Fin da La sfida del 1958, la filmografia di Rosi ha arricchito il filone civile, risalendo sempre dal caso singolo al costume e dallo sfondo sociale alla politica.
La storia di Vito, infatti, piccolo contrabbandiere di sigarette, ci introduce nel mondo della camorra e dei legami tra capitalismo e criminalità organizzata. Il protagonista, passato al commercio ortofrutticolo, non comprende la logica mafiosa e compie per due volte uno sgarro contro il potere del boss che lo punirà uccidendolo.
I magliari (1959), mette a fuoco il mondo di piccoli trafficanti in cerca di lavoro fuori dei confini d’Italia. Un gruppo di loro cerca fortuna in Germania col contrabbando di stoffe ma dovrà fare i conti con una banda di concorrenti polacchi. Nel film pieno di notazioni ambientali spicca l’humour di Alberto Sordi, tra riso e tristezza. Nei panni di un operaio napoletano tracotante e imbroglione poi, dopo la sconfitta, ci mostra nel lungo soliloquio in auto, l’immagine amara di un perdente.
Salvatore Giuliano (1962), è tra i suoi film più significativi, una novità per gli Anni 60 che evidenzia nella cronaca la battaglia sociale. Il suo inedito dinamismo stilistico passa dai fatti e dalla vicenda personale del protagonista ai rapporti tra mafia, banditismo e potere che tanto peso hanno avuto nella storia del Sud. Gli elementi noti scorrono chiari, sembrando forniti da un’indagine dalla commissione antimafia o da un puntuale servizio giornalistico. Dati i tempi politici repressivi, il film considerato scottante, fu censurato e vietato ai minori di 16 anni. Ma certe sequenze come quella della strage dei braccianti di Portella della Ginestra (del 1 maggio 1947) si stampano per sempre nella mente con scabra potenza.
Le mani sulla città (1963), Leone d’Oro alla 24ª mostra di Venezia, ci mostra la stessa coerenza di verità narrativa. La trama smaschera la speculazione edilizia ai danni di Napoli, la corruzione delle istituzioni statali e del mondo economico colluse coi malavitosi. È uno specchio della cinica distruzione ambientale della città e di un futuro cancro duraturo nella realtà del nostro Paese.
Uomini contro, ispirato al libro pregnante di Emilio Lussu (“Un anno sull’altopiano”), ci proietta, nel cuore della vita dei soldati, nella guerra in trincea durante il conflitto del 1915-18. È una requisitoria contro la guerra e le sue logiche nefaste, una fremente protesta filmica contro il massacro di uomini sacrificati da generali ambiziosi e incapaci. Emblematica di ogni strage futura, ristabilisce il vero su un tema tabù sempre scomodo, falsato da immagini patriottiche dolciastre, propinate all’opinione pubblica.
Con Il caso Mattei del 1972 Rosi si cimenta ancora con un argomento scomodo, in anni in cui predomina l’insabbiamento di stato sui crimini politici. Al centro la vicenda e la morte del presidente dell’Eni vittima di un attentato. Siamo di fronte a uno dei tanti misteri non chiariti e occultati della storia italiana. L’esplosione dell’aereo in volo, le ipotesi vaghe e i depistaggi che saranno trascinati per anni fino ai giorni nostri, documentano un clima politico che ha inquinato e continua a inquinare la democrazia. L’inchiesta del film incalzante invita alle indagini intorno all’ ipotesi che traspare, dell’interesse di più parti a eliminare l’audace innovatore della politica economica nazionale sul gas. Allora in cerca di prove. Oggi in parte ancora misteriosa come tutti i crimini di Stato. Interprete geniale di Mattei è Gian Maria Volonté, un maestro nei ruoli più diversi.
Cadaveri eccellenti (1976) riflette la situazione italiana degli Anni 70, il potere delle forze occulte e il loro legame con lo Stato italiano, le tentazioni golpistiche, le rivolte giovanili, l’immobilismo del Pci. La trama ci porta in un luogo del sud immaginario ma emblematico, dove avvengono alcuni omicidi di magistrati. Ispirato al romanzo di Sciascia “Il contesto”, focalizza i meccanismi tenebrosi della “strategia della tensione” degli intrighi di Stato e del relativismo dei partiti ormai schiavi della convenienza politica. Non omette la debolezza, se non omertà di fatto, dell’opposizione di fronte alla dilagante corruzione. Le sequenze riproducono a perfezione il clima fosco in cui si muovono i personaggi. Seguiamo l’ispettore di polizia Amerigo Rogas, impegnato in indagini ingarbugliate negli ambienti mafiosi e tra ex detenuti, il capo della polizia gli impone di inquisire i “gruppuscoli” di estrema sinistra, ma lui scopre le prove d’un disegno eversivo che coinvolge le stesse alte sfere dello Stato. Dà fastidio e finirà eliminato, in un museo, insieme al segretario del partito comunista, da lui allertato. La versione della polizia falserà il profilo del giallo e dei moventi. Per tattica politica i compagni del segretario, si asterranno dal ristabilire la verità.
Cristo si è fermato a Eboli (1979) tratto dal romanzo di Carlo Levi porta sullo schermo la vicenda del pittore, scrittore e medico confinato nel 1935 per antifascismo nel paese di Aliano, in Lucania. Assistiamo ai contatti del protagonista con un mondo primitivo in preda alle superstizioni dove rimbombano i discorsi di Mussolini. L’arruolamento nelle guerre del regime sembra l’unica via di salvezza dalla povertà, per i giovani che partono volontari per l’Abissinia, col miraggio di un palmo di terra. Risaltano personaggi paesani caratteristici come l’arciprete, erudito e beone, la donna di servizio, il podestà, sostenitore del duce, il carabiniere che si arricchisce ai danni dei lavoratori. È chiara la comprensione di Levi verso i contadini e il sostegno offerto loro con la propria opera di medico. Dopo il suo ritorno a casa per l’amnistia il ricordo di questi semplici amici della terra pervade teneramente il finale.
La tregua (1997), ispirato all’omonimo romanzo di Primo Levi, il film riporta ai nostri occhi l’esperienza straziante dei lager. Il protagonista, ben interpretato da John Tuturro, partigiano ed ebreo, deportato dai nazisti ad Auschwitz, sopravvive al “nulla pieno di morte” e narra in prima persona le vicissitudini dei deportati italiani liberati dai sovietici, in un viaggio senza fine verso l’ Italia. Scorre nel film questo calvario attraverso l’Europa centrale, il percorso di chilometri a piedi o su treni di fortuna tra pericoli, difficoltà e imprevisti. Il regista concentra le riprese dignitose e partecipi su questo vagabondare di uomini, laceri, ammalati, rosi dalla nostalgia della famiglia. Tra di essi, francesi, polacchi e anche italiani, spicca il personaggio di Mordo Nahum un ebreo greco, astuto e disincantato che suggerisce a Levi soluzioni elementari per sopravvivere giacché “Guerra è sempre”.
Tra le molte sequenze significative resta impressa quella del campo di lavoro sovietico in cui finiscono i reduci. “Rabotaitie!”, lavorate! dicono i russi – abbiamo vinto la guerra per voi! – e li incitano alla fatica. Si capisce, hanno perso tutto, uomini, case. Ma gli altri? Non sono vittime? La scena alla stazione di Monaco è particolarmente illuminante. Levi vi giunge dopo immani sofferenze in pigiama da deportato e un soldato tedesco intento ai lavori obbligatori sui binari si inchina di fronte a lui, come per chiedere perdono. Anche con pochi fotogrammi un regista come Rosi riesce a suscitare l’attenzione verso la complessità della Storia e i meandri dell’animo umano.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato domenica 9 Aprile 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/red-carpet/francesco-rosi-la-storia-con-una-cinepresa/