Difficile, quasi impossibile, ricostruire una vera e propria trama di Dolor y gloria, l’ultima imperdibile pellicola di Pedro Almodòvar: la narrazione è rapsodica, fatta “della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni”, lirica e caustica, sentimentale e paradossale, secondo un alternarsi funambolico di moduli narrativi ai quali il regista spagnolo ha abituato lo spettatore già in molti altri film (Tutto su mia madre, Volver, Parla con lei, solo per citarne alcuni). Con una fondamentale differenza: diversamente da precedenti opere, in Dolor y gloria la macchina narrativa è semplificata, ridotta all’essenziale, e la vicenda autobiografica è declinata in un tono più intimo e crepuscolare, assecondato dalla mirabile interpretazione di Antonio Banderas nelle vesti del protagonista. In effetti, il vero filo conduttore del racconto è la memoria, nella sua dimensione più individuale, come ha ricordato lo stesso Almodovar presentando a Cannes il suo lavoro: “Se devo calcolare quanto tasso di autobiografia c’è in Dolor y gloria posso dire che sul fronte dei fatti il 40 per cento, ma per quello che riguarda un livello più profondo, si tratta del 100 per cento”.
Così, quando il film inizia, tutto sembra già essere avvenuto, e soprattutto sembra ormai irreversibile e senza via di uscita il declino fisico e psicologico di Salvador Mello, regista, da anni in crisi creativa e riportato alla notorietà dalla riproposizione a un pubblico di cinéphiles della versione restaurata di Savor, il suo capolavoro girato trent’anni prima. Questa visibilità indesiderata, alla quale cerca costantemente di sottrarsi, rimette però in moto la macchina dei ricordi del protagonista, a partire dall’infanzia povera, vissuta in simbiosi con la madre Jacinta, figura insieme protettiva e autoritaria, emblematica di una maternità assoluta e avvolgente, guidata dalla volontà di sottrarre con ogni mezzo il figlio a un futuro di miseria e ignoranza.
Il ricordo dell’infanzia e dell’intenso rapporto con la madre fa da sfondo emotivo e psicologico all’intera narrazione ma, all’inizio della storia, il passato appare come l’unica dimensione esistenziale possibile del protagonista, che ne è assorbito e paralizzato, e sembra incapace di districarsene, come Ireneo Funes, il protagonista del racconto di Jorge Luis Borges, paralizzato nel corpo e della mente da una memoria totale e incapace di oblio. Anche l’incontro con Alberto, l’attore protagonista di Savor, riaccende il rapporto conflittuale tra i due, e finisce con lo spingere Salvador a una temporanea e innaturale dipendenza dall’eroina, attraverso la quale cerca di rendere definitivo il suo congedo dal presente e di sottrarsi al fastidio per le continue sollecitazioni provenienti dal mondo esterno. Tra litigi e incomprensioni, è però proprio Alberto a scoprire un inedito testo di Salvador, dal titolo emblematico di Adiccíon (Dipendenza), e a insistere a volerlo mettere in scena, riuscendo alla fine a strappare il consenso del riluttante autore: in un gioco di scatole cinesi, il teatro nel cinema si rivela un espediente narrativo di straordinaria efficacia. Tocca ad Alberto rievocare sulla scena l’infelice passione del protagonista per il tossicodipendente Marcelo, sullo sfondo della movida madrilena trasgressiva e chiassosa del dopo Franco. Ma è proprio la rappresentazione pubblica di una storia d’amore insieme tenera e brutale, che si conclude con un’amara considerazione sull’impotenza dei sentimenti a resistere all’ineluttabilità delle scelte e dei destini, a provocare la svolta del racconto. Tra il pubblico, casuale spettatore, siede proprio Federico, l’ex compagno di Salvador, ormai pacificato nella dimensione borghese di un facoltoso ristoratore. L’incontro tra i due ex amanti ha l’effetto di una vera e propria epifania per Salvador, e segna l’inizio di un percorso di riconciliazione e di superamento dei traumi provocati dalla perdita dell’uomo amato e dalla morte della madre: una riconciliazione che è anche redenzione della memoria, non più prigione dalla quale è impossibile evadere ma luogo dal quale si dipanano i fili emotivi e sentimentali che rendono possibile tornare ad abitare il mondo presente e a raccontare poeticamente il passato.
L’infanzia stessa torna a vivere trasfigurata nel segno della riscoperta dell’innocenza dell’arte e dell’erotismo, incarnata nella figura dell’imbianchino pittore analfabeta Eduardo, al quale il più piccolo Salvador insegnerà a leggere e a scrivere e dal quale riceverà in cambio, come ringraziamento, un ritratto tracciato sulla tela di un sacco; ed è questo schizzo, dimenticato per anni e ritrovato, casualmente, dopo l’incontro con Federico, a dare al protagonista un nuovo sguardo sul passato, fino a fargli comprendere che l’unico modo per superare la perdita della madre è di violare il divieto a suo tempo impostogli, di non narrare la loro storia.
Redenzione e riconciliazione sono il fil rouge che tiene insieme la storia di incontri e di addii nel quale, forse, si può compendiare l’intero racconto. Per questo aspetto, Dolor y gloria è un apologo sulla forza catartica del gesto creativo e dell’invenzione poetica, che, anche nella forma più ingenua, esprimono sempre l’inesauribile aspirazione positiva di ciascuno a sottrarsi all’ansia dell’esistenza e all’angoscia della fine.
Così è per Salvador: superata con un’operazione chirurgica una malattia che era sembrata molto più grave, l’artista può finalmente tornare alla sua vita e al suo lavoro. È il preludio a una conclusione anch’essa di grande semplicità e forza evocativa: in un flash back, Jacinta e Salvador bambino si accingono a trascorrere la notte nella sala d’aspetto di una stazione, prima di raggiungere la città di Paterna, dove si stabiliranno. Nel momento in cui il bambino chiede alla madre se vi troverà un cinema, il campo si allarga, e rivela un set cinematografico. È il set del nuovo film che Salvador ha iniziato a dirigere: quello che abbiamo appena finito di vedere.
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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