Per quanto si insista a dire che il cinema è un’arte, resta il fatto che sia un’arte costosa e che, anche quando ci sembra sia realizzata con mezzi contenuti, è comunque frutto di un’attività imprenditoriale, a cui lavorano molte persone. Ciò significa che i film, oltre che per la legittima aspirazione di chi li fa a veder conosciuta la propria opera, devono essere visti, per poter realizzare degli utili.
Non sempre è facile lavorare senza far scadere di valore artistico: il gusto del pubblico, peraltro, resta sovrano. Che si possa sempre sperare in una educazione del pubblico stesso a provare cose nuove, più impegnative, lo dimostra il fatto che i film dei grandi maestri del cinema sono stati spesso premiati al botteghino, non solo dalla critica. Non sempre la qualità di espressione è condizionata da criteri commerciali: in tal senso, pur conservando possibilità alla sperimentazione (che resta la grande anima della proposta artistica) il cinema è, fin dal suo inizio, un’arte popolare. Il compito di un lavoro cinematografico è anche quello di suscitare un dibattito, sollevare a livello sociale delle domande. Se un film con tale potenzialità trova la via del grande pubblico, la discussione sarà più efficace.
Primo dato sul film di cui vi voglio parlare. Arrivato alla biglietteria per lo spettacolo delle 19 di un giorno feriale sono riuscito a procurarmi i due ultimi ingressi disponibili. Lo spettacolo delle 21.15 era già sold out con le prenotazioni online. Sala stracolma, per lo più di donne e di tutte le età, da quella delle nonne a quella delle nipoti.
La curiosità sul film di Greta Gerwig, da tempo segnalato dal tamtam mediatico globale, era grande. Un film tratto dal personaggio della bambola Barbie, dal 1959 nei giochi di intere generazioni di giovanissime donne, è sicuramente un’idea interessante. Il marketing sembra sicuro. Parliamo di uno dei giocattoli più venduti al mondo, che nel corso degli anni ha prodotto non soltanto una serie di personaggi incarnati secondo varie professioni e tipologie sociali, ma anche un vero e proprio universo, popolato da attività, case, accessori di vario genere. Con un personaggio maschile, Ken, da sempre a supporto di Barbie, mai protagonista di una sorta di mondo alternativo in cui le ragazze definiscono i termini dell’affermazione sociale.
Non c’è niente che una donna non possa fare nel sistema dell’immaginario prodotto dall’azienda Mattel. La quale ha proposto agli inizi degli anni 70 un bambolotto snodato destinato al mondo maschile, Big Jim: con un impatto simbolico però di altro segno, meno rilevante. Tema intrigante, quindi: ma con una incognita fortissima sull’esito finale del progetto. Anche perché l’intento dichiarato era di farne un prodotto destinato pure agli adulti, non solo per bambine. Nelle campagne di promozione del film si parlava esplicitamente di un film femminista: Greta Gerwig ha alle spalle due opere da regista da leggere in questa prospettiva, Lady Bird, del 2017, e il remake di Piccole donne, 2019.
Barbie è un film popolare, che sicuramente fa leva sulla nostalgia e la curiosità di bambine, ragazze e donne per il proprio presente o il proprio passato di giochi. Ma lo è anche per la capacità di trattare un tema rilevante come quello dell’identità femminile, suscitando domande e riflessioni non banali. La Barbie stereotipo lascia la sua Barbieland – popolato da personaggi interpretati da attrici\attori in carne e ossa, antropologizzando i giocattoli – per raggiungere il mondo reale, in cui una bambina che gioca con il suo simulacro le produce turbamenti, pensieri di morte, modificazioni fisiche. La sua ricerca di chi sia questa bambina, che potrebbe cambiando atteggiamento ridarle serenità riportando le cose alla loro armonia iniziale, comporterà vicende di vario genere. Quel che potrebbe interessare a lettrice\lettore di Patria Indipendente è che si parla, in modo sovente molto intelligente, di femminismo, di patriarcato e di come un mondo di donne è comunque più interessante di quello in cui governano per lo più le figure maschili. Barbie è un giocattolo che ha promosso l’autonomia femminile: le bambine potevano (e possono) pensare che da grandi avrebbero fatto qualsiasi cosa volessero, non debbono porsi limiti. Inoltre l’universo Mattel è all’insegna del politicamente corretto: Barbie ha amicizie di ogni etnia e condizione di vita, e i vari personaggi che ha accanto vivono anche la condizione della disabilità, di forme fisiche non stereotipate (ciò anche in seguito alla polemica se la bambola non promuovesse l’anoressia, con un ideale fisico troppo lontano dalle varie condizioni fisiche delle donne vere), esercitando professioni solitamente pensate solo per i maschi.
Eppure un giovane personaggio del film, una ragazza che si è disfatta dalle proprie Barbie e rifiuta con esse il suo passato di bambina, non esita a definire la protagonista fascista. Ammetto che senza questo passaggio di sceneggiatura forse non avrei osato proporre questa recensione. È anche vero che il film gira intorno a una grande questione dell’antifascismo, cioè l’arroccarsi del nazifascismo sui principi del maschilismo e della società patriarcale. Infatti, nel film, si corre il rischio che Ken, uscito dal suo ruolo a latere, riesca a riportare anche Barbieland sotto il dominio del patriarcato, che relega le donne a essere loro subalterne ai vari Ken (si chiamano tutti con lo stesso nome, sia loro che le Barbie: tra le molte sotto tracce della sceneggiatura sicuramente c’è anche quella della ricerca dell’identità).
Questo giocattolo ha davvero avuto il potere di dare alle donne uno strumento per la propria autopromozione o è stato soltanto una parvenza di autonomia (i vertici della Mattel nel film sono tutti di sesso maschile), che portava con sé l’esca avvelenata del capitalismo consumista, un modello economico a cui educare le bambine? Questa presunta indipendenza è davvero efficace per far uscire le ragazze da una mentalità ancillare e meramente estetica, comunque subalterna al maschio? Il suo essere un prodotto concepito in Occidente le consente davvero di affrancarsi dalle logiche del dominio imposte a ciò che culturalmente è altro dagli Stati Uniti? È l’accusa che costa a Barbie l’accusa di essere fascista (e lei ne soffre molto). Di certo il sottotesto politico del film è rilevante. Nel maschilismo – anche un po’ grottesco – dei vari Ken possiamo leggere un non larvato riferimento al trumpismo, purtroppo ancora imperante. Non è un caso che molti conservatori statunitensi sono stati assai critici con questo film, accusandolo (ovviamente) di un femminismo autocelebrativo e di aver inserito tanti attori LGBT+ nel cast. Del resto, a tempo debito, diversi Paesi islamici hanno vietato la commercializzazione della bambola, accusandola di essere un segno e un modello pericoloso della decadenza occidentale.
Come a volte non sono solo canzonette, così non sono solo giocattoli. Gerwig sceneggia con Noah Baumbach (suo compagno di vita), a sua volta regista e capace spesso di un cinema originale e stimolante. Se il film avesse avuto più lucidità di intenti nella sua seconda parte, saremmo davvero di fronte a un grande film. Prevale la parte spettacolare nella creazione di un universo visivo di grande impatto e di certo il cast – Margot Robbie, che ha anche prodotto il film, in primis – fa un ottimo lavoro. Così le piste di lettura si moltiplicano senza che si focalizzino con la chiarezza necessaria, dal tema del consumismo che cancella le identità a quello politico. Se si apre con una lettura parodica delle scene iniziali di 2001 Odissea nello spazio, con una Barbie\monolite che viene a far evolvere le bambine da bambolotti che le destinano solo al ruolo di madri, così il finale, sempre di derivazione kubrickiana, mette Barbie di fronte alla radice della sua identità. Per chi conosce i meccanismi della sceneggiatura un escamotage non proprio originale.
Potrà piacere o meno. È un film diretto da una donna (che si avvia a essere la regista con all’attivo l’incasso più alto realizzato da un’autrice di sesso femminile), sinceramente proposto soprattutto alle donne. Per farle riflettere, gioiosamente, sulle tante realtà, culture e potenzialità che esse rappresentano ed esprimono. Senza trattare di violenza, che resta un tema assente (insieme al sesso) nel film, ben rilevante nel nostro mondo reale.
Se il cinema popolare è ancora capace di sollevare questioni del genere, ben venga. Come pure far riflettere sul perché un giocattolo possa essere definito fascista non mi sembra cosa di poco conto.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato sabato 26 Agosto 2023
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