L’esordio di Marco Bellocchio nel 1965 con I pugni in tasca, schiaffeggiava il costume del tempo. Era un film graffiante contro l’ipocrisia borghese. Anche questo nuova opera Il traditore, sulla figura di Tommaso Buscetta che si sperava premiata al festival di Cannes, racchiude quello spirito, svelando le doppiezze umane e politiche. Vediamo descritti il desiderio di vendetta, l’ambizione e anche il coraggio del lottatore. E, contrapposti, il potere dello Stato contro il potere della mafia, ma di uno stato incapace di fare veramente i conti con essa. Lo dimostrò il processo Andreotti finito con una assoluzione per prescrizione. Lo conferma lo spettro del vulnus ancor oggi irrisolto, le trattative Stato-mafia.
Benché la vicenda riguardi gli anni 80-90 il tema è attuale. È noto che non si è fatta luce piena su quei trascorsi illegali e sulle metastasi ancora annidate nel corpo istituzionale. “La mafia non è finita. Ha fatto tesoro delle esperienze vissute – dice lo stesso Buscetta in un’intervista a Repubblica del ’99 – e ha cominciato un’esistenza nuova”.
In questa biografia filmica del “boss dei due mondi”, Bellocchio trasforma il suo stile visivo egocentrico in un discorso forte e diretto, in parte d’azione in parte di cronaca psicologica. È una testimonianza civile nel contesto storico e
sociale, che entra nel vivo del ritratto del pentito e ci proietta in uno dei periodi più drammatici della vita del nostro Paese.
Buscetta, un adepto vecchio stile di Cosa Nostra, un gangster colpevole di omicidi contrabbando e traffico di droga, diviene testimone decisivo delle prime importanti verità sull’organizzazione della mafia, riempiendo le colonne dei giornali e la tv.
Il personaggio interpretato da Pierfrancesco Favino è un capolavoro di bravura espressiva. L’attore è sorprendente, parola e gesto, dialetti e lingue straniere, nel sottolineare, la forza e l’intraprendenza del mafioso educato al delitto, unita all’astuzia e al ragionamento nell’ambiente della cosca e delle sue imprese. Don Masino ci appare controverso ma con un suo codice d’onore da antico malavitoso fedele all’omertà e alle icone familiari. Non nasconde esitazioni e paure né il piacere della bella vita, non vuole morire ammazzato dai corleonesi. Questi ultimi, in gara all’ultimo sangue coi vecchi compari di Cosa Nostra per il nuovo business della droga, stanno eliminando i suoi amici e poi faranno fuori il fratello, i figli e i parenti.
Latitante, rifugiato in Brasile, con altro nome e protetto dalla terza moglie Cristina (Maria Fernanda Candido) Buscetta viene individuato dalla polizia federale ed arrestato. Strappato al suo eden, sarà torturato e poi estradato in Italia, dopo un tentativo di suicidio. Durante i primi interrogatori non intende spezzare l’antico giuramento di affiliato a cui sempre è stato ligio. Favino ci mostra con abilità il conflitto interiore di chi non vuole macchiarsi di “infamia”. Ma è tempo di parlare, in nome di un duplice movente, quello familiare e quello della rivalsa contro la nuova banda in nome della “onorata società” di prima. Buscetta capisce che è sconfitta, ma ora i nuovi criminali di Corleone minacciano i suoi affetti, moglie e figlio rimasto. Così vuoterà il sacco, infliggendo un colpo mortale ai nuovi arrivati e smascherando Pippo Calò esecutore dell’assassinio del figlio. Le sue rivelazioni preziose aprono il sipario sull’intera cupola. L’antico complice e amico, passato al nemico agli ordini di un capo feroce, Totò Riina, è per lui il vero traditore che merita vendetta.
L’incontro con Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi) è un momento filmico penetrante. Ricostruisce la pazienza del giudice nell’inseguimento verbale del futuro pentito a cui inietta il seme del dubbio e della logica. L’insistenza sul contenuto di morte della mafia e sul suo permanente carattere delittuoso è secca e convincente. Mentre Buscetta afferma che un tempo la mafia non toccava i bambini il magistrato sbotta: “Cosa nostra è una cosa cattiva, smettiamola con questa leggenda della Cosa Nostra buona”. Si crea un’intesa con limiti precisi tra i due ma basata sulla comune sicilianità e sulla lealtà di entrambi, quella superiore del giudice verso la giustizia e quella del collaboratore che s’identifica nel passato “d’onore”. Falcone porterà Buscetta alla conferma che il passato è irreparabile, che tutto è finito. Profetica anche la citazione della condanna a morte che pende sul capo di entrambi, giudice e pentito. “Prima o dopo”. Li accomuna il veleno in agguato che, intossica ogni istante di vita, dai processi al quotidiano, l’insicurezza sul mondo circostante e sulle istituzioni. Il caffè può essere pericoloso, i discorsi più segreti possono essere ascoltati, ovunque spuntare un sicario, nei tribunali, nel carcere, al bar.
La narrazione viaggia tra i due elementi alternati della salvezza e dell’insidia. Esprime la problematicità delle cose e dei caratteri all’interno della trama. Partendo dal protagonista ogni fatto racchiude un contrasto. Il chiasso orgiastico e cafone della festa nella casa al mare di Stefano Bontade, copre il progetto della faida. L’immagine del figlio di Buscetta, Benedetto, devastato dalla droga, stride con la vanità del padre. Don Masino in fuga cambia faccia e nome più volte. L’arresto nella bella casa in Brasile distrugge il suo momentaneo benessere.
Le sequenze dei processi sono le più riuscite e coinvolgenti del film. I linguaggi di fiction e documentari si fondono. Riviviamo i momenti drammatici del primo faccia a faccia con i crimini mafiosi nel Maxi-processo all’Ucciardone. La maggiore assise penale su scala mondiale, con 475 imputati.
I primi piani del protagonista e degli imputati chiamati in causa sono illuminanti. Il sonoro invade la scena con le grida del pubblico, gli insulti provenienti dalla gabbia dei reclusi, le sfacciate menzogne di Pippo Calò (il bravissimo Fabrizio Ferracane), la sfida delle confessioni, i confronti. Le minacce di morte subdole ed esplicite risuscitano il quadro eclatante della battaglia giudiziaria in corso. Da un lato siamo spettatori di uno Stato debole, difeso da tutori della legge ardimentosi e determinati, ma troppo spesso fuorviato e vanificato da politici ambigui e collusi.
Dall’altro spicca la violenza bruta e tracotante, la volgarità dei corleonesi. Sembra quasi incredibile che questi buzzurri siano stati capaci di tanta mattanza, di crimini, rapine, sevizie, attentati. Eppure il lassismo e i maneggi occulti di settori pubblici deviati, li hanno facilitati.
Le sentenze successive decimano i mafiosi con 2665 anni di carcere, ma Totò Riina è ancora latitante. La risposta efferata viene con la strage di Capaci. Il film ne riproduce le fasi. I brindisi di detenuti e quartieri mafiosi festeggiano l’assassinio di Falcone, della moglie e della scorta. La folla connivente ed esultante è un quadro preoccupante, evidenzia il vivaio malefico da debellare. Nei successivi processi degli anni 90 don Masino arriva alla decisione di fare i nomi dei politici eccellenti che in precedenza non aveva voluto rivelare. Un punto chiave. I mandanti, ecco il messaggio suggerito da Bellocchio al pubblico dimentico, che fa pensare al problema tuttora in ballo dei burattinai di intrighi, stragi, collusioni, sospeso come i numerosi misteri di stato segretati.
Al processo Andreotti, Buscetta parla, riferisce che il senatore era il “referente politico di Lima Salvatore per le questioni di interesse di Cosa Nostra”. Così gli dissero, era noto a tutti. Ricordiamo la conclusione, le prove giuridiche risultano insufficienti e la sentenza si aggiusta con la prescrizione.
Il personaggio del pentito suscita qualche riflessione. Anche oggi l’esistenza di un collaboratore di giustizia non è facile, corre sul filo, come quella del magistrato. Il suo cammino somiglia a quello di un funambolo. Così sarà per Falcone, precocemente eliminato, così per Borsellino.
Anche Buscetta dovrà vagare da un luogo all’altro degli Stati Uniti nella precarietà del domani, con un’arma sempre a portata di mano fino alla morte per un male incurabile.
Ma il ruolo del pentito serve e deve essere protetto, a patto che vi sia l’accertamento dei fatti e che l’inchiesta continui in profondità e fino agli alti livelli.
Il finale intenso ci riporta all’intimo del “traditore”. In realtà egli non si è mai riconosciuto come tale, non ha mai tradito la sua antica affiliazione, anzi voleva restaurarla. Ha cercato di sopravvivere e difendere gli affetti. Nella solitudine notturna dell’esilio americano, il volto provato di Favino scavato dall’obiettivo è come la pagina di un libro, che riassume una storia. Quella di un soldato sconfitto.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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