La questione del rapporto tra biografia dell’artista e creazione dell’opera è annosa e molto discussa. Il lavoro critico si basa anche su questo presupposto, che talvolta diviene fondamentale: la conoscenza della vita di chi fa arte ci consente di esplorare le connessioni tra esistenza reale e rappresentazione artistica, per una migliore interpretazione di qualsiasi tipo di testo. Da vite complesse e dolorose nascono capolavori: spesso la fantasia impera, fino a rendere impossibile leggere qualsiasi tipo di rapporto troppo stretto tra quanto si idea e quel che si è vissuto. Del resto, è quanto capita vivendo… e Albert Camus affermava (forse non a torto): “Chi è felice, non scrive romanzi”.
Pablo Larrain può essere considerato come uno dei registi più interessanti e dotati della sua generazione. Cileno, classe 1976, viene da una famiglia borghese di area conservatrice: sua madre, Magdalena Matte, è stata ministra del governo di centrodestra di Sebastiàn Pinera, (peraltro si dimise in seguito alle contestazioni di cui fu oggetto per pratiche di gestione non del tutto ortodosse), suo padre, Hernàn Larrain, è stato presidente dell’Unione Democratica Indipendente, un partito nazional conservatore e neoliberista, di area cattolico tradizionalista. Una famiglia sicuramente devota a Pinochet.
Bene, alcuni tra i film più efficaci nel raccontare gli orrori del golpe in Cile del 1973 sono suoi: Tony Manero, Post Morten e No – I giorni dell’arcobaleno (2008, 2010, 2012), sono opere di grande valore, che mostrano con chiarezza come si connotava la borghesia cilena (e il sottobosco dei conniventi) che sostenne il generale Pinochet nella sua orrenda impresa. Larrain ha poi approfondito la tematica con un bel film su Pablo Neruda (2016) e sul ruolo della chiesa cilena, in un’opera durissima, Il club, del 2015. In quest’ultima si tratta dei rapporti tra militari e gerarchia e clero cattolici, denunciando svariate intese criminali, connivenze e omissioni di denunce nei confronti del regime. A riguardo si può però annotare che la Vicaria de la solidariedad, istituita dal vescovo di Santiago Raul Silva Enrìquez (figura limpida sul piano della difesa dei diritti umani) nel 1976, ebbe un ruolo importante nel salvare molte vite: già nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre 1973 parte di clero e religiose e religiosi furono molto coraggiosi nel nascondere i ricercati (ne parla Nanni Moretti nel suo imperdibile Santiago, Italia, del 2018).
Dopo essersi dedicato a figure storiche rilevanti come Jacqueline Kennedy e Diana Spencer (in Jackie e Spencer, 2016 e 2021), Larrain torna sulla figura di Augusto Pinochet. Ma lo fa in una chiave molto diversa da quelle adoperate in precedenza. In El Conde, una produzione Netflix del 2023, il conte del titolo è un mai morto Pinochet: è infatti un vampiro e, sia pur confinato in un oscuro e desolato villaggio della costa, continua le sue scorribande per nutrirsi di sangue e cuori (ne ha una riserva nel congelatore, ma il sapore non è lo stesso). Annuncia il proprio proposito di lasciarsi morire, perché stanco di una (non) vita che non gli riserva più molti entusiasmi. Arrivano prontamente i figli, più preoccupati per i propri interessi che per affetto filiale. Ma arriva anche Carmen, una giovane suora cattolica inviata dalla gerarchia ecclesiastica, che lo dovrebbe assistere – viste le sue competenze in ambito finanziario – sul piano economico e nella gestione del suo patrimonio (assai ingente: e questo corrisponde alla verità storica. Pinochet è stato davvero un vampiro, che ha sottratto al suo popolo grandi ricchezze). La religiosa, in realtà, è stata inviata a raccogliere un dossier sulle sue attività e per esorcizzarlo: il patrimonio di Pinochet fa gola anche alla chiesa. Come andrà a finire, come al solito non dico. Ma avverto gli eventuali spettatori e spettatrici che si attendano lieto fine (almeno per noi, che il tiranno cileno l’abbiamo fervidamente avversato): e immediatamente prima di esso aspettatevi una sorpresa su chi sia la madre del vampiro.
Un esercizio raffinato di stile, con il consueto apparato narrativo sui vampiri (canini affilati, paletti di frassino, specchi, etc): Larrain ha nelle sue corde anche una chiave horror, purtroppo molto legata alla cruda realtà della storia (si veda Post Morten). Qui la traduce nella dimensione politica dell’analisi di una classe sociale, non solo della famiglia del tiranno. I dittatori nascono da un determinato brodo di coltura: in questo caso furono le classi sociali privilegiate – con l’ausilio di una parte della chiesa cattolica, servendosi del potere militare e quello determinante, lo sappiamo bene, degli Usa – a produrre il mostro che stroncò nel sangue la democrazia cilena.
Nella filmografia di Larrain si può indicare, secondo le preferenze affettive di chi scrive, non disgiunte da una serie di ottime critiche, un titolo su tutti: No – I giorni dell’arcobaleno ripercorre la vicenda del referendum del 1988 che portò alla fine del regime militare e all’eclissi del boia Pinochet. Dopo anni di silenzio imposto con la repressione, il regime venne costretto dall’opinione pubblica internazionale, ad un referendum sulla opportunità della permanenza del generale al potere: l’opposizione cilena ha così l’occasione di gestire ogni giorno un programma televisivo di 15 minuti (il primo spazio libero consentito dal 1973), a sostegno della campagna per il No al referendum.
Uno spazio minimo nel mare magnum della tv di stato, ovviamente a favore del Sì e al mantenimento dello status quo delle destre al governo del Paese. Il film racconta come la scelta, da parte del cartello delle varie forze politiche all’opposizione, di affidare l’impostazione di questa trasmissione a René Saavedra (Eugenio Garcia nella realtà) e alla sua equipe di pubblicitari commerciali, portò all’ideazione di una serie di messaggi all’insegna dell’ottimismo verso un Cile diverso, libero dal regime. Lo slogan principale era Chile, l’alegrìa ya viene, (Cile, l’allegria che viene), il simbolo della campagna un arcobaleno (simbolo del popolo mapuche, ma pure espressione della composizione molto variegata del comitato per il No), i materiali video accattivanti perché colorati e con musiche spensierate: non mancarono i riferimenti alla drammatica memoria della repressione, delle vittime, dei desaparecidos, degli esuli. La storia ci ricorda che, contro ogni previsione della vigilia, finì 44,01% al Sì, 55,99% al No: elezioni libere, un governo democratico, Pinochet in pensione (in galera purtroppo no, ma ci provarono in seguito).
No – I giorni dell’arcobaleno si conclude con Saavedra che, dopo la vittoria, torna al lavoro nel suo studio di promozione pubblicitaria, riprendendo a collaborare con un socio che aveva curato la campagna per il Sì. Una pagina luminosa per la storia della democrazia globale: la perplessità del protagonista ci ricorda che in quella circostanza le finalità di strumenti talora ambigui furono nobili, ma si definisce con chiarezza un tempo in cui la politica transiterà sempre più per il sistema mediatico, le sue regole, le falsificazioni e le ambiguità, la possibilità costante di manipolazione. Il film presenta l’irrinunciabilità di uno strumento che è, semplicemente, storico. Questo è, e si può sperare nel controllo su di esso da parte della democrazia, ma dobbiamo avere coscienza che non si torna indietro dalla società della globalità tecnologica. Si può ribadire il ruolo fondamentale della cultura, del senso critico, della padronanza di sé che rende vano ogni velleità di controllo su di noi. Queste stesse realtà però vanno o non vanno immesse nel mainstream dell’agorà mediatico, correndo il rischio che perdano di significato? O se ne deve fare un tesoro riservato, da destinare ai pochi? Ci piaccia o no, le prossime competenze elettorali si giocheranno su questo scivoloso piano bascullante.
Del resto, quella volta andò bene. Fu il paletto di frassino piantato nel cuore del vampiro Augusto.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato martedì 9 Aprile 2024
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