del Taigeto, a Corinto, a Calamata, a Sparta, luoghi che rivelano paesaggi stupendi, aspri, in mezzo a paesi sperduti di pastori. Nelle povere case spiccano le fotografie dei greci emigrati in America, un po’ somiglianti agli italiani del film Cristo fra i muratori (1949) di Edward Dmytryk: perché i volti degli emigranti, segnati dalle vicissitudini, mostrano tutti la stessa tenacia, la stessa amara pazienza.
Da quelle case però, i “nostri” portano via le riserve di olio, ed è solo una delle azioni vili che caratterizzano l’operato degli italiani in Grecia. Poi si passa alle esecuzioni degli ostaggi per rappresaglia contro le azioni degli “andartes”, i partigiani resistenti. Un ragazzino umile e dimesso, posto contro il muro, guarda con occhi tristi il comandante del plotone e gli rivolge un timido cenno di saluto. Poi arriva la scarica. Altri due giovani prigionieri, Gliaco e Giorgio, di notte, in aperta campagna, sono seduti in attesa della morte su una panca illuminata dai fari incrociati delle autocarrette. Gliaco è tranquillo, Giorgio trema dalla paura. Il prete greco gli offre un bicchiere di vino, ma lui rifiuta. Gliaco gli dice “Pine Gheorghi pame sto calò” (Bevi Giorgio, andiamo verso il bello): solo questa battuta li separa dalla morte.
I greci secondo Renzi, lo dicevano tutti, sapevano morire. Ci sono le rivolte dei soldati esasperati dalle mancate licenze, dopo anni di lontananza dalle mogli e dai figli, ma anche i suicidi e le fughe. Un ufficiale si eclissa sui monti con l’aiuto della tenutaria del bordello, un altro si camuffa travestito da domatore di circo e gira con un giubbone rosso. Infine l’8 settembre, la resa del reggimento ai tedeschi senza colpo ferire. Nel momento umiliante dell’ammainabandiera, alcuni ufficiali del picchetto disorganizzato salutano con la mano alla bustina, altri restano sull’attenti.
Di contro l’epopea, il sacrificio e la dignità dei militari di Cefalonia. E ancora i lunghi convogli che portano via gli italiani non aderenti al Reich, attraversano i Balcani e scaricano dopo viaggi estenuanti “i traditori” nei lugubri campi di concentramento in Polonia e Germania, tra fame e stenti. Molti di loro, superfluo specificarlo, non torneranno. “La nostra generazione deve parlare di queste cose” affermava Renzi in quel lontano 1953 a sostegno della sua idea filmica. Sono passati quasi settant’anni e il cinema ha offerto poco sull’argomento. L’umiliazione delle donne greche in Le soldatesse di Valerio Zurlini (1965) e la voglia di “andare a casa” in Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991), ad esempio, ma il tema dei crimini del fascismo in Grecia e nei Balcani giace ancora occultato in qualche “armadio della vergogna”. Rievocarlo sullo schermo consentirebbe anche di approfondire i precedenti della tragedia delle foibe, di cui oggi si parla spesso superficialmente, sorvolando sull’origine di quel feroce odio anti-italiano, scaturito dai delitti fascisti nelle patrie degli altri.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato mercoledì 23 Febbraio 2022
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