«Quelli erano altri tempi. Le persone preferivano credere alle opinioni e ai miti […]. Hitler lo descriveva così: il giovanotto ebreo dai neri capelli crespi spia per ore la ragazza tedesca ignara con espressione di gioia satanica». «Quelli so’ selvaggi, fino all’artra settimana combattevano coi leoni ner giardino de casa». «Dopo il 1933 in Germania si diceva che gli ebrei erano portatori di criminalità e l’antitesi dell’essere umano. Non tutti la pensavano così, ma la maggioranza lo dava come un dato di fatto inconfutabile». «Quelli sono una razza di viscidi e zozzoni. Sono parassiti e potenziali delinquenti. Non voglio che stiano sul territorio italiano»
Viaggia su due binari lo spettacolo Nazieuropa dell’attore e regista Beppe Casales: ieri e oggi. Si intrecciano parole, video, immagini che si trasformano in un pugno allo stomaco e con ironia lasciano spazio alla riflessione. «Viene fuori un tipetto molto incazzato. Ci copia pure il saluto con il braccio alzato. Si era inventato il nazionalsocialismo che poi per pigrizia è diventato nazismo. Era evidente a tutti che questo Adolfo era un tipo pericoloso, ma eravamo diventati così pigri che tutti dicevano “è solo un po’ scontroso”. “Odia i negri, gli ebrei, vuole pure lo spazio vitale”, “Ma cosa te ne frega? Sei ebreo? Non ti preoccupare. Dai, lascialo fare”».
Nazieuropa è teatro civile, che si occupa e si preoccupa delle questioni del mondo e degli uomini che lo abitano, portando sul palcoscenico frammenti di storia collettiva e interrogativi attuali, per raccontare e riflettere sulle responsabilità che ogni cittadino ha nei confronti dei cambiamenti del nostro tempo, come le migrazioni. E le reazioni rispetto a questo fenomeno, che spesso sono crimini di odio e aggressioni di matrice xenofoba, riportati di continuo dai mezzi di informazione. Le ultime notizie di questo genere hanno reso, ancora una volta, tristemente protagonista il mondo del calcio, definito lo specchio del Paese che lo celebra: cori razzisti da parte delle tifoserie italiane contro i giocatori stranieri Romelu Lukaku, Frank Kessie e Dalbert Henrique Chagas Estevão.
«Il razzismo si combatte con l’educazione, condannando, parlandone. In Italia la situazione non è migliorata e questo è grave», commenta il presidente della Fifa, Gianni Infantino, ad una trasmissione televisiva. Ma fatti di questo genere sono sempre più presenti nella vita quotidiana di tutti noi. Pensiamo all’umiliazione subita da un bambino nigeriano chiamato “scimmia” davanti a tutta la classe nel corso di quella che il maestro ha definito una “sperimentazione didattica”. Oppure a quanto accaduto a Lodi, dove i bambini figli di migranti sono stati estromessi dai servizi della scuola per decisione dell’amministrazione di centrodestra.
In Italia diverse agenzie monitorano questi crimini. L’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), che fa capo al ministero dell’Interno, segnala reati di odio del 2017 pari a 1.048, in aumento rispetto ai 736 del 2016. Sono gli ultimi dati disponibili. Esiste anche l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar), che dipende dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ma i loro dati non sono coordinati, per cui non esiste una banca dati statistica ufficiale come avviene in tutti gli Stati europei. Non ci sono però solo i numeri da guardare. Indagare sul clima socio-economico e politico che ha reso il razzismo un tema sensibile, aiuterebbe a comprendere senz’altro questi fatti.
«Che differenza c’è tra la Germania nazista e l’Europa dei nostri giorni?», scrive l’autore sul sito dello spettacolo.
«Quella che all’inizio era una provocazione in realtà diventa rassomiglianza, che, fatto salvo dell’epilogo, è imbarazzante», spiega Casales. «Nella Germania degli anni Trenta la società civile ha accettato senza grandi proteste le leggi razziali, che hanno portato a un incattivimento e un’ostilità cresciuti negli anni. Ed è, a mio avviso, quanto sta accadendo in Europa: una produzione culturale di contenuti sia giornalistici che politici sta creando un clima discriminatorio e le persone semplicemente li fanno propri, prese dai loro problemi quotidiani. L’Europa elogia continuamente la propria democrazia, la propria apertura, i diritti garantiti. In realtà, da diversi anni ci sono centinaia di migliaia di esempi che smentiscono questa Europa così meravigliosa. Certo, ci sono molte cose meravigliose, ma per un certo tipo di persone. I diritti o sono per tutti o sono privilegi. E la mia idea è che si stia costruendo un’Europa sempre più di privilegi che di diritti».
Uno spettacolo che parla di pulsioni populiste e di spietato darwinismo sociale che fenomeni come la globalizzazione e l’emarginazione rendono ancora più evidenti. Ma soprattutto parla a «persone che sono in un mondo di riferimenti culturali e sociali di centro-sinistra, che in realtà non la pensano come me su certe questioni, in particolare le migrazioni», continua l’autore-interprete. «Sono persone che hanno un generico sentimento di accoglienza però, di fatto, questo loro atteggiamento sconfina in posizioni securitarie. A questa categoria di spettatori mi capita spesso di parlare anche dopo lo spettacolo e mi riferiscono di avvenuti cortocircuiti. Per cui, persone che non hanno mai riflettuto molto profondamente su questo tipo di problematica, si ritrovano ad assistere ad un racconto che invece va nel profondo. Si crea così una frattura tra quello che loro pensavano e quello che si trovano a vivere, quantomeno emotivamente, rispetto al racconto che io faccio».
A proposito di razzismo, così scriveva Pietro Ingrao, storico dirigente del Pci: «Dopo che li abbiamo sradicati e costretti, pensiamo davvero di alzare il ponte levatoio delle nostre città e chiudere le porte? Oppure costruire nuovi ghetti, o recinzioni speciali? Per quanti di loro? E soprattutto per quanto tempo? Perciò la strada del razzismo, dei ghetti, e anche quella dei numeri chiusi non solo è immorale e assurda, ma alla fine è impraticabile» (L’Unità, 1989).
La rappresentazione è incentrata su una lettera che un padre scrive alla figlia, «la relazione più forte che si vive in assoluto. E ho cercato in questo canale e in questo rapporto, la radice di un possibile cambiamento, nel senso che se i genitori iniziassero a prendere una responsabilità anche rispetto a come interagiscono con le altre persone forse qualcosa potrebbe cambiare», chiosa Beppe Casales. «Perché noi nasciamo in un territorio a caso, ma il diritto alla felicità è di tutti. Per cui il fatto che una persona nata qui, in Italia, in Europa, ritenga che questa sia casa sua e che abbia una sorta di proprietà non solo sulla sua casa, ma su tutto il territorio nazionale, per me è folle. Gli uomini non hanno diritto di proprietà su niente. Sulla loro casa è legittimo. Ma su tutto il resto no».
Una considerazione che, alla luce dell’accordo di Malta sui migranti, ha il sapore del fiele perché proprio in questi giorni gli unici Stati membri che lo hanno sottoscritto al Consiglio sugli Affari interni europeo, sono stati Irlanda, Lussemburgo e Portogallo. Nessun’altro. L’accordo dello scorso 23 settembre, fortemente voluto da Italia e Malta – e firmato anche da Francia e Germania – prevede il ricollocamento automatico delle persone salvate in mare, superando il macchinoso trattato di Dublino che prevede l’inoltro della richiesta di asilo nel primo Paese di arrivo. Una soluzione che snellirebbe la burocrazia dei Paesi mediterranei e che intrappola decine di migliaia di persone dirette principalmente nel Nord Europa, attesi da reti di familiari e conoscenti. Ma per essere operativo è necessario che vi aderisca un numero sufficiente di Paesi per rendere sensata la redistribuzione. Inoltre, trattandosi di un patto che prevede la rotazione dei porti sicuri nel Mediterraneo dove le navi possano approdare, è difficile che Spagna e Grecia, ad esempio, lo sottoscrivano perché sono fuori da questa rotta.
Tra la platea, è spesso presente un insolito pubblico: la Digos, chiamata dagli organizzatori dell’evento per sorvegliare l’andamento della serata. «Temono che Forza Nuova o Casapound possa fare azioni dimostrative, come è già successo a Como e in altri luoghi», spiega Casales. «Sarei felice che questi esponenti vengano ad assistere ai miei spettacoli per discutere civilmente dei temi che ho affrontato. Invece loro arrivano in gruppo e il loro intervento non prevede dialogo, agendo dietro comunicati e disturbo dell’evento. Così non si va da nessuna parte. C’è bisogno di confronto per cambiare le cose».
Mariangela Di Marco
Pubblicato giovedì 31 Ottobre 2019
Stampato il 22/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/red-carpet/il-pugno-nello-stomaco/