Voleva essere sempre in cammino. Così concepiva la vita e la trascendenza Ermanno Olmi, regista dalla ricca umanità da poco scomparso, che ha impresso sullo schermo il ruolo essenziale del rapporto umano nella Storia, nella natura, nell’amicizia. Optando per l’amore prima della razionalità e della stessa fede, ha messo in risalto filmico quei valori primordiali che si possono trovare nell’umile povertà e che la ricchezza distrugge con le sue mete esteriori ed effimere. Avere valori è il contrario dell’aridità oggi così diffusa nei comportamenti. Nel suo cinema “evangelico” Olmi prende le mosse dall’uomo. Il posto (1961), La leggenda del santo bevitore (1988) Centochiodi (2007) e i numerosi documentari focalizzano l’uomo, il nostro simile. Nella storia, nella società.
Tra i molti film ci piace ricordare L’albero degli zoccoli (1978) e Torneranno i prati (2014). In entrambi i protagonisti sono gli umili.
Nel primo spicca senza aggiunte la miseria dei mezzadri del Bergamasco alla fine dell’Ottocento, in un percorso lineare e scarno dove le immagini parlano più delle parole. Le quattro famiglie contadine in primo piano vivono di fatica, di stenti, di sofferenze. La vita dura di campagna appare veritiera anche nel colore delle immagini, con le sue tappe di lavoro, il rapporto con gli animali, qualche rara festa, la speranza nella religione, nella magia. Non manca il contesto delle repressioni contro i lavoratori durante i moti popolari di Milano per il pane, nel 1898, le sequenze delle cariche sanguinose dirette da Bava Beccaris, generale reazionario, e l’incubo della disdetta del giorno di San Martino, spada di Damocle dei padroni sui contadini, soggetti ai licenziamenti arbitrari. Questa sarà la sorte di Batista e della sua famiglia. Ha abbattuto il tronco di un albero padronale per farne uno zoccolo per il figlio che deve andare a scuola. Vuole per lui un’altra vita. Dopo lo sfratto, vediamo caricare sul carro le povere cose e l’inizio di un incerto vagabondaggio alla ricerca di sistemazione. Quel carro è il simbolo di una condizione umana.
Nel secondo film appare la tragedia della Grande Guerra inquadrata dal basso. Mentre si svolge l’inutile massacro risaltano voci e momenti toccanti di dignità, nostalgia, rivolta. Nelle trincee, di fronte alla morte, affiorano i sentimenti di ognuno, a differenza della sordità informatica tipica dei guerrieri di oggi, impegnati nelle stragi come in un videogioco. Al regista è rimasto nel cuore il ricordo di quando, bambino, ascoltava i racconti commossi del padre soldato. Con questa intensità egli ci apre le porte di quelle ore disperate, fatte di assalti perdenti e inutili morti. Troppi giovani e adulti sacrificati senza un perché. La narrazione visiva, emotiva e puntuale, smuove la coscienza dello spettatore, ne richiama la responsabilità. È giusta la ribellione di uomini mandati al macello secondo piani insensati, fatti a tavolino da generali vanitosi. Il capitano sceglie la degradazione piuttosto di portare allo sbaraglio i suoi uomini, un militare si toglie la vita con una fucilata davanti ai compagni, prima che il suo cadavere rimanga esposto all’aperto, solitario e ghiacciato. È motivata la disobbedienza, che però sarà punita con la decimazione e la fucilazione. Il film è storia vissuta, storia vera della “carne da cannone”. Nelle immagini finali di repertorio, muto contrappunto splendido e conclusivo, passeremo dai combattimenti alle sfilate trionfali con il commento musicale pregnante di Paolo Fresu. Ma c’è posto anche per la speranza, fiduciosa nel futuro, nel cambiamento: la promessa onirica è racchiusa nel paesaggio, pronto a rigenerarsi, secondo i ritmi naturali.
Sulla dialettica delle guerre ricordiamo anche Il mestiere delle armi (2001) film storico, formalmente ricercato, ambientato nel 500 dove è protagonista l’audace Giovanni dalle Bande nere. Vi ritroviamo il tema del combattimento sul campo, contrapposto all’anonimato delle dinamiche militari moderne dove il combattente è superato dalla macchina. La vicenda del condottiero di ventura rivela, malgrado i successi iniziali, l’amarezza della sconfitta. Ci mostra come l’eroismo e il coraggio, tipici delle antiche contese tra uomo e uomo, siano vanificati dalla politica e puntualmente traditi dagli intrighi delle ragioni di stato. Giovanni, infatti, muore disperato, ferito senza scampo dai nuovi cannoni dei lanzichenecchi, procurati agli invasori dal duca di Ferrara.
L’attualità irrompe, invece, nel Villaggio di cartone (2011) con l’esigenza di solidarietà e rinascita spirituale. Nel film aleggia con forza la richiesta di un profondo mutamento della Chiesa e della Storia che facciano tesoro dei messaggi cristiani dimenticati. Una chiesa in disarmo, occupata dai senza tetto diviene per Olmi la raffigurazione del riscatto ecclesiale dalla formalità, un ritorno all’umiltà e al soccorso dei deboli. Nel tempio spogliato dai suoi arredi, si installa un folto gruppo di clandestini che crea una piccola comunità. Tra cartoni, lingue diverse e contraddizioni, l’ansia di essere ascoltati e protetti, questi personaggi indifesi fanno riscoprire al parroco in crisi il senso della sua missione. Libero dalle esteriorità e vanità della Chiesa ufficiale il religioso, diviene più capace di riconoscere la grandezza del Bene, dell’altruismo che sovrasta la Fede. Come si vede, il credente Olmi non ama le angustie di una Chiesa temporale, pomposa e dogmatica, lontana dai poveri. Sono cristiano più che cattolico – dice. Conscio del mistero e dal divenire intorno a noi è attratto dai perché. Ha una costante curiosità di fronte alla grandezza dei fenomeni del cosmo e alle ingiustizie della società. È interessato alle domande più che a dare risposte e per questo fa tesoro non solo della grande cultura, ma della saggezza di vita dei semplici. Sarà ricordato per aver dato forma cinematografica originale al bisogno di etica del mondo contemporaneo.
Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato giovedì 21 Giugno 2018
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