Con questo film Mario Martone ci ripresenta Antonio Barracano, personaggio di spicco del teatro di Eduardo De Filippo, un capofamiglia malavitoso del rione Sanità con un passato violento, divenuto giustiziere. Da ragazzo pastore di capre sperimentò i soprusi padronali, l’ingiustizia e il desiderio di vendetta. Ora vuole combatterli con i propri mezzi, a modo suo. Soprattutto ha capito l’importanza di fare un passo indietro, di interrompere la catena incessante di faide e di sangue. Così si è messo a difendere gli sbandati e i deboli, a sedare i conflitti, forte della sua fama minacciosa. Il “ Sindaco” non vuole più morti e feriti nel suo quartiere degradato, caotico e tumultuoso, senza però ricorrere alle istituzioni, ambigue e inadeguate. «La legge è fatta bene – dice –, sono gli uomini che si mangiano fra di loro».
Per l’adattamento del testo teatrale sullo schermo Martone si ispira alla sua messa in scena del 2017 a Napoli, proiettandola nel caos delle periferie napoletane di oggi ancora ridondanti di crimini. Col film vuole cogliere la sensazione contemporanea di immobilismo generale, di incertezza sul futuro, auspicare l’assunzione di responsabilità. Nello stesso tempo induce a riflettere sulle ragioni antiche del contropotere, mafioso, antagonista, parallelo a un governo centrale sonnolento, spesso inquinato, sui motivi di sistemi che ancora non si riesce a debellare.
La commedia di Eduardo, con quel protagonista così magistralmente descritto e interpretato dallo stesso autore, esprimeva nel 1960 la crisi della giustizia della società italiana di quegli anni. La crisi malgrado i valorosi buoni intenzionati brucia ancora.
Francesco Di Leva nei panni del protagonista lo ringiovanisce rispetto al settantenne di Eduardo. È un quarantenne dal volto rude e dall’eloquio magnetico. Per centrarne il carattere, l’attore ha studiato l’arroganza libertaria di Mohammed Alì, la sua mimica ci restituisce una figura forte, rappresentativa dei bassi napoletani e ricca di allusioni morali valide in tutti i campi. La sua determinazione, in bilico tra istinto e razionalità, racchiude un ardore volitivo che coinvolge e non tradisce l’essenza della creazione di Eduardo.
Barricano è “uomo” di vita capace di tornare sui suoi passi e di cogliere le lezioni dei fatti, di cambiare. Temuto e rispettato per il suo curriculum diviene l’arbitro del quartiere Sanità per i piccoli delinquenti che egli ritiene perdenti e colpevoli soprattutto di ignoranza e miseria. Ma anche per i poveri qualunque. Così «Chi “tiene santi” va in Paradiso e chi non ne tiene va da Don Antonio, questa è la regola».
Ogni suo parere è una decisione accettata e operante. Dirime conflitti tra giovani e vecchi che sembrano inestricabili, ristabilisce valori, frena col sorriso sulle labbra odi, risentimenti, risarcisce torti subiti, protegge e cura i feriti dei regolamenti di conti evitando gli ospedali e la legge. Per questa attività ha reclutato un chirurgo di fiducia, che estrae proiettili e cura i malcapitati su un lettino improvvisato con tutti gli strumenti necessari.
Agli inizi del film questo dottor Della Ragione (Roberto De Francesco), stanco della sua carriera di curante di malavitosi, chiede a Barracano il permesso di “lasciare”. Vuole finirla con un mondo di violenza, partire per l’America, raggiungere un fratello. Ma don Antonio si oppone: ha bisogno di lui, lo ricatta. Solo nel drammatico finale gli consentirà di partire.
Il dottore è un altro personaggio chiave di Eduardo. In un certo senso è il continuatore del progetto visionario del sindaco di una realtà diversa, ma su un’altra linea, quella della legalità. Esautorato dall’attività clandestina e dai contatti col crimine vuole sanare le ingiustizie in altro modo. E lo dimostrerà alla fine dopo la morte di Don Antonio, cominciando con il firmare un referto finalmente regolare.
Nelle sequenze, la struttura teatrale, lo spazio chiuso dove irrompe l’azione, fatto di interni e stradine adiacenti, non inficia il flusso veridico dei sentimenti degli interpreti. Sui loro volti e gesti leggiamo concentrato il peso degli eventi.
Gli episodi sono pane quotidiano della cronaca di ieri e di oggi. La commedia diviene vissuto. Si parla di sparatorie, di usura, di famiglie disgregate. Due guappi – O ’Nait e O’ Palummiello – litigano. Sembra di averli davanti. L’uno spara all’altro, ma la vittima è in colpa perché ha fatto uno sgarro. «Quindi l’affare è chiuso», dice don Toto. Non prima però di un pestaggio punitivo dello sparatore.
La scena con l’usuraio Pasquale O’ Nasone è un capolavoro. Don Antonio lo costringe a estinguere la cambiale della vittima Vicienzo O’ Cuozzo accettando soldi immaginari e mimando la scena di un conteggio delle banconote inesistenti una per una.
Armida, giovane e bella moglie di don Antonio, è stata assalita e morsa dalla cagna di casa mentre si recava furtivamente in cortile a notte fonda. Vorrebbe abbattere l’animale. Ma il sindaco la inchioda al suo giudizio lapidario. «È venuta a casa tua? O sei stata tu a disturbarla? Non merita la fine, ha fatto il suo dovere».
Due fidanzati nelle ristrettezze, Rafiluccio e Rituccia, avrebbero bisogno di aiuto ma il padre di lui, Arturo Santaniello, ricco panettiere (il bravo Massimiliano Gallo) gli ha voltato le spalle e lui lo odia al punto di volerlo uccidere. Il padre, dice, lo disprezza. Dopo la morte della madre lo ha diseredato e ora foraggia un’amante con un patrimonio che spetterebbe in parte a lui. Barracano cerca invano di far ragionare il giovane. Perciò costringe il padre a un colloquio senza svelargli il progetto di Rafiluccio. Ascolta, consiglia il prepotente, ma questi, pur accettando l’autorità di Barracano, si oppone alla sua sentenza mediatrice. Non vuole saperne di quel figlio fannullone e insulta Rituccia, la fidanzata che aspetta un bambino. Dei soldi suoi vuol fare quel che gli pare.
La scelta successiva di Barracano di recarsi da solo nella bottega del fornaio è un appuntamento col destino, con la morte. Indignato dalla insensibilità di quel padre, vuole svelargli le intenzioni pericolose di Rafiluccio, risolvere la contesa, riunire la famiglia. Santaniello però crede che sia venuto a ucciderlo e lo accoltella all’addome. Barracano, mortalmente ferito, rifiuta le cure ospedaliere che porterebbero a galla il fattaccio. Ha ormai le ore contate, ma non denuncia l’omicida. I suoi uomini glielo portano a casa. Lui gli rivela la verità sul progetto del figlio e gli impone di firmare un assegno. Ha già versato quella somma al giovane che, ignaro degli ultimi eventi, si è ricreduto, convinto dalle parole del capo. I soldi sono destinati al nascituro e c’è anche un lavoro per Rafiluccio. Don Arturo impietrito è domato.
La cena finale con i personaggi dei beneficiati voluta da Don Antonio si svolge senza di lui, che si riposa in un’altra stanza e muore in solitudine. Ha esaurito il suo compito. Ha dato via libera al dottore. Il quale però, malgrado le ultime volontà del capo, firmerà per il decesso un referto veritiero. Il suo gesto è simbolico, il rientro nella legge mirando a un mondo «un po’ meno rotondo e più quadrato».
Il film di Martone, ricco di cervello e di emotività, non tradisce la sua fonte di alta qualità immettendola nel clima dei giorni nostri. Fotogramma per fotogramma, battuta dopo battuta, con l’ausilio autentico del dialetto napoletano (e relativa traduzione) e di ottimi attori, ci attira in una vera e propria incursione sulla nostra società. Il ruolo dei ritmi musicali rap di Ralph P, inventati durante la tournée, è narrativo. La trilogia dedicata a De Filippo avrà un seguito promettente nella riscoperta del padre, il grande attore Eduardo Scarpetta.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato giovedì 31 Ottobre 2019
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