Il nuovo film di Ferzan Ozpetek ispirato al suo omonimo romanzo è guidato soprattutto dallo sguardo e dal ricordo. È un film di immagini, di visioni, di allusioni e metafore. Prendendo spunto da un libro in fieri suscita un percorso esistenziale di memoria, nostalgia, immagini, paesaggi e figure nell’affascinante città orientale, in bilico tra vecchio e nuovo.
Malgrado l’avvertimento del regista (“chi è assorbito dal passato non vede il presente”) la forza del tempo ritrovato, sempre ricorrente tra le tentazioni artistiche, trascina il racconto e i suoi protagonisti in un labirinto di fatti e misteri, un giallo complicato di accadimenti e di sospensioni. Istanbul è l’ambiente più adatto a questo viaggio, con le sue rive del fiume dense di storia, con le antiche ville in disfacimento e le celebrate architetture, una città gravida di avvenimenti alle prese con il contrasto tra decadenza e cambiamento, con le donne vestite all’occidentale e quelle col fazzoletto in testa, con i suonatori di rock e i caffè bohemiens. Arcaiche visioni di luoghi incantati e poi navi in transito e brevi squarci di attualità, sequenze lampo delle proteste a piazza Galatasaray (le madri che dal 1995 cercano i figli imprigionati e scomparsi) fantasmi di sfollati in fuga da villaggi distrutti nei più recenti conflitti politici ed etnici, l’ombra di una stazione di polizia.
Nella rincorsa di frammenti di memoria, di simboli e sottintesi cari alla penna e allo stile filmico di Ozpetek si insinuano richiami autobiografici nascosti nei personaggi di una famiglia borghese squisitamente turca, con le zie petulanti, la governante “serva padrona”, le stanze signorilmente arredate, le contraddizioni familiari e la figura centrale della madre, eco della propria.
Il protagonista Orhan Sahin, invitato da Deniz Soysal, suo lontano compagno di giochi, a curare un suo testo, vive da anni a Londra dove è emigrato. Al suo arrivo nella città del Corno d’Oro passa di sorpresa in sorpresa. Viene ospitato nella ricca villa di famiglia dell’amico che in un primo tempo non si fa trovare e ne incontra i singolari componenti. La madre Sureya (Cygden Onat) elegante e disinibita, le sorelle, il fratello Ali, pittore incompreso. Deniz, tipo bizzarro, controverso, omosessuale dalle conoscenze inquietanti, dedito alle droghe, è un autore che si diverte a mentire sulla propria storia e sulle sue figure, convinto dell’onnipotenza dello scrittore. Egli presenta ad Orhan l’amica Neval ed altri citati nel libro e lo costringe a scoprire le diverse verità. Gli elementi sfuggenti della sua narrazione e i falsi rimandano al relativismo dell’esistenza stessa. L’apparente filo conduttore s’incrocia con le novità della vita, con le ragioni della memoria, con le sue prospettive non lineari, gli angoli, i nascondigli, i prismi dei personaggi.
La casa di famiglia è in vendita. Lo sgombero imminente è una metafora del disfacimento dell’antico e simboleggia la crisi dell’antica bellezza ottomana della città. A un certo punto Deniz scompare e spetterà ad Orhan districare la matassa e pedinare il suo amante Jussuf (Mehmet Munsur) sul quale l’amico ha mentito descrivendone nel libro la morte. Il giovane invece è vivo e vegeto e ancora motivo di sfide e litigi amorosi. Anche la bella Neval non è la fidanzata di Deniz ma solo un’amica fedele e accende in Ohran una silenziosa passione. La donna la condivide; Sahin, lo scrittore di fiabe, sarebbe per lei l’uomo ideale ma l’idea resta un sogno. Il marito lo spiega candidamente “Sono venuto prima”. Conferma Ozpetek “Ci sono amori impossibili, amori incompiuti, che potevano essere e non sono stati”.
Nel film hanno presa intensa gli sguardi significativi come le voci delle canzoni turche di grande effetto melodico e malinconico che, insieme ai lamenti dei muezzin, le sirene dei battelli e il frastuono discordante dei cantieri, rendono viva la temperatura e il respiro della città.
Seguiamo il redattore uscito dai binari del suo compito, a rivivere i propri ricordi, vicende ed ossessioni, a riscoprire i luoghi dell’infanzia, il negozio di orologi ancora gestito dalla sorella, le pagine dolorose della sua fuga da Istanbul per un infausto incidente, la tragica morte di un figlio piccolo. Tutto il vissuto torna a galla mentre si svolgono i lavacri della salma di Deniz annegato e dopo che il rifiuto di Neval chiude la porta alla speranza.
Il feeling di Ozpetek per Proust, riflesso nella persona e nel travaglio interiore di Orhan, non può che registrare l’inafferrabilità degli eventi e dei moventi, le sconfitte della mente e del cuore e il ruolo incerto di quelle fasi individuali che deviano i progetti togliendo slancio al coraggio.
Gli attori sono eccellenti. Da Alit Ergenç nei panni dell’intellettuale pensoso e trasognato a Tuba Buyukustun, affascinante Neval dallo sguardo intenso, a Mejat Isler, l’inquieto e imprevedibile Deniz, a Serra Yilmaz, nella parte di Sibel la governante tarchiata che domina nella casa.
L’obiettivo ha il difficile compito di tradurre in fotogrammi i pensieri e il subconscio infilandoli al posto giusto e il viaggio non è sempre facile per lo spettatore che deve introdursi anche a fatica nei ripostigli. Ma il cinema d’autore di Ozpetek è proprio questo, una sfida all’esplorazione delle azioni umane, un cammino interno volto a scovare ciò che è segreto, a pensare. Mentre l’azione riproduce il ritmo sonnolento della terra natale di Orhan “che non ha mai respinto nessuno” il film ci indica sui selciati e all’orizzonte le turbolenze del Duemila insinuando interrogativi sul futuro.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato martedì 21 Marzo 2017
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