“Ho avuto coraggio” – così riassume la propria carriera di cineasta Marco Bellocchio, Palma d’onore all’ultima edizione del festival di Cannes. Regista fra i più anticonformisti del cinema italiano, ingegno laico e tormentato, ha affrontato con originale forza espressiva il malessere del nostro tempo, che affonda le radici nella famiglia e nella società borghese. Nella sua narrazione beffarda e tragica riflette i pregiudizi provinciali, le ribellioni del Sessantotto, i drammi degli anni di piombo, il pianeta della follia e dei manicomi smascherando l’indifferenza e l’incapacità di amare.
Dal primo film I pugni in tasca che fa scalpore nel 1965 mettendo a nudo le ipocrisie della morale borghese con piglio tagliente e ribelle, continua la sua osservazione crudele del mondo contemporaneo con La Cina è vicina fustigando i rapporti familiari corrotti e colpendo metaforicamente il trasformismo.
La sua ricca produzione di film e documentari affronta con coraggio varie tematiche di costume della società, dall’oscurantismo religioso all’ambito militare, dalle interne contraddizioni del cinema ai conflitti sociali come terrorismo e mafia. Porta sullo schermo la sua versione di celebri testi teatrali di Pirandello e Čechov ed entra entusiasta nel fascinoso regno della musica di Giuseppe Verdi con Addio dal passato.
Il bersaglio della sua analisi parte dal virus familiare, dalla famiglia normale che spesso uccide e origina drammi mentali in una società fondata su privilegio e bugia. Su questo argomento dice molto Bella addormentata, ispirato a Eluana Englaro e alla battaglia per un fine vita civile, contro i falsi alfieri della vita dove la voglia di libertà e l’intima rabbia di Bellocchio investono lo spettatore ma gli lasciano trarre le conclusioni.
Il documentario Marx può aspettare, presentato a Cannes in anteprima in occasione dell’assegnazione della Palma d’oro, può dirsi il capolavoro dell’età matura. Un’autobiografia e un ritratto familiare pieni di fermenti e intensità, condotti per tessere significative, unendo l’ironia alla tristezza.
Il ritmo scattante dei filmati asseconda la volontà interrogativa e analitica dell’autore e incentiva la riflessione del pubblico. Partendo dalla tavola a ferro di cavallo apparecchiata per il pranzo di compleanno in famiglia, gli elementi che si susseguono hanno tutti una funzione narrativa che rievoca l’intera storia.
Dalle foto dei due gemelli che reiterano il loro stupore e la loro malinconia di fronte agli eventi familiari e a quelli storici, alle immagini scolastiche piene di sapore del tempo, alle presenze dei protagonisti intervistati: i fratelli, Piergiorgio e Alberto, le sorelle, Letizia e Maria Luisa, la cognata Pia e gli amici esibiscono il loro lato ora satirico, ora drammatico ora tenero, inducono al riso e al pianto e ai ricordi storici. La parola è visiva. Le due sorelle, l’una sordomuta nel suo eloquio stentato denso di sincerità, l’altra abbarbicata alla religione spicciola, spiegano l’educazione ricevuta. Rievocano la figura della mamma, terrorizzata dalle fiamme dell’inferno secondo la visione ammannita ai credenti da certa Chiesa dell’epoca che ben ricordiamo.
La vicenda dei fratelli Bellocchio, inserita nella storia italiana, ci fa ripercorrere momenti e figure essenziali: la guerra, le città bombardate, il fascismo. Vediamo, tra l’altro, Mussolini in pieno show demagogico e Pio XII in una apparizione più teatrale che mistica, per poi arrivare alle elezioni per la Repubblica e alla ventata giovanile del 68. L’ironia corrosiva del film scava nei primi piani e nella cronaca come in un’acquaforte con tutti i contrasti. Tende poi a concentrarsi sul suo vero scopo, la figura di Camillo, fratello gemello del regista. Il suo volto dolente, perno di un racconto che assume il valore di una confessione, si affaccia qua e là, presenza fragile e perdente, reggendo l’intero percorso. Camillo era forse fin dalla nascita una creatura ipersensibile, ma la convivenza forzata col fratello maggiore imposta dal padre fin da piccolo potrebbe averlo logorato.
Marco era uno squilibrato, un pazzo che dava in escandescenze. Negli anni si evidenziano la vulnerabilità e l’insicurezza del gemello, burlate, ignorate o rimosse con superficialità dai familiari. Ogni giorno di più, Camillo diventa una pianta debole schiacciata via via dal paragone con la normalità quotidiana e scolastica dei fratelli, con l’ascesa di Marco nel mondo del cinema. Dopo ogni scelta casuale fatta di malavoglia si sente fallito. Anche il servizio militare non giova e il ragazzo, come dimostra la foto sul carro armato, pare assente, è solo. Infine, divenuto istruttore Isef, sembra sistemato ma non è così. Il disagio psicologico lo porterà al suicidio, impiccato in in palestra.
Bellocchio scopre il suo senso di colpa per aver scartato la richiesta del fratello quando anni prima gli chiese un posticino nel cinema e registra il rimorso di Piergiorgio, il fratello che ha distrutto il biglietto di addio del suicida. Ecco le prove della famiglia che uccide. L’ossessione che ricorre in molti film del regista, rinasce nei fotogrammi illuminanti ben inseriti nella storia, tratti da I pugni in Tasca, Gli occhi e la bocca, L’ora di religione con l’attore Lou Castel come suo alter ego.
“Ma Camillo cosa poteva fare? – si giustifica Marco – Cosa sapeva fare?” Oggi ritratta. Era una scusa. Insiste con la lucidità e freddezza di un chirurgo sulla cecità del nucleo familiare, sul non capire le sofferenze dell’altro. Più che un’accusa la sua è una tragica constatazione. Ognuno cerca di salvarsi da solo. Il distacco del regista non è casuale. Il fenomeno non riguarda solo la sua famiglia ma anche molte altre. Non è un problema solo di ieri, è anche di oggi. Da ventenne, lui voleva purificarsi dall’egoismo borghese e dalla ristrettezza d’idee clericale. Per questo, nel 68, aveva abbracciato una fede assoluta basata sulla militanza sociale e sul servire il popolo.
Prese sottogamba la frase accorata di Camillo, “Marx può aspettare”, che spiegava la propria diversità. Con maggiore attenzione queste parole avrebbero potuto rivelargli l’emergenza esistenziale vissuta dal fratello.
“Non era il momento – conclude il regista, facendoci ripensare alle fasi di Proust –. Solo più tardi, da vecchi si ripensa, si diventa più liberi”. Con questa tensione ripropone anche le scene della morte del gemello, del funerale. Un po’ misteriosi i moventi se non ci fosse il biglietto d’addio. Lui scriveva di essere fallito anche nei rapporti amorosi, ma il legame con la fidanzata Angela resta nell’ombra. Giovanna, la sorella di lei, interrogata, insiste sul dolore di Camillo per essere sottovalutato dai suoi. La famiglia non vuole sapere, ignora Angela, preferisce la non risposta, nega il suicidio finché può.
Il docufilm coinvolge da cima a fondo anche godendo dell’apporto felice della musica di Ezio Bosso. Così come felice è anche lo scorrere, il lampeggiare degli ambienti, i paesaggi, le frotte di ragazzotti di Bobbio, le immagini fisse conclusive delle foto di famiglia coi personaggi in posa, allineati che sembrano inchiodati alle loro verità. Il finale arriva al cuore. È una sequenza breve e triste in un esterno piovoso che riassume l’inesorabile. Marco incrocia un giovane con la tuta Isef che si allontana sempre più su una pista parallela. Si ferma, si volta, lo chiama. Ma l’altro sempre più piccolo scompare alla vista. È troppo tardi per afferrare quell’immaginario Camillo.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato venerdì 27 Agosto 2021
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