“Sono un cittadino niente di più niente di meno”. Nel film di Ken Loach, le ultime parole scritte da Daniel sul foglio che non ha potuto leggere davanti alla commissione del lavoro, sono emozionanti. Il suo cuore non ha retto. È morto qualche minuto prima di accedere al colloquio per il suo diritto all’indennità per malattia.
Giunto finalmente sugli schermi e molto atteso Io Daniel Blake, Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, racchiude in modo semplice e diretto la situazione attuale del lavoro di fronte all’arroganza del neoliberismo digitalizzato. Mi è parso eloquente l’applauso spontaneo del pubblico, del cinema Greenwich, qualche giorno fa, alla fine della proiezione pomeridiana.
La scabra storia, infatti, fa indignare con l’autenticità del messaggio. Ognuno sente che, pur svolgendosi in Gran Bretagna, a New Castle, la situazione ci riguarda da vicino, fa parte delle esperienze comuni. Ognuno è portato a identificarsi nello sfortunato e tenace protagonista di una lotta impari per i propri diritti. La società, grazie al supporto della nuova economia informatica, è inquinata dai soprusi dei padroni. Non solo la maggioranza dei lavoratori deve affrontare le ristrettezze salariali, ma non ha neppure il dovuto riconoscimento assicurativo e deve dimostrare la propria inabilità con insidiosi percorsi sul computer e perditempo telefonici. Ne conseguono l’esaurimento delle forze o la caduta nel precariato, risorsa appetibile per le grandi aziende.
Lo sceneggiatore Paul Laverty, ci svela con precisione il sistema applicato dai politici inglesi destrorsi, per facilitare i tagli del welfare. Basta complicare la trafila delle richieste e della documentazione per sfiancare i deboli.
Entriamo così decisamente nello sfondo e nei particolari, nei panni di Daniel (un ottimo Dave Johns). Diventiamo lui, quando attende per ore negli uffici, prima di prendere posto davanti ad una “professionista sanitaria” che, recitando la sua filastrocca stentorea, boccia la verità del suo infarto e del suo diritto all’indennità. Ci vuole ben altro per avere il sussidio di disoccupazione, dice lei secca, mancano tre punti e la sua domanda è stata respinta. Se vuol fare ricorso dovrà aspettare una conferma telefonica. Le chiamate per informazioni ai call center al suono delle “Quattro stagioni di Vivaldi” (le conosciamo bene anche noi) consumano le ore. Come alternativa il richiedente deve cercare un lavoro e documentare che lo ha cercato seguendo un certo iter. Dovrà comporre un curriculum secondo il modello richiesto, e se non lo sa fare, deve sottoporsi al bla bla bla di un job center.
Siamo ancora lui di fronte al dirigente arrogante, che sembra un poliziotto e lo umilia, siamo sempre lui di fronte a tutti quegli addetti ai lavori indifferenti, che agiscono come automi. Non c’è alcun segnale socievole, umano. La solidarietà, se spunta, viene solo dal basso. Per fare la maledetta domanda on line ecco infatti il nostro lavoratore costretto a chiedere aiuto ai giovani “vicini casuali” di computer, compagni di sventura, che strappano qualche minuto al tempo contato per mostrargli l’uso del mouse. Il similtopo di plastica che fa sfuggire la sua freccetta volatile sul display è per Daniel un estraneo rompicapo. Sembra facile per le generazioni di oggi, ma per gli anziani non è così.
Egli però non si arrende, fa l’impossibile per andare avanti e per ottenere giustizia. La sua faccia onesta ci conquista. Anche quando, esasperato dai dinieghi, scrive sui muri con uno spray la sua protesta, accolto dal consenso di una piccola folla. Nel frattempo deve anche sbarcare il lunario. È un valente falegname, si offre, fa invano chilometri, per trovare magari un lavoro in nero. Quando lo chiamano è troppo tardi, non può accettare per non entrare in conflitto con il ricorso avviato.
Vedovo, uomo solo, egli è tenace e altruista. Fa amicizia con Ketty (Hayley Squires) una ragazza madre con due figli, sfrattata dalla sua casa di Londra, in cerca di occupazione. Le manifesta la sua solidarietà, quando viene maltrattata in uno dei soliti uffici e poi l’aiuta a sistemare lo squallido appartamento semivuoto e privo di elettricità per bollette scadute. Cerca di proteggerla da scelte umilianti. Diviene come un nonno per i due bambini, raccontando loro storie, costruendo piccoli oggetti. I quattro vanno insieme alla mensa solidale.
In un mondo che appare nemico della persona umana, che lo riduce a “cosa”, l’altra faccia è quella sottoproletaria vessata dal sistema e sfruttata, ma ancora non priva di sentimenti. Vi appartiene il ragazzo africano vicino di casa che s’interessa a Daniel. Troppo sfruttato, ha ripiegato nell’illegalità contrabbandando scarpe da ginnastica in voga prodotte in Cina. È un ulteriore esempio delle conseguenze della crisi e della politica reazionaria dei governi britannici.
I personaggi del film sono emblematici, colti dal vivo. Perfino l’impiegata del collocamento, ultima ruota del carro, che, impietosita, svela a Blake i cavilli fatti apposta per esautorare i malcapitati. Ma anch’essa è impotente a risolvere la rete di tranelli procedurali.
Questa vicenda del cinquantanovenne che non ha rubato, non si è ubriacato, non ha avuto a che fare con la legge, ma è schiacciato dalle angherie tecnocratiche ci evoca Il Castello di Franz Kafka. Il protagonista assomiglia proprio all’agrimensore del romanzo, che si è dibattuto invano in infiniti e assurdi trabocchetti, prima di ottenere vittoria. Anch’egli esala l’ultimo respiro poco prima di aver ottenuto (in questo caso grazie a un avvocato) il riconoscimento delle sue ragioni. Ma i suoi appunti, letti per gratitudine dall’amica Ketty durante il rito funebre, non si perdono nella metafora del destino. Hanno la forza di una requisitoria in un processo reale. Con quelle frasi lucide che vanno dritte al cuore come lame, Ken Loach regista di collaudata fedeltà alla causa operaia, sintetizza il reato della democrazia globale di classe, sul piano sociale e umano, nei confronti dei sempre nuovi poveri.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 18 Novembre 2016
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