Non essere cattivo di Claudio Caligari, realizzato per volontà e fervore di Valerio Mastandrea dopo la morte precoce del regista, a riprese concluse, ci investe con una corrente di umanità struggente e veritiera, serpeggiante nell’ambiente torbido del litorale di Ostia del 1995. Ne evoca le contraddizioni e il degrado economico e morale. Ci parla del fattore droga insinuato nella disoccupazione giovanile, nella miseria delle periferie. La grande trovata della società del business (piramide malavitosa dalla base disperata in basso e falsamente rispettabile in alto) che aggrava la schiavitù dei poveri, appare qui nefasta e senza sconti. Gli effetti paradisiaci, le allucinazioni, la violenza, le conseguenze disastrose in sparatorie, investimenti d’auto e rapine sono materia bruciante della cronaca più attuale. La droga pare bella per l’illusione di essere fuori dal marciume, di essere superman ma in realtà distrugge, è infame. Lo dicono senza bisogno di commenti quegli occhi sbarrati e dilatati dei protagonisti, Cesare e Vittorio, nelle loro inutili scorribande.
Il ritratto ambientale è realistico, senza una nota in più o in meno. Il film percorre in su e in giù il litorale di Ostia notturno, ci mostra zone di borgata dimenticate tralasciate dalla capitale, aree simbolo anche delle colpevoli dimenticanze delle altre metropoli. Questo di Caligari è uno spaccato di verità che va dai luoghi al gergo della gente, ai moti d’ira, di crudeltà quotidiana e anche di generosità. Sfilano nello sfondo immagini di rapine, furti, traffici ambigui, smercio di cocaina e droghe sintetiche, sballi di gruppo e solitari. Tutto divenuto un copione di normalità in cui anche l’illegalità è accettata come lavoro. E le famiglie decimate, le malattie, le morti violente, il carcere. C’è anche chi sale sulle impalcature e si guadagna il pane onestamente nell’edilizia. Pochi però. Anche nei cantieri c’è traffico, ci sono irregolarità.
Caligari è sempre stato attratto dal mondo oscuro dei perdenti affondando nella quotidianità dell’hinterland romano e scoprendo tra l’immondezza del suburbio i sentimenti. L’amicizia tra Cesare e Vittorio è in primo piano, importante, incisiva. È fatta di complicità, di aiuto, di confronto, anche di schiaffi e rimproveri. I due sono come fratelli, fin dall’infanzia hanno giocato insieme, si vogliono bene. Insieme li vediamo muoversi sulla via sbagliata, vivere di espedienti con spacciatori e malavitosi, abbandonarsi a serate di ebbrezza e di pasticche sintetiche, sniffare cocaina insieme a ragazze sbandate. Poi Vittorio si stanca di questa esistenza pericolosa e inconcludente. Non che sia migliore di Cesare, ma ha più volontà. E soprattutto ha incontrato Linda una donna seria che gli suggerisce un’altra scelta.
Caligari tratta con dolcezza queste figure femminili, tutte con un potenziale affettivo, nelle situazioni più aspre. Sono ritratti dagli echi pasoliniani che infrangono lo squallore come sprazzi di luce nell’inferno. Sono vittime di un contesto emarginato come la madre dolorosa di Cesare, impotente a reggere una famiglia disastrata, la nipotina Deborah, orfana esile e malata, che intenerisce con l’ingenua fiducia nello zio. Lui le è affezionato, le porta i giocattoli, li ruba per lei. Ultimo, l’orsacchiotto che la vigilerà fedele nel cimitero. Le due ragazze, Linda e Viviana, a cui si aggrappano i protagonisti, sono appigli per non naufragare. Rappresentano l’unica via d’uscita, il semplice desiderio di radicarsi in una vita più tranquilla, almeno per salvarsi. La prima, madre di un figlio adolescente, lasciata sola come tante dall’uomo, vuole una famiglia normale e Vittorio acconsente. Trova un’intesa positiva anche col ragazzo. L’altra, ex amica di Vittorio, scopre nell’amore di Cesare la speranza di una nuova vita. Ha ancora dei sogni in mezzo ai veleni. La coppia occupa una costruzione abbandonata. Il loro ingresso nel rudere ha qualcosa di poetico, di fiabesco. Il soffitto bucato e le pareti pericolanti non sciupano la gioia di un tetto condiviso in un’atmosfera chapliniana. In questa scena ci starebbe bene anche una canzone di Fabrizio De André.
Vittorio si mette a lavorare nel cantiere, non smette di incitare l’amico a cambiare, ma lui non ce la fa, è più debole. Il suo tentativo di improvvisarsi manovale fallisce. Oberato dai debiti, torna coi trafficanti e cede sia alla droga che alle leggi del malaffare. Un ultimo errore gli sarà fatale.
Un anno dopo, le immagini dell’incontro con Viviana e il suo bambino in carrozzina risuscitano un filo di speranza nel futuro, che la morte violenta di Cesare non sembra aver spezzato. Lo leggiamo nell’espressione intensa e partecipe del volto di Vittorio. In realtà i sentimenti hanno una loro eternità e sopravvivono al destino, più forti a volte delle perfidie sociali e storiche, come un altro pianeta.
Luca Marinelli (Cesare) e Alessandro Borghi (Vittorio) sono incredibilmente vivi e precisi. Le loro vicende personali ci coinvolgono e nello stesso tempo sono una continua accusa ad una società profondamente inquinata. Anche le interpreti femminili – Roberta Mattei (Linda), Silvia D’Amico (Viviana) e Alice Clementi (Deborah) – danno, con spontaneità, la giusta misura dei personaggi.
Il film presentato fuori concorso al recente Festival del cinema di Venezia ha riscosso molti consensi. È un vero peccato la perdita di Caligari e la sua vena così sensibile. Avrebbe potuto essere ancora fertile e scandagliare con arte sincera le tenebre di altri mondi contemporanei sempre dalla parte degli ultimi.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 16 Ottobre 2015
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