È notte. Claudia Gerini, nei panni della protagonista, vuole raggiungere il figlio in ospedale e non potrebbe perché è sotto scorta. Dovrà infrangere le regole. Così la sequenza iniziale di A mano disarmata di Claudio Bonivento ci introduce nella vera battaglia di Federica Angeli, grintosa cronista di nera di Repubblica. Mai come in questi anni abbiamo visto la dedizione dei reporter per far conoscere la verità costare sangue e vite, spesso senza l’appoggio delle istituzioni. Un loro articolo, un’inchiesta, una foto sul campo sono stati spesso decisivi per l’opinione pubblica e gli sviluppi della giustizia, ma la testimonianza ha causato anche la morte. A questo ci fanno pensare le sequenze su Federica e sugli episodi mafiosi ad Ostia, oggetto del clamoroso maxi processo di un anno fa, le cui sentenze si concluderanno in ottobre.
«Siamo nel mirino», dice in un’intervista Federica Angeli a proposito della categoria. «La vostra è una missione», dice la Gerini. Le riflessioni a cui induce questo contributo filmico rendono interessante lo scorrere di una cronaca sulla criminalità, sul giornalismo e sul coraggio civile.
Il film, partendo dal libro omonimo della Angeli, da cui è tratto anche il titolo, fa emergere una figura di donna dalla tempra coraggiosa, intenta a scovare notizie sul mondo che la circonda, pronta a cimentarsi con le cause giuste. Sensibile al degrado del suo territorio, su cui spadroneggiano cosche criminali, Federica non resta spettatrice degli abusi quotidiani, non indietreggia di fronte alle minacce, mette in gioco la propria vita personale e familiare con le sue denunce sulla stampa e in tribunale.
Claudia Gerini interpreta il personaggio con intensità e naturalezza nei sentimenti e nella determinazione. Ne fa una persona viva con i suoi timori e i suoi dubbi e nello stesso tempo un simbolo della sfida, questa volta femminile, contro l’illegalità e l’inerzia delle vittime, dove l’altra faccia della paura è il coraggio. Nel racconto filmico è l’asse portante e lo specchio di tutto il percorso compensando i limiti riduttivi di uno stile registico televisivo.
Siamo ad Ostia, in un quartiere reale della Capitale, soggiogato con le intimidazioni e l’usura da tre clan in competizione (Fasciani, Spada, Triassi) che fanno il buono e cattivo tempo. La gente del posto ha paura, finge di non vedere i soprusi. La giornalista che vive di persona il quotidiano clima criminoso e vede colpire il gestore del ristorante, l’edicolante, la pasticcera, espropriati dei loro beni dagli usurai, identifica il carattere camorristico dei malavitosi e decide di smascherare Calogero, boss vincente del clan dei Costa (leggi Spada) che imperversa insieme al fratello Rocco (Rodolfo Laganà).
Dapprima la proposta di affrontare il tema sulla stampa è accolta dal suo capo redattore (Francesco Pannofino) con cautela e reticenza. L’iniziativa appare troppo rischiosa. Poi, ottenuto l’incarico, la vediamo decisa ad affrontare il boss (Mirko Frezza). Questi, arrogante e violento (un ceffo con qualche trucco di troppo) la costringe a cancellare le riprese della telecamera e le lancia un avvertimento bieco e minaccioso. “Sono 40 anni che comandiamo, contro di noi non vinci”. Lei non si ferma (ha registrato il dialogo) e continua a snodare la matassa delle collusioni del clan con settori economici del quartiere, con elementi di pubblici poteri locali e della Capitale. Sotto casa sua, di notte, si svolge un duplice omicidio, un regolamento di conti (“Chiudete le finestre! – ordina con tracotanza il boss –. Questa strada è mia!”). Federica lo denuncia pur consapevole delle conseguenze dell’atto. Massimo, il marito (Francesco Venditti) preoccupato per lei e per i figli, la prega di desistere. Riflette il comune sentire della gente indifesa disposta ad arrendersi di fronte alla violenza di un potere sovrastante e malvagio. Tra queste c’è anche la madre, che rimprovera a Federica la sua temerarietà, turbando la tranquillità familiare. C’è anche l’amica Emanuela (figura di fiction) che favoreggia uno dei delinquenti.
Ma la giornalista è ormai in moto con la sua arma, la penna. L’inchiesta fa venire a galla gli affari della banda nel territorio: stabilimenti, pizzerie, palestre, i metodi mafiosi, l’usura, i ricatti, le punizioni delittuose. Scattano gli arresti e la risposta non tarda a scatenarsi. È un’escalation minatoria assillante, le viene assegnata una scorta. I malviventi la tampinano, seguono dappertutto lei e i familiari, si mostrano con allusioni sinistre anche ai bambini, che non possono godere della tutela. Lei cerca di rassicurarli, come nel film di Benigni La vita è bella, convincendoli a non aver paura. Si tratta di un gioco, le intimidazioni valgono dei punti. Mostra loro la foto smagliante di una villa. Se ne faremo tanti, andremo ad abitarci. La scorta con l’auto? È un premio ottenuto da lei per un bell’articolo.
Ma il matrimonio ne risente, il marito porta i figli in un’altra residenza. Ed entrano in crisi le amicizie. Federica resta sola. Le si fa il vuoto intorno.
In questo senso il film è una spiegazione sintetica dei motivi dell’omertà e del silenzio che ci sono nelle zone mafiose. Il terrore di essere colpiti è rafforzato dalla sfiducia nella protezione dello Stato, troppo debole o addirittura assente. In cambio risalta il valore dell’esempio, in questo caso dell’esempio femminile. Federica dimostra che si può. Mano a mano che la giustizia si muove e colpisce i mafiosi del territorio, lei acquista rispetto agli occhi dei concittadini che la evitavano e criticavano. Ora cominciano a capire e a rialzare la testa. È un passo avanti.
Ma a che prezzo? La vita che si prospetta ai coraggiosi oppositori non è rose e fiori. La situazione dell’essere sotto scorta implica la perdita di amici e conoscenti, la restrizione della libertà, lo scompiglio dell’esistenza. Anche qui il film ci lancia messaggi significativi. In una sequenza Federica corre verso il mare come in cerca di ossigeno, di respiro, come verso un eden. È seguita precipitosamente dagli uomini della scorta. In un’altra non può affacciarsi al balcone, bloccato da grate, né guardare la figlia giocare nel parco. Sembra, è, una prigioniera.
Questi e altri sacrifici che stravolgono il privato di chi si pone in prima fila contro la mafia appaiono sottolineati dal film. E suscitano una domanda. Sono valutati a sufficienza dai legislatori, dai governi, dallo Stato?
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato venerdì 12 Luglio 2019
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