L’interrogativo che ci lascia uno spettacolo bellissimo che si chiama Love’s Kamikaze, di quel Mario Moretti che ha impiegato tutta la sua esistenza a raccontare col teatro cose importanti, è il seguente: si può forse cambiare il mondo; ma gli uomini?”. La risposta è un NO netto, inesorabile, disarmante. Se caliamo poi quest’interrogativo nella dimensione più autentica del conflitto eterno tra israeliani e palestinesi, quel NO assume connotati tristemente reali, quanto drammatici. Eppure c’è chi non si rassegna e vuole spendere ogni risorsa propria vitale perché così non sia. Se poi ad alimentare questa speranza soffia il vento dell’amore, l’epilogo potrà essere esaltante oppure catastrofico, perché l’amore è uno di quei sentimenti che difficilmente riesce a mediare col buonsenso e la ragione.
Così, due giovani, Abdul e Naomi, uno palestinese, “arabo”, che fa l’operaio in un albergo di Tel Aviv, che, per dirla col padre, “si è ridotto ad avvitare lampadine per gli ebrei se pure è stato il primo ragazzo arabo ammesso all’università con la borsa di studio”, l’altra israeliana, “ebrea”, di buona famiglia, con le certezze della propria vita già decise da qualcun altro, diventano protagonisti di una storia che ha il sapore antico, se consideriamo la forma teatrale della tragedia, comunque rivisitata in chiave moderna. Per la loro gente, questi ragazzi hanno una colpa gravissima, si amano, ma soprattutto per “colpa” di questo amore rischiano di perdere il proprio rispettivo senso di appartenenza, quindi si sottraggono al sentimento più naturale tra israeliani e palestinesi: l’odio.
Con un linguaggio per niente convenzionale, ironico e irriverente, in questo spettacolo “gridato”, ottimamente diretto da Claudio Boccaccini, i due giovani esasperano i loro sentimenti, scegliendo di porsi contro ogni convenzione. Le conseguenze non possono che essere a tinte forti. Il tentativo di dimenticare tutto ciò che li circonda, il loro stesso passato, s’infrange contro le inevitabili crisi di coscienza che li attanagliano. S’interrogano se sia giusto vivere ogni giorno col timore di saltare in aria sol perché ebreo o per contro d’essere massacrati per rappresaglia come nel caso di Sabra e Shatila; giustificare ogni atto di violenza e ogni sacrificio, anche estremo, con l’insostenibilità di condizioni di vita drammatiche dove la fame e la miseria provocate autorizzano a tutto e per contro continuare ad avere marchiata sulla propria pelle l’idea di razzismo, eppure ritrovarsi a negare sacrosanti diritti altrui e quindi chiedersi perché prendersela con quegli altri, con chi non c’entra niente.
Sino a consegnarci un ulteriore interrogativo, cruciale, partendo dalla convinzione che, se fosse stata risolta la “questione palestinese”, l’11 settembre non ci sarebbe stato, ovvero: si vuole davvero il riconoscimento ognuno del proprio Stato o semplicemente si vuole impedirne l’affermazione dell’altro?
Ma questi giovani sono semplicemente fragili, l’uno che confessa di “farsela nelle mutande” quando era bambino, ogni qual volta vedesse un soldato israeliano, l’altra che si scioglie in pianto ad ogni torto subito, perché ebrea. Fino a che lui provocatoriamente non le chiede se in fondo non sia una “stronzata” amare un arabo e lei a rispondere: “Lasciami indossare il velo da sposa e solo dopo saprò dirtelo”. Loro sanno bene ciò che vogliono, amarsi e cambiare lo stato di cose, due utopie uguali e contrarie, tanto che nel giuoco delle parti quasi riescono a convincersi che ci si può amare oltre le appartenenze, che si può bere litri di orgoglio in nome dell’amore, perché l’amore vince sempre, fino a chiedersi: “perché questo principio deve valere (ammesso che valga) solo tra due innamorati e non anche tra chi si fa la guerra?”.
La risposta ancora una volta è smorzata dall’amara consapevolezza che solo un pianto sa rappresentare, stavolta fatto insieme, che, come dice quel detto arabo, “…è purificatore come una preghiera”. Ma proprio la religione è il lubrificante dell’odio, quindi della guerra. Che paradosso! E ancora, giù la contabilità dei morti per cercare d’avere più ragione dell’altro, ma nessun risultato è a favore o contro, perché nessun totale di numeri può impedire l’amore. Così nel momento più commovente lei implora “questo deve cambiare” e lo ripete fino allo stremo delle forze.
Questi due giovani però non ne hanno più di forze e non hanno neanche più speranze, perciò cercano di detestarsi per salvarsi l’uno dall’altra. Fino a cercare di convincersi che l’amore ha perso. Hanno vinto gli altri, ha vinto il sistema, ha vinto l’odio, la guerra. Ma loro sono troppo innamorati per permetterlo, troppo innamorati per privarsi di quell’unica, grande certezza, del più rivoluzionario dei sentimenti, per mezzo del quale sperare che le cose davvero cambino. E se non si può vivere di solo amore, vorrà dire allora che si sarà costretti a morire per sentirsi vivi, perciò non rimane loro che un unico gesto, eclatante e risolutivo, che valga da monito per il mondo intero, che consegni il loro amore all’eternità, il luogo deputato, dove è giusto che stia, perché sia chiaro che due corpi che si sono amati così tanto abbiano la forza di scrivere la pagina più bella della loro storia, dimostrando che quegli stessi corpi possono essere sacrificati sull’altare del sentimento dei sentimenti e della pace tra i popoli; che quei corpi possono offrirsi, uniti, ad un grande ideale, perché come dice il detto arabo “non si può plaudire con una sola mano…”, perciò il sacrificio di un singolo varrebbe poco se ad esso non si affiancasse quello di chi è uguale e opposto, uguale per amore, opposto per appartenenza. La fine sancirà il legame eterno.
Sappiamo bene che tutto questo non serve a cambiare lo stato di cose, la risposta l’abbiamo sotto gli occhi; la verità tuttavia è che non vogliamo rassegnarci ad un finale davvero tragico e se pure non credo che questo spettacolo possa aggiungere un solo mattone all’edificio della pace, comunque ci consegna la grande consapevolezza che solo riempiendo i vuoti che si hanno dentro si saprà essere uomini e donne migliori e solo dopo, forse, potremo sperare che le cose cambino.
Vincenzo Calò, attore, dirigente ANPI
Pubblicato giovedì 5 Novembre 2015
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