Scorrono i titoli di coda: riprendendo il filo di una sequenza che abbiamo visto in precedenza. È la sequenza di un lungo carrello attraverso le stanze vuote di una casa in dismissione. La casa di una famiglia che trasloca, quella di Rubens e Eunice Paiva e le loro 4 figlie e un figlio. Un trasloco che Rubens non avrà modo di effettuare e di cui è purtroppo indirettamente la causa: perché nel 1971, in qualità di ex parlamentare del Partito Laburista Brasiliano (eletto nel 1962, esule in Europa dopo il golpe messo in atto dalle forze armate brasiliane nel 1964:,poi decise di tornare in patria da moglie e figli, operando negli anni seguenti in dissidenza al regime) fu sequestrato, torturato e ucciso dalle forze repressive fasciste del regime militare. Che arrestarono, detenendole per 12 giorni e 24 ore, anche la moglie Eunice e la figlia Eliana (che aveva 15 anni). Il destino da desaparecido di Rubens vedrà la moglie cercare la verità sul destino del coniuge fino al 1996, anno in cui fu ufficialmente riconosciuta la sua morte per assassinio.

Non per caso il regista Walter Salles – coinvolto nella vicenda in prima persona: da ragazzo era vicino di casa e amico della famiglia Paiva – centra il suo film soprattutto sull’abitazione di Rio de Janeiro, in cui si svolge la parte più rilevante della vicenda narrata. Una casa prospettata sull’oceano, in cui abita una famiglia felice, stanze mostrate soprattutto nella prospettiva delle figlie adolescenti e dei ritrovi tra amici, piene di riferimenti alla cultura, soprattutto musicale, del tempo: un’abitazione in cui amarsi, crescere, definirsi in serenità la vita futura. Ma un’abitazione violata dagli agenti della repressione quando verranno a arrestare Rubens, occupandola subito dopo per alcune ore, in cui i carnefici e le loro vittime si troveranno a convivere, sia pur per poco. Le seconde sono ancora ignare di quanto sta accadendo, ma lo comprenderanno con tragica evidenza dopo la detenzione di Eunice e Eliana.
Comincia un gioco difficile di mezze verità per tutelare i figli più piccoli e la più grande, a Londra per un soggiorno di studio, dal conoscere la realtà di quanto sta accadendo. Questa dimensione del sapere e non sapere rispecchia quanto stava accadendo nel Paese: la pratica dell’annientamento della coscienza civile delle persone passava per la scomparsa fisica, mai ammessa dalle autorità di polizia, di coloro di cui si poteva pensare, anche solo supporre, un ruolo di resistenza al regime. Così è stato in molti Paesi dell’America Latina sotto il tallone di ferro degli Usa, direttamente coinvolti nell’ideazione di tali dinamiche, per cui hanno provveduto alla loro criminale efficienza con percorsi di formazione alla tortura più efferata. Nonché il pieno sostegno politico. Le dittature giocano su un potere orribile, non solo quello diretto del poter sequestrare, violentare, far scomparire: soprattutto su quello del poter mentire, non dire quanto accade. È l’espressione più diretta della forza con cui si cancella diritto, legittimità, dignità, vite.

Nel contrapporsi tra forza e ragione – come si evidenzia nell’ultimo messaggio, diffuso per radio, del Presidente cileno Salvador Allende assediato dalle truppe golpiste del generale Pinochet nella dimora presidenziale l’11 settembre 1973 – dobbiamo constatare come la Storia ci ha fatto spesso soffrire del trionfo dell’ingiustizia, della repressione, della guerra. La pagina scritta con le vicende di tutti quegli uomini e quelle donne scomparsi e pianti nel gorgo osceno dei totalitarismi resta come segno di una umiliazione e di un dolore che comunque non è possibile relativizzare e dimenticare: chi è stato ucciso rimane lo scandalo di una vita negata, segno della dimensione di dominio a cui tutti noi siamo soggetti. Se si nega libertà, dignità o esistenza a un solo essere umano, tutti e tutte siamo nella logica del pericolo e del sopruso.

Prendere atto di questo non significa però essere totalmente sconfitti. La dignità della verità rimane, inevitabile. E chi la ricerca, ostinatamente, consapevole di quanto ciò può costare, si colloca in una dimensione sacrale: al pari delle vittime è tutelato dalla verità stessa. In Io sono ancora qui, a partire dal titolo stesso, si racconta la forza inarrestabile di una donna, Eunice, che cerca, semplicemente, la certezza di un abuso subito contro chi vuol cancellare la propria responsabilità personale di fronte alla storia, nell’illusione che essa si possa negare nella sua logica di fondo, la certezza dei fatti. Se la protervia di chi la nega è già violenza assoluta, il sentimento dell’amore si connota come ciò che la contrasta, perché l’amore stesso è tessuto di memoria.

In una scena molto bella del film, il giornalista che sta scrivendo un pezzo per la stampa estera sul caso Rubens Paiva chiede di poter fotografare la sua famiglia: ma sconsiglia il sorriso che i suoi membri condividono davanti all’obbiettivo (è l’immagine che rappresenta il film nel manifesto). La madre insiste: dobbiamo sorridere. Ci stanno sottraendo una parte di noi, ma non possono cancellare la bellezza del ricordo che abbiamo di quest’uomo.
Le relazioni familiari, pur con qualche elemento di controversia, sono la forza di Eunice, che tornerà all’università per laurearsi e diventare una militante del movimento per i diritti civili dei popoli. La narrazione dei fatti ci viene donata dal figlio Marcello Paiva, scrittore, disabile dal 1979 per un incidente in auto. Sembra un gioco cattivo del destino che Eunice, che ha fatto della memoria un elemento di luminosa dignità civile, sia destinata all’oblio senza remissione per l’Alzheimer di cui soffrirà negli ultimi anni della sua vita…
Nel prefinale la interpreta la madre della straordinaria protagonista Fernanda Torres, a sua volta attrice (e candidata come la figlia al premio Oscar, lei nel 1998 per Central do Brasil, la Torres nel 2024), Fernanda Montenegro. Persa ormai nei meandri della malattia, Eunice ha un lampo di consapevolezza quando in tv scorrono le immagini della vicenda del marito e degli altri desaparecidos. Nella foto scattata nell’ennesimo ritrovo familiare, avrà un volto sorridente.
Io sono ancora qui è la prima opera del cinema brasiliano a ricevere un premio Oscar. È stato un grande successo presso il pubblico nazionale, nonostante un tentativo di boicottaggio da parte della destra politica. Agli esponenti di quest’ultima dedico un testo di Pier Paolo Pasolini, tratto da Le belle bandiere: “Non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi, alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze, di menzogne crollerà.”
Capito? Le vostre bugie non avranno scampo.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato venerdì 14 Marzo 2025
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