Il mare non è una strada, dice un profugo nigeriano nel documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, premiato con l’Orso d’oro all’ultima Berlinale 2016. Egli racconta concitato come ci è arrivato, l’odissea dei suoi viaggi dal paese al deserto, alle prigioni della Libia, insieme ai compagni di sventura, senza aiuto, assetati, affamati, stuprati. Descrive il lungo cammino fino alla costa dettato dalla disperazione di chi è ormai aduso alla morte ma ancora ignaro degli ultimi disastrosi capitoli in preda alle onde. In questa sequenza dal vivo, nell’oscurità dei punti di raccolta, c’è l’essenza di un immane sacrificio umano.
Il film ci ricorda che il cinema non è solo intrattenimento, ispirazione artistica, identificazione romanzesca ma anche un’occasione per non sorvolare i drammi del nostro tempo e del mondo, entrarvi e capirli.
Tre filoni si alternano paralleli e contigui nella vicenda filmica che si svolge a Lampedusa. La vita semplice di Samuele piccolo abitante dell’isola (Samuele Pucillo), i suoi giochi con la fionda, la sua voglia di sapere, i suoi piccoli malanni. La famiglia, la zia Maria intenta a cucire e cucinare, a ricordare gli spaventi dell’ultima guerra, i fuochi delle bombe, il saettare dei razzi. Lo zio pescatore, parco di parole con la sua saggezza, abituato ad accogliere tutto ciò che viene dal mare, gli uomini che si tuffano a notte fonda con miseri mezzi per cogliere i frutti subacquei e sopravvivere. Accanto, l’indifferenza oggettiva della natura dell’isola e del mare, la bellezza silenziosa e grandiosa, con i suoi alberi antichi e cespugli fitti, scogli, lunghe prospettive, distese di mare aperto e la visione opposta, grigia, insidiosa dei flutti arrabbiati che diviene minaccia.
Il trailer del film
E poi i migranti, vecchi, giovani, donne, bambini, giunti dal Corno d’oro, dall’Eritrea, dalla Nigeria, dalla Siria, volti scolpiti dal terrore, dal dolore, dalle sevizie subite, dall’abbandono alla sorte. Li aspetta sempre un’atmosfera di incognite. Anche all’arrivo, le operazioni selettive, le attese accucciati per terra, i raggruppamenti che ricordano troppo gli ammassi delle stive, l’antico sgomento degli schiavi nel fondo buio dei navigli dei bianchi.
Dice Rosi in un’intervista: «Il mio approccio è stato realmente all’isola in attesa di qualcosa». Il centro d’accoglienza era chiuso per ristrutturazioni. L’incontro del regista con Lampedusa trasformata, vuota, con l’eco della tragedia, con l’eco della migrazione, è stato con qualcosa che accadeva “oltre”.
Pietro Bartolo, dottore dell’Asl, è il raccordo emblematico con questo “oltre”. Le sue parole insegnano che l’essere umano in pericolo affidato alle cure è un uomo e basta. Egli fa parte di quei medici di cui è sempre più rara la specie, che non hanno scordato l’ideale universale di Ippocrate. Lo vediamo seguire con ansia in un’ecografia il profilarsi di due gemelli nell’addome di un’emigrata ed anche spiegare con pazienza al piccolo Samuele i suoi disturbi cardiaci e l’occhio “pigro”. Ci descrive poi con rammarico il compito straziante delle autopsie sui cadaveri, ulteriore ferita ai corpi e alle anime.
Vediamo anche gli operatori dei soccorsi, sulle navi della Marina, ufficiali e marinai che ci riconciliano con un’umanità troppo spesso cinica ed egoista. Gente di mare, sollecita, coraggiosa, che affronta fatiche ed emozioni per salvare poche vite e radunare salme.
La naturalezza di Samuele conquista. È un ragazzo genuino nel suo rincorrere uccelli, scoprire nidi, misurarsi con l’amico (Samuele Cucina) interrogare lo zio navigatore che lo invita a lasciare quei suoi giri infantili con la fionda. “Vai a prepararti alla barca – lo esorta – vai sul pontile per vincere il mal di mare”.
Anche l’emittente artigianale che lancia musica a richiesta è una voce della quotidianità. Pippo, il disk jockey, ci fa sentire, tra altre canzoni nostalgiche, il motivo tradizionale che le donne dedicano ai loro uomini impegnati nella pesca, da cui il film prenderà il titolo. Tutto riporta ad un’ingenua e spoglia linearità di sentimenti.
C’è voluto un anno a Rosi per conoscere questo mondo ed entrarvi. Il suo viaggio filmico nasce girando, frutto di incontri magici, “fatali”. Lui lo definisce “autofecondato”. Lo stile attinge ad una realtà che parla attraverso dialoghi muti tra spazi deserti od irti di roccia, poveri interni, sguardi desolati, senza più lacrime, interrotti da frammenti di narrazioni disperate e gesti laboriosi di chi si guadagna il pane giorno per giorno nell’acqua.
La visione degli ultimi sbarchi, dei cadaveri sparsi sottocoperta tra frammenti di oggetti e stracci, è stata decisiva.
L’opera parla alla coscienza dell’Europa con un linguaggio diretto e poetico, senza fronzoli. Dice che l’Italia non è solo capolavoro d’arte e di paesaggio, non è solo turismo ma anche luogo ed offerta di solidarietà alla persona umana, punto d’arrivo dei princìpi e doveri della legislazione internazionale. Chiudere gli occhi di fronte allo sterminio dei migranti è come ripetere la distrazione colpevole verso l’Olocausto ebraico e verso altri orrori secolari.
Il premio ottenuto, oltre al dovuto riconoscimento al talento dell’autore, suona come un segnale di resipiscenza.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato lunedì 7 Marzo 2016
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