Il cinema conosce tematiche forti, che sono le dinamiche interne al suo stesso sussistere. Una di queste è sicuramente il rapporto con la letteratura: affamato come è di storie, è logico vada a cercarle dove si forgiano nel loro ambito principale di creazione e diffusione. La prospettiva storica, la cronaca contemporanea, le vicende esistenziali, i comics; ma il romanzo rimane uno dei contesti privilegiati in cui chi sceneggia può trovare soggetti in abbondanza, già definiti nelle vicende, che chiedono però di essere tradotti in una visione filmica. È la dimensione in cui chi fa il cinema ha la possibilità di diventare a sua volta autore.
La narrativa sulla Resistenza ha prodotto alcuni vertici della letteratura italiana. L’elenco di chi ha scritto a riguardo è vasto e articolato e torneremo a occuparci di ciò a più riprese, qui su “Patria Indipendente”: Levi, Calvino, Meneghello, Pavese… sono solo alcuni dei nomi da citare. Tra essi fatemi esprimere un parere di eccellenza: Beppe Fenoglio, che sulla guerra di Liberazione ha scritto quelle che per me sono davvero le pagine dell’anima.
In particolare Una questione privata (uscito postumo nel 1963) è il romanzo per definizione – è Italo Calvino che si esprime così – nato nel contesto narrativo della Resistenza. Non siamo sicuri che il manoscritto poi approdato alla pubblicazione fosse considerato il testo definitivo da Fenoglio, ma al contrario de Il partigiano Johnny, anch’esso ritrovato in più versioni tra le carte dello scrittore alla sua morte e pubblicato postumo, ha una struttura compiuta, su cui non è stato necessario per il curatore operare ricostruzioni. Nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, annota appunto Calvino, Una questione privata è da porre al livello dell’Orlando furioso per come sa intrecciare il tema amoroso, in riferimento soprattutto agli anni della gioventù, e l’epica storica, pur narrata al livello dell’ordinarietà di quanto accaduto, secondo il principio dello straordinario che si nutre di elementi quotidiani.
Il romanzo di Fenoglio racconta la lotta partigiana come fu, tessuta di slanci, generosità, fatica, contraddizioni, contrasti ideologici, disorganizzazione, lutto. Forse proprio per questo liberata da una retorica pericolosa: gli elementi di fragilità di chi la combatté non sminuiscono, anzi accrescono, il valore di chi si impegnò nella guerra di Liberazione.
Sapere che i fratelli Paolo e Vittorio Taviani stavano lavorando su un film tratto da questo romanzo suscitò molte aspettative, per l’amore che a tuttora lo circonda.
Un mio amico lo regalò alla ragazza amata e dalla sua reazione alla lettura sarebbe forse dipeso l’esito di questo amore (andato in effetti a buon fine: è anche questo il potere benefico della letteratura, ammettiamolo). Ricordiamo che i Taviani sono i registi de La notte di San Lorenzo, un film bellissimo ambientato nella fase degli eccidi del 1944, e in sala ci ha accompagnato un velo di tristezza sapendo che sarebbe stata l’ultima opera di Vittorio, da tempo malato, scomparso infatti l’aprile successivo alla distribuzione del film.
La pellicola coglie questa dimensione di intreccio tra storia personale e storia collettiva: nella vicenda del partigiano Milton viviamo l’emozione di confrontarci con la generazione di giovani uomini e donne che si trovò di fronte a qualcosa di immane come un conflitto mondiale, poi tramutato in guerra di invasione, e dette le risposte che poté, anche sul piano delle idealità personali. Ritrovatosi per caso nella villa dove ha conosciuto Fulvia, una ragazza di cui si è innamorato ma che ha sempre rifiutato le sue profferte amorose, Milton viene a sapere che essa ha avuto una relazione con Giorgio, suo amico e anche lui partigiano. Quindi lo cerca per sapere la verità, ma il giovane è stato arrestato dai nazifascisti. Prova allora a sua volta a catturare un fascista con cui scambiarlo: lo trova e lo sequestra, ma per impedirne la fuga gli spara e lo uccide, perdendo la possibilità di rincontrare Giorgio e capire cosa sia davvero accaduto con Fulvia. Tornando alla villa dove abitava la ragazza, Milton incappa in un rastrellamento fascista. Cerca di fuggire, ma la conclusione del romanzo sembra suggerire chiaramente la sua uccisione: come già il partigiano Johnny, morto il giorno precedente alla fine della guerra, è esempio di chi ha offerto la propria esistenza nel rigore di una scelta storica fondamentale, non distante da quelle che si operano nella propria esistenza su altri piani, apparentemente privati.
I Taviani ordiscono una sceneggiatura essenziale, che incentra la narrazione, come già nel testo di riferimento, sulla figura di Milton, potendo contare sull’interpretazione di un ottimo Luca Marinelli: del resto non poteva essere diversamente, perché pensieri, turbamenti, slanci, paure e sentimenti del protagonista riassumono, appunto, quelli di una intera generazione. Milton, a omaggiare l’amore di Beppe, Johnny e Milton stesso per la letteratura anglosassone (la conoscenza della lingua inglese determinò per Fenoglio il ruolo di ufficiale di collegamento tra formazioni partigiane e esercito alleato); ma anche a definire la necessità che Il paradiso perduto di cui parla il poeta inglese resti oggetto di una ricerca collettiva, che non deve aver timore a sfidare nessun tipo di potere (la critica sottolinea che in Paradise lost Milton sembra fare il tifo più per il ribelle Satana che per un Dio tutela dell’ordine costituito…).
Mentre scrive Una questione privata lo scrittore di Alba aveva già nostalgia di quanto avrebbe potuto essere il nostro Paese nel dopoguerra e non è stato? È notizia del 2013 che tra gli oggetti personali di Fenoglio sono state ritrovate anche una carabina e una pistola Colt, proprio le armi descritte come quelle di Milton nel romanzo. Fenoglio quindi non ha restituito le armi, come da disposizione del CNL dal maggio 1945 in poi…
Mostrandoci, all’inizio del film, il giovane partigiano che avanza tra le nebbie delle Langhe, i registi vogliono introdurci alla sofferta maturità di Milton, come sospesa in attesa del suo definirsi, il travaglio di un Paese intero, che non sa come evolverà la guerra.
La sceneggiatura dei Taviani rimane fondamentalmente fedele al romanzo, pur concedendosi delle parentesi narrative e una licenza d’autore. Le telefonate convulse di un passaggio della sceneggiatura aprono una serie di sequenze su vari aspetti della guerra civile, in una sorta di compendio dell’immaginario visivo a riguardo. Se tutto il film denota la classicità di stile dei Taviani (già mirabile ne La notte di San Lorenzo), qui i registi mostrano il loro grande mestiere, capaci di esprimere molto con pochi movimenti di cinepresa. La licenza la troviamo nel finale: se Fenoglio lasciava poche speranze al destino di Milton, qui la salvezza è certa.
È come se Vittorio e Paolo ci dicessero: la Resistenza non può morire, sono caduti uomini e donne, ma proprio in quel che hanno reso sacro con il dono delle loro esistenze sta una forza che non ne cancellerà mai senso, memoria e gratitudine. E per noi, un’invincibile volontà di ribellione e ri\esistenza.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, iscritto all’Associazione teologica italiana e al Sindacato nazionale critici cinematografici italiani, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato domenica 7 Agosto 2022
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