I film di guerra hanno un retroterra storico di ampio raggio, non solo per numero e non di rado qualità delle opere realizzate, ma soprattutto per la varietà dell’approccio e il potere immaginifico – e quindi persuasivo – che consegue alla messa in scena dell’evento umano più annotato, descritto e purtroppo spesso narrato e (purtroppo) celebrato nella sua nefandezza, a cui si può pensare di assistere.
C’è sicuramente una terribile estetica della guerra, di segno positivo e negativo: ci sono cinematografie che la esaltano, mettendo in luce gli aspetti umani che dovrebbero mostrare la nobiltà, il coraggio, l’eroismo, la virilità di chi la combatte. Ce ne sono altre che mostrano gli aspetti più truci, violenti, corrotti e dolorosi di ogni conflitto, che comporta comunque vite spezzate, rapporti interrotti o lacerati, il lutto di chi resta a gestire la scia di odio che permane, talora per generazioni e generazioni.
Dobbiamo annotare che non tutta la filmografia bellicista è stata realizzata con l’intento di beatificare la guerra, che certamente non è una “nobile arte”: sto pensando alla cinematografia statunitense degli anni 40, quando c’era da motivare un Paese a una guerra che all’inizio non lo riguardava direttamente, visto che non era teatro del conflitto. Se gli Stati Uniti non si fossero decisi a intervenire contro il nazismo, l’esito della guerra sarebbe stato nefasto: ciò avvenne anche per la spinta emotiva che il cinema realizzò con molti film, mostrando la necessità di schierarsi.
Ma è una notazione marginale, pensando a un genere filmico che rischia davvero di essere una continua esaltazione dell’uso delle armi e degli strumenti di morte, della fascinazione di un sistema che producendo tecnologia armata realizza la prospettiva dei conflitti che saranno, mentre intanto instaura i presupposti dello sterminio per fame e sottosviluppo, dato che già in ideazione e fabbricazione sottrae ai poveri della Terra risorse essenziali.
Pensate a un film apparentemente innocente come Top Gun, vero manifesto reaganiano (il film è del 1986: sono gli anni della glorificazione dell’intervento USA nel mondo per fronteggiare l’impero del male con il programma delle cosiddette “guerre stellari”, un insieme di armamenti ad alto livello tecnologico che doveva tutelare il mondo libero dal pericolo comunista: nel frattempo la CIA continuava a stroncare democrazie a giro per il mondo), ma che è capace di veicolare un preciso modello culturale in cui proiettarsi, oserei dire antropologico: un guerriero tecnologico, che può uccidere senza guardare il sangue che scorre, dietro ai comandi del proprio jet.
In una società come quella statunitense occorre riflettere quanto giochi la creazione di questo immaginario collettivo in un contesto in cui le stragi di civili per armi da fuoco – là possedute personalmente senza restrizioni di sorta – sono una sorta di pestilenza, non certo eventi occasionali. Sotto altri aspetti, chi ha realizzato film di guerra in chiave antimilitarista ci ricorda che l’opposizione alla guerra nasce a livello culturale ed è l’aspetto tra i più rilevanti in prospettiva educativa: la dimensione basilare dell’empatia verso le sofferenze altrui può essere comunicata, ha valenza pedagogica. Il mio iter di operatore di pace, che ha seguito da vicino, come formatore, l’esperienza dell’obiezione di coscienza e ha fatto parte di diversi movimenti per il disarmo e il dialogo tra i popoli, è sicuramente originato anche da quanto ho letto, visto, condiviso attraverso arte e letteratura.
L’introduzione è lunga, ma necessaria. Roberto Minervini (marchigiano di Fermo, classe 1970) è il classico esempio di una cinematografia italiana che trova modalità espressive in altri contesti. Minervini ha studiato cinema a Madrid e a New York, per un periodo lo ha insegnato nelle Filippine, e ora vive tra Italia e Stati Uniti, i suoi documentari (più volte segnalati dalla critica e dai premi nei festival) li ha realizzati giustappunto negli USA e sono ottimi lavori, incentrati sulla povertà, il disagio culturale, le dinamiche del razzismo che si possono osservare e vivere in questo grande Paese, di cui però non si può nascondere la crisi radicale.
Con I dannati gira il suo primo film di fiction, che presentato al Festival di Cannes in questo 2024 ha vinto il premio ex equo per la miglior regia nella sezione Un Certain Regard: ma se sono accorti in pochi, qui da noi. Eppure è l’unico film italiano che è stato premiato. Eppure è un film bellissimo, girato con un rigore stilistico e una forza nello sguardo cinematografico di grande valore. Interpretato da un cast di non professionisti, racconta la guerra di Secessione da un angolo di visuale particolare.
Inverno 1862, regione delle Montagne Rocciose. Per esplorare zone ancora non conosciute, viene inviata una compagnia di cavalleggeri per presidiare e definire i possibili confini di quello che diventerà lo Stato del Montana. Di fronte a un nemico non ben definito (vedremo solo delle ombre, e sparatorie senza bersagli visibili), in mezzo a condizioni di vita e clima durissime, senza riferimenti o obbiettivi certi, nel gruppo dei soldati si delineano sensibilità, ideali, povertà e paure: tutto sarà cancellato come da un potere di annullamento, il grande niente dei conflitti, lo smarrimento di ogni possibile significato.
L’esplorazione\conquista di un valico diviene l’esemplificazione di quanto labili divengono i motivi per cui si sacrificano delle vite. Nelle scarne descrizioni (e psicologie connesse) dei soldati, dannati in una terra di mezzo, Minervini prosegue, facendo tesoro del suo grande lavoro di documentarista, la sua analisi degli Stati Uniti di oggi, pre e post trumpiani, in cui il mix di violenza istituzionalizzata, ideali patriottici, razzismo, suprematismo e sovranismo, creano i presupposti per conflitti che paiono sempre meno conciliabili, prodromi di quelli che si esporteranno altrove, come nello stile stelle e strisce.
Minervini ha realizzato questo film soggiornando a lungo nel Montana, dialogando con la popolazione locale, girando in linea cronologica e senza una sceneggiatura determinata. Non a caso, come in altri suoi lavori precedenti, la montatrice del film è Marie-Héléne Dozo, che ha montato molte opere dei fratelli Dardenne: una sorte di garanzia professionale, ma anche la suggestione che questi due grandi cineasti, maestri del cinema sociale, possano aver trovato un degno successore nel regista italiano.
Come già in uno dei film più belli del genere, La sottile linea rossa di Terrence Malik (USA, 1998), ne I dannati il contrasto tra la ferocia bellica e l’insignificanza e la malvagità delle motivazioni umane di fronte alla maestà dei passaggi naturali (ricordiamoci che la conquista del West fu una catastrofe ecologica, nonché il genocidio dei Nativi del Nord America) ci mette nel cuore un senso determinato e persistente di tristezza. Il genere umano sembra aver smarrito la strada verso il futuro e l’assenza di quel con\sentire che possiamo definire empatia ci condanna al labirinto.
In Siria, Yemen, Kurdistan, Ucraina e Gaza stiamo smarrendo proporzione, senso e valore di ciò che è realmente umano. Non si scorge all’orizzonte quel senso di rivolta etica assolutamente indispensabile a mutare questo tempo. Non posso fare a meno di citare ancora Albert Camus, nel suo L’uomo in rivolta: “Mi rivolto, quindi siamo”. Prima di pensare che la cultura di pace sia ormai retaggio di un isolato pugno di persone, proviamo a chiederci quanto senso di rivolta esprimiamo contro questa massiva disumanità. Se ritroviamo la dignità dell’opposizione, potremmo tornare a diventare quel noi massa critica capace di ribaltare i significati della storia. Quando il cinema è materia di consapevolezza, è arte di pace.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato sabato 1 Giugno 2024
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