La cinematografia, come tutto ciò che è umano, evolve attraverso le generazioni, i passaggi tra diverse fasi storiche tramite le persone concrete che fanno cinema. Ad autori e autrici conosciuti e stimati si affiancano coloro che arrivano a realizzare film dopo anni di lavoro prezioso e sconosciuto, con documentari, corti, prodotti visivi di vario genere.

Il regista Gianni Amelio, con Alessandro Borghi, Federica Rosellini Gabriel Montesi a Venezia (Imagoeconomica, Leonardo Puccini)
Maura Delpero, Leone d’argento a Venezia con il film “Vermiglio” (Imagoeconomica,  Leonardo Puccini)

Fa piacere vedere sugli schermi, in queste settimane, due film che rappresentano tutto ciò: Gianni Amelio (classe 1945) presenta il suo Campo di battaglia, Maura Delpero (1975) è andata al Festival di Venezia con Vermiglio, suo secondo film di fiction dopo molto lavoro documentario, e se ne è tornata con il Premio Speciale della Giuria, nonché la designazione per rappresentare il nostro Paese ai premi Oscar, nella categoria Miglior film straniero.

Se ne può trattare insieme anche per un’altra ragione. Se nel primo la guerra di cui si parla è la Prima Mondiale, il secondo è ambientato sul finire della Seconda. Ma non sono opere che filmano battaglie, nell’orrore diretto della guerra. Stanno al limitare del conflitto, ce ne mostrano le conseguenze. Che sono altrettanto devastanti e chiaramente esprimono quanti segni lascino nell’esistenza di chi le vive.

Alessandro Borghi in una scena di “Campo di battaglia” dove interpreta il personaggio di Giulio

Due medici militari, Giulio e Stefano: a loro il compito di curare i feriti, in un ospedale delle retrovie.

Hanno una visione radicalmente diversa della professione medica: se il primo cerca, addirittura procurando malattie infettive di vario genere, di impedire ai soldati di guarire per non farli tornare a un inevitabile massacro, il secondo fa di tutto per procurare alla Patria della carne da battaglia, arrivando alla denuncia e alla fucilazione per chi cerca di non tornare al fronte. Con loro Anna, già brillante compagna negli studi medici, a cui è stato impedito di laurearsi in quanto donna, e che quindi lavora come infermiera.

La morte come orizzonte non solo per la guerra, ma anche per la terribile pestilenza dell’epidemia di influenza spagnola – anch’essa una forma di coronavirus come il Covid – che si comincia a diagnosticare tra i combattenti e che i reduci porteranno tra la popolazione civile con esito terribile: 400.000 decessi in Italia tra il 1918 e il 1920 (ne ho traccia nella mia storia familiare: così morirono due miei giovanissimi zii, fratelli di mio padre. Colpiva soprattutto i più piccoli), circa 50 milioni nel mondo.

“Campo di battaglia”

I due medici si trovano a confrontarsi con le gerarchie del tempo, il classismo ottuso e omicida delle autorità militari che mandarono al macello una generazione di povera gente, contadini e operai, e che non volendo affrontare in maniera responsabile l’insorgere della pandemia non riuscirono a limitarne il dilagare. Se Giulio incarna un rifiuto del militarismo in nome di un umanesimo forse non definito, ma comunque espressione del suo mestiere, Stefano si propone come l’epigono di una generazione che preparò, da lì a poco, l’avvento del fascismo, che solo in apparenza dette voce alle classi popolari, proponendosi da subito a tutela degli interessi della borghesia, che si ingrassò in guerra senza pagare, se non in parte e mai riguardo ai propri vertici, il prezzo di dolore e sterminio che fu dei più poveri.

Amelio è uno dei grandi maestri del cinema italiano, un autore capace di ricognizioni storiche (Porte aperte, Così ridevano, Hammamet) e sociali (Il ladro di bambini, Lamerica, La stella che non c’è) di grande rilievo, variamente riferite a fonti letterarie, con una menzione particolare in tal senso a Il primo uomo, trasposizione del romanzo incompiuto di Albert Camus. Campo di battaglia, tratto da La sfida di Carlo Patriarca, esprime una doverosa contestazione alla logica bellicista e apre sullo scenario che condurrà al ventennio fascista. Non del tutto efficace sul piano della trasmissione delle emozioni, il film paga una definizione dei personaggi molto meno significativa che nelle sue opere precedenti: la figura di Anna è tratteggiata non adeguatamente, e anche Giulio non sa dirsi nel film come sarebbe stato necessario. Per il resto, il consueto gran lavoro di regia, direzione di attori, identificazione e trattazione del soggetto, di un autore da cui abbiamo avuto davvero del bel cinema, capace di tessere una riflessione politica mai banale.

Una scena del film “Vermiglio”

Maura Delpero introduce il suo film con tenerezza, dichiarando la volontà di parlare di un contesto, il piccolo paese di Vermiglio, Val di Sole, in Trentino, che è quello della vicenda di suo padre, che vi ha avuto i natali. Il transito finale della guerra porta con sé gli echi di molto dolore, una guerra che però è stata risparmiata a questo luogo dimenticato nelle pieghe della storia: il fronte è passato altrove, i tedeschi non hanno compiuto qui stragi o soprusi efferati. La guerra insistita e costante, quella contro i poveri, è però ben presente. La famiglia protagonista del film ha come autorità paterna il maestro del paese, che tenta di combatterla con mezzi e risorse esigue, anche personali, tanto che solo a una delle sue figlie della numerosa figliolanza è in grado di garantire la possibilità di studiare a sua volta.

Una scena da “Vermiglio”
Dal film “Vermiglio”

La vita quotidiana sembra aver cristallizzato un tempo sospeso rispetto alla contemporaneità, ma il modello di civiltà che sottostà alla vita dei protagonisti sta per finire. Un soldato sbandato dopo l’8 settembre arriva a Vermiglio con un parente del maestro: sua figlia Lucia se ne innamora e lo sposa benché sia considerato uno straniero, essendo siciliano. Da questo elemento scaturiscono conseguenze dolorose, la prospettiva di varie partenze dal nucleo famigliare: non si disgrega soltanto quello, è la cultura contadina che si avvia a radicali trasformazioni, fino al punto di perdere la propria identità antropologica, quella che dovrebbe garantire equilibrio a chi la vive.

Vermiglio è un film che sembra provenire da un’altra stagione del cinema italiano. Sembra: lo stile e la capacità tecnica della regista sono da cinematografia classica, quella che sempre ci occorrerà per narrare certe storie.

Ermanno Olmi nel 2009 (Imagoeconomica)

C’è chi ha parlato di un riferimento al cinema di Ermanno Olmi, ma L’albero degli zoccoli (già Palma d’oro al Festival di Cannes) è solo un passaggio dell’opera di un regista che ha parlato di ben altro di più della cultura rurale nei suoi valori di pietà, umanesimo, spiritualità. Proprio come Delpero dice altro rispetto a ciò: dell’evoluzione delle donne, del valore dello studio – anche se non del tutto capace di garantire il riscatto delle classi subalterne – della distanza tra la vita pubblica e quella privata, dei turbamenti della sessualità, di un Paese che non riesce a liberarsi dai pregiudizi del sentire comune. Bisogna uscire dai propri contesti, nel coraggio di cercare la verità guardandola in faccia, vedendo i volti, come farà Lucia: per tornare a vivere, riprendendosi il carico della responsabilità di educare. Come forse suo padre non è riuscito del tutto a fare, nonostante la dignità di un’esistenza retta.

“Vermiglio”

Trent’anni di distanza biografica tra il regista Gianni e la regista Maura (annotando che Delpero realizza il suo secondo film a quasi cinquant’anni, per dire che il cinema italiano non apre porte a sufficienza per far entrare nuove e nuovi artisti), la guerra come contesto comune, non direttamente narrato, ma reso terribilmente concreto nel definire il dramma della storia. Quella storia che chiede di essere narrata nelle storie di chi ne subisce le ingiustizie più crudeli, le vite spezzate di chi chiede pace, ma non trova che il plotone di esecuzione, o un destino definito da altri, che nega spazio all’intelligenza.

Un cinema necessario a dirci che ci si deve sforzare di guardare, e analizzare, e contestare il proprio tempo, con lo strumento fondamentale dell’attenzione a chi soffre di più. Se si guarda altrove o solo ciò che vorrebbero farci vedere, non ci resta altro che subire la storia dei potenti e dei padroni. Ma quest’ultima è una storia che non smetteremo mai di rifiutare, di voler cambiare.

Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana