Paterson, titolo del film di Jim Jarmusch, è un luogo, una città tranquilla del New Jersey con una cascata e il fiume Passaic. È anche il nome del protagonista, giovane conducente di autobus di linea (interpretato da Adam Driver), che scrive poesie mentre viaggia per le strade guardandosi intorno e osservando le persone ad una ad una. La sua giornata comincia al mattino presto. Saluta la moglie sciogliendosi da languidi abbracci e parte per il giro quotidiano, osservato con sguardo sornione dal cane Marvin. La giornata di lavoro si ripete sempre uguale, guidata dalle lancette dell’orologio da polso e sembra fissarsi nel tempo come una fotografia.
In realtà non ci troviamo di fronte alla descrizione pura e semplice della routine di Paterson ma al suo rispecchiarsi nell’interpretazione soggettiva e poetica. È un discorso di immagini di citazioni e di spunti sulla poesia e su un modo interiore di leggere la vita penetrandone significati sotto la superficie. Jarmusch, regista interessato ai contrari del mito pragmatico americano, trova nell’espressione artistica la testimonianza e insieme la via d’uscita dalle amarezze della società.
Ecco il protagonista leggere alla sua donna una poesia d’amore di Ron Padgett e dire “Io divento la sigaretta e tu il fiammifero”. Eccolo che guida, guarda, ha delle illuminazioni e annota.
Ognuno dei tipi che attraggono la sua attenzione ha una storia, dei sentimenti, ognuno sta vivendo e quindi è candidato ad essere personaggio. Tra le figure salienti, brilla la bambina (Sophie Muller) che con il suo quaderno di poesie, seduta su uno scalino, attende la madre. Paterson ascolta un suo componimento molto bello sull’acqua. È un credo nella natura, come un doppione della sua ispirazione. Uno dei tanti binomi del film è la doppia identità di molti scrittori come lui, lavoratore e artista, come William Carlos Williams medico e autore del poema intitolato alla città. Un nuovo abbinamento non casuale è con il poeta giapponese di passaggio (Nagase Masatoshi) che vedremo nel finale donare al nostro autista un taccuino intonso. Non ci sono solo armonie ma opposti, come dimostra Marvin, il bulldog inglese dispettoso, dalla maschera da totem, un testimone che scatena eventi. Sembra sonnolento e poi non visto dà un colpo alla cassetta postale e la sbilancia, tira il padrone dove vuole e alla fine gli lacera e distrugge le pagine di poesia. C’è Donny (Rizwan Maniji) il collega che ogni mattina si lamenta di qualcosa che non va, mentre Paterson dice che tutto è ok perché la sua visione della vita comprende luci e ombre.
Nel bar frequentato da Paterson ogni sera per una birra ci sono Doc, il padrone appassionato di scacchi, che gioca contro se stesso (Barry Shabaka Henley) e il noioso innamorato respinto Everett (William Jackson Harper), che tampina la sua ex.
Citazioni non casuali sono i gemelli, vecchi e giovani, maschi e femmine, che appaiono in momenti diversi e simboleggiano il legame fra la realtà e l’onirico. Laura, la moglie (Golshifteh Farahani, graziosa attrice persiana) sogna di avere due gemelli. Fantasiosa e instancabile fonte di progetti è anche il contraltare del metodico e paziente marito che affonda nella silenziosa eternità del tempo. Lei, ragazza gentile come l’amata di Petrarca, è dinamica, dipinge stoffe, inventa cibi appetitosi, suona la chitarra e sostiene la vena artistica di lui facendosi promettere la pubblicazione di quei versi “così belli”.
Lui, con gli inseparabili appunti, ci indica come leggere la realtà dando voce a ogni piccolo elemento, scrutando fra i sedili del mezzo ragazzi che discutono di anarchia, maschi velleitari che si vantano di improbabili conquiste o inquadrando fuori un mendicante su uno scalino e tanti passanti. Così procedendo svela delle continue equivalenze che sono l’essenza della poesia, metafore tra persone, tra sogno e vita, tra passato e presente, tra parola e natura. Ci fa comprendere che anche quel mondo provinciale che noi guardiamo distrattamente è così ricco di spunti, di multipli, capaci di suscitare sensazioni e pensieri.
Risuscita dai discorsi di due studenti seduti nell’autobus la figura dell’anarchico Gaetano Bresci che assassinò il re Umberto I, considerato tiranno e che ha vissuto nella cittadina. Prende corpo il messaggio che le idee non muoiono, che assumono nuove forme nel presente.
Dalle copertine dei libri di Paterson rivivono i poeti che hanno lasciato un segno anche nel suo rapporto con il mondo. William Carlos Williams, Alan Ginsberg, Frank O’Hara e perfino Dante. Questa chiave di lettura dei fatti e degli uomini è istruttiva ed emozionante per noi che dobbiamo subire gli esangui e riduttivi linguaggi correnti. L’atmosfera del film è come una boccata d’ossigeno. L’ambiente della cittadina sembra filtrato dall’immaginazione. Non aggressivo, sembra di altri tempi ci fa pensare agli anni 60. Lo stesso interno del bar con il jukebox, il sottofondo musicale di jazz e la presenza degli scacchi creano una dimensione solidale, di indulgenza, artisticamente eccitante che unisce anche personaggi emarginati. I tipacci di passaggio che, sul marciapiede, cercano di allarmare Paterson su un eventuale rapimento del cane fedele, sono un’eccezione, spezzano solo per un attimo la calma. Ma anche il raptus di Everett ubriaco che tira fuori una pistola e minaccia l’ex fidanzata, finisce nel nulla. È prontamente bloccato da Paterson e ci si avvede che i proiettili erano di plastica.
Il poeta sembra vivere in altra dimensione, non sembra toccato dagli eventi e dai contrattempi che lo colgono d’emblée. Affronta imperturbabile anche l’improvviso guasto elettrico del veicolo. Fa scendere i passeggeri, li raggruppa, allinea i bambini, si cura di tutti. Si entusiasma solo per la poetessa bambina in cui si specchia, s’immerge come ascoltatore nel silenzio del bel paesaggio, affascinato dallo scorrere della cascata, che sembra riflettere il suo stato d’animo. Benché triste, si adatta anche alla perdita del suo taccuino stritolato dai denti di Marvin.
Eppure quella vocazione speciale non può non sopravvivere. Anche se, conversando con il viaggiatore giapponese, egli ha negato di essere un poeta, l’altro l’ha capito e gli donerà quel bloc-notes con le pagine bianche simbolo di ripresa e di certezza nella scrittura.
È sempre il poeta che il regista Jarmusch torna a mostrarci all’indomani, al volante dell’autobus, un uomo conscio della sostanza e dei ritmi della vita, che ne riscatta la monotonia con la sua penna, passando leggero, fra “trilioni di molecole che si fanno da parte per lasciarlo passare e altrettanti trilioni che restano dove sono”.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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