Una lezione di saggezza, un invito al dialogo e alla ragione ci viene dal film L’insulto del regista libanese Ziad Doueiri (titolo originale Il caso n. 23). «Abbiamo tutti lo stesso sangue rosso», dice una frase illuminante del bel lungometraggio candidato al Leone d’Oro nell’ultimo Festival cinematografico di Venezia. Questa storia significativa, che va oltre la sua stessa trama, ci offre chiavi emblematiche dei conflitti nati e sostenuti dalla cieca aggressività. Vediamo come gli echi drammatici delle guerre e delle discriminazioni si depositino nella memoria e nell’inconscio dividendo famiglie, amici, popoli, ambienti di lavoro e di scuola. Vediamo come la parola può essere più violenta di una coltellata, scatenando l’odio, suscitando reazioni a catena. Tutte cose che sappiamo, certo, ma che qui appaiono ben illustrate dall’intensità delle sequenze.
Nella trama, il diverbio tra il meccanico libanese Toni Hanna (Adel Karam) e il capocantiere palestinese Yasser Abdallah (Kamel El Basha, coppa Volpi al Festival di Venezia) si complica e finisce in tribunale. Dalla grondaia del primo cade acqua che bagna il secondo. Toni rifiuta di far sistemare il tubo e quando Yasser lo fa aggiustare dall’esterno, l’altro scende giù e distrugge l’opera a martellate. Yasser si adira e reagisce a mal parole, «Sei un cane», una grave ingiuria per gli arabi. E quando, convinto a fatica dal suo principale a chiedere scusa, si presenta all’offeso viene respinto con una battuta bruciante «Sharon avrebbe fatto bene a sterminare tutti voi palestinesi».
È qui che il privato comincia a svelare il risvolto collettivo, per poi tornare in stretto legame col precedente e il tutto trascinerà i litiganti in una spirale pericolosa. Yasser, che è un ex ingegnere rifugiato nel campo profughi, sbotta e prende a pugni “l’infame”, lesionandogli alcune costole. I riferimenti alla memoria del passato dei due protagonisti rivelano via via esperienze dolorose, ferite mai rimarginate che riemergono.
I due litiganti finiscono in tribunale, cadono in pasto agli avvocati e poi ai media avidi di notizie clamorose, mentre i politici nell’ombra influenzano la loro vita privata e gli scalmanati delle fazioni di ambo le parti minacciano la loro quiete. L’imprenditore edile, per ordine di chi lo finanzia, è costretto con un pretesto burocratico a sollevare Yasser dal suo incarico. L’opinione pubblica si scatena, è divisa in due, ci sono scontri tra sostenitori della causa palestinese e i nostalgici di Bashir Gemayel, capo defunto delle milizie falangiste. Perfino il Presidente convoca i due litiganti cercando di sanare il loro futile dissidio divenuto una tempesta. È necessario un compromesso per la serenità della cosa pubblica.
Nella narrazione è messo bene a fuoco il contrasto fra il buon senso dei personaggi femminili e la testardaggine dei due uomini, ottimamente interpretati dai due attori. Toni è rabbioso e maschilista; Yasser, che si dichiara colpevole, cova nell’apparente pacatezza un rancore pronto ad esplodere. L’intento moderatore delle due mogli, Shirine (Rita Hayek) e Manal (Christine Choueiri), che vorrebbero chiudere l’incidente per evitare il peggio, si contrappone all’ostinazione dei due uomini. Non riescono a superare i rispettivi ricordi di una guerra civile che ha lacerato il Libano fino al 1990, distruggendo vite e speranze. La lotta feroce fra cristiani maroniti e falangisti da una parte e palestinesi alleati a libanesi musulmani, sunniti, sciiti, e drusi dall’altra, appartiene al passato. Ma fino a che punto?
Il ruolo dei media, che ingigantiscono e diffondono il caso personale, è abilmente evidenziato. Lo spettatore stesso è sollecitato a seguire con interesse le diatribe tra i due avvocati Wehbe. Sono padre e figlia, sostengono l’uno l’accusa, l’altra la difesa. Abile e scettico, dotato di cinismo legale, il genitore (Camille Salameh) è maestro di argomenti sottili. La figlia (Diamand Bou Abboudif) pacifista, idealista e grintosa, lo sfida. La causa a un certo punto è appesa solo al filo del movente dell’insulto di Toni e della reazione di Yasser. Il giudice Mansour, ancora una donna (Jula Kassar), dovrà decidere.
Lo stato emotivo suscitato dall’ingiuria giustifica i reati successivi? L’arma della parola non è insignificante come sostiene l’accusa, a volte ha un potere straordinario, è capace di ferire a morte la sfera più sensibile dell’identità.
Frattanto nei due uomini maturano sentimenti più semplici e più convincenti delle degenerazioni spettacolari e delle strumentalizzazioni in atto sulle loro vite. Contano i traumi del litigio, il licenziamento di Yasser, le anomalie della neonata di Toni, forse dovute agli stress della situazione. Si aggiungono la rievocazione in aula dei massacri di un tempo a Damur, la città cristiana a sud di Beirut da cui Toni proviene. Le atrocità compiute allora da terroristi dell’Olp si bilanciano con quelle compiute dalle milizie falangiste nei campi profughi. L’ingegnere chiede finalmente scusa a Toni che con improvviso slancio gli rimetterà in moto l’auto in panne. La sentenza assolve il palestinese. Come si vede, il messaggio di Douairi mira alla riconciliazione.
Il discorso filmico ben destreggiato fra il quotidiano, le ambientazioni, le sedute in tribunale, le notazioni psicologiche, hanno una mira di attualità. Come si fa a non pensare alle odierne turbolenze attizzate in varie parti del mondo e in particolare alle irrisolte inquietudini del Medio Oriente? Le questioni spinose affrontate nel film, e il suo sapore emblematico, gli hanno sollevato contro nel mondo arabo discussioni e dissensi, rifiuti di distribuzione e censure a destra e a manca. Per noi è un film da vedere e su cui meditare. Siamo con Adel Karam, interprete della rabbia di Toni Hanna, quando afferma: «È una parabola sulla dignità umana, sul passato, sul presente e su quale sia il futuro in cui vogliamo far vivere i nostri figli. A volte, dobbiamo perdonare per poter andare avanti, o continueremo a essere ossessionati dal passato».
Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato martedì 23 Gennaio 2018
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