Ciò che più conta per noi è di essere riusciti a riunire intorno a questi interessi [la cultura popolare] giovani studenti, contadini ed operai, che seppur con varie difficoltà operative e tensioni interne ed esterne, trovano il modo di riallacciarsi con la loro storia e la loro tradizione, all’interno della propria comunità.
Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri
Nel 1965 a Magliano Alfieri, borgo rurale piemontese in provincia di Cuneo, adagiato nella piana del Tanaro, tra Langhe, Monferrato e Roero, un evento scuote la quotidianità dell’antico villaggio di origine romana.
Un gruppo di giovani cantori si è riunito sotto la guida di uno studioso appassionato del mondo popolare e si aggira per lunghe camminate notturne in cerca di case ospitali e di cascine illuminate per riprodurre la questua delle uova, una processione che, nella tradizione, prevedeva che i contadini svegliati dai musici e dai cantori offrissero pane e vino. Un’usanza locale antichissima che, nella sua autentica ritualità, era in stato di dismissione. Così come il Cantar Maggio, festa anch’essa da tempo abbandonata. Saranno quei giovani a rianimarla nel 1972, riportandola alla sua funzione di celebrazione della primavera.
Lo studioso che contribuisce a recuperare queste tradizioni popolari è Antonio Adriano, fondatore del Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri, che nasce con l’intento di riproporre e approfondire la cultura popolare, affinché il territorio se ne riappropriasse.
La trasformazione di un’economia da rurale a industriale negli anni del miracolo economico aveva influito anche sulle tradizioni di una comunità contadina come quella del borgo piemontese, da sempre legata ai ritmi della campagna, e che ora da quella campagna se ne andava, alla ricerca in città di occasioni di lavoro, di una vita diversa, rinnegando quasi un passato fatto di fatica quotidiana, di schiena piegata e di mani sporche di terra. Ma anche di canti, di usanze, feste e cerimoniali che di quella comunità erano il collante.
Antonio Adriano, nato a Magliano Alfieri nel 1944 da famiglia contadina, dopo gli anni alla facoltà di Magistero a Torino e l’attività di assistente tecnico presso una scuola agraria, decide di tornare a fare l’agricoltore nel borgo natio.
Da qui prende l’avvio il lavoro di scavo archeologico per rinvenire reperti del passato e quello di ricerca musicale con il gruppo dei cantori. “Ricercare le feste processionando per antichi sentieri era per noi anche un riandare sulle tracce degli antenati. Toccare con le scarpe la terra dei padri era ritrovare da viandanti (…), un luogo originario perduto, spogliandoci dell’anonimo e dell’inautentico”, scrive.
Riconsegnare alle classi rurali subalterne che lo avevano abitato e a quelle che ancora resistevano un ruolo di primo piano nella vita sociale del paese per l’arte di aver prodotto cultura. Una cultura tramandata di bocca in bocca e, per questo, ancora più preziosa: bagaglio di saperi raccolti nell’arco di secoli in cui quel mondo era rimasto escluso dalla cultura alfabetizzata e ne aveva creata una propria.
Così riaffiora l’usanza dell’incedere rituale dei cantori nelle aie cesellate dalla luce della luna, tra le cascine, nelle campagne, a salutare anche l’inizio della primavera.
E ritornano anche i canti di questua della Settimana Santa come La pasiùn
e quelli per la Festa dei coscritti.
Tutto il repertorio dei balli e delle ballate dell’Albese viene dissotterrato come un antico reperto e portato alla luce da un archeologo, diventando patrimonio inestimabile da trasmettere alle nuove generazioni, a favorire quel legame profondo tra il passato di una comunità e il suo futuro.
Quella raccolta di canti e danze diventa la colonna sonora di ogni evento collettivo del paese: tornano a celebrarsi la festa del Calendimaggio, la fiera autunnale ad Alba, la festa dei Magnìn, la questua del Primo maggio con il suo canto Canté magg,
il Carnevale, con il canto di questua, Magninà.
Uno studio accurato ha poi permesso di entrare nel profondo della mentalità contadina espressa nelle parole dei canti, nelle manifestazioni che questi descrivono, nei fatti che raccontano. Ha permesso di ridare forma a un mondo che rischiava di scomparire.
Sono emerse le tematiche tipiche di una cultura che osservava e giudicava i fatti narrati dal punto di vista degli ultimi, degli oppressi. E che esternava timori e preoccupazioni propri di chi si trovava in condizione di sudditanza e miseria: la paura del viaggio, di una possibile aggressione, il pensiero di un pericolo incombente. Tutto questo assegnava al canto “una funzione di pedagogia popolare”, spiega lo storico Renato Bordone, nel volume Feste sotto la luna. Balli e ballate dell’Albese.
Non solo, dunque, i canti accompagnavano le ritualità del lavoro, con il ciclo calendariale e le attività artigiane di un’epoca preindustriale, fornendo notizie sulle abitudini quotidiane di quella comunità di contadini, di vignaioli, piccoli artigiani, il loro legame forte con la natura e i suoi ritmi, con il cielo e le stelle, con le stagioni e i climi, i tempi della fatica e del riposo. Non solo insegnavano comportamenti, stili di vita e rischi da evitare, ma davano forma a un immaginario, i sentimenti di un popolo: l’amore, la paura, il senso di precarietà. Un universo di significati e valori che era rimasto nascosto. La dignità di un mondo che aveva resistito fino a quel violento scossone.
Il lavoro del Gruppo spontaneo, sotto la guida di Antonio Andriano, è stato di valore inestimabile: si è opposto all’immagine del contadino come villano, operando nella “riconquista della dignità culturale del mondo contadino”, spiegava Roberto Leydi in un articolo da La Stampa del 1979; ha contrastato i cambiamenti sociali, paesaggistici determinati dal passaggio di una economia rurale a una di tipo industriale nel dopoguerra. In Piemonte il fenomeno vedeva l’abbandono di massa delle terre da parte dei giovani, attratti dalle città e dalle (immaginate) migliori opportunità di lavoro. Questa diaspora impoveriva il territorio collinare e montano di una regione e con esso la vivacità dei suoi riti.
Risacralizzando un paesaggio investito da uno sviluppo insensibile alla cultura, alla poesia, all’anima di un territorio, spiega nel volume citato Franco Castelli, attualmente presidente del Centro ricerca etnomusica e oralità (C.r.e.o.), questi cantori hanno riscoperto e riportato in vita la forza simbolica della festa, la voce collettiva del canto antico. Non solo: hanno ridisegnato i confini di un luogo nato per celebrare la natura e le sue manifestazioni, di cui salvaguardare il patrimonio culturale dei canti, come quello paesaggistico, dei boschi, degli alberi, dei sentieri, monumenti di un habitat, testimonianza di un sereno equilibrio tra uomo e natura.
Con quel gruppo di cantori e ricercatori sono rinati gli strambotti del canté j’euv – spiega ancora Castelli –, le strofette del Canta maggio, le ballate epico-liriche remote ma sempre riattualizzate, l’arguzia irridente delle canzun bisiarde, la denuncia delle ingiustizie patite, nei canti di guerra e di lavoro, i fatti dei cantastorie che vagabondavano nelle fiere, tra le cascine. Una tradizione riportata in vita nella sua dimensione di oralità e di memoria. Di voci, di gesti e storie.
L’esperienza del Gruppo spontaneo è certamente connessa a quel movimento culturale di riscoperta dei canti del mondo popolare, il folk revival, fenomeno diffuso in tutta Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. Ne sono un esito e ne concretizzano le riflessioni intellettuali, condotte dai tanti musicologi, studiosi, ricercatori che vi costruirono attorno un pensiero molto solido e radicale: educare alla consapevolezza della propria forza anche culturale le masse popolari, coinvolgerle nella presa di coscienza di un proprio valore che doveva materializzarsi in una maggiore partecipazione alla vita sociale e politica del Paese.
Ma la vicenda di Magliano Alfieri è andata oltre, chiariva Roberto Leydi, autore della presentazione del cd Feste calendariali e canti popolari dell’Albese –: “difficilmente classificabile come un’esperienza revival, avendo assunto la connotazione di una vera riappropriazione di cultura (…) il lavoro del Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri si configura come ripresa concreta di espressività di base, sullo sfondo di una operazione che tende a restituire alla condizione contadina (umiliata dai modelli consumistici e urbani) tutta la sua dignità, il suo spessore, la sua consapevolezza”.
Sono in pochi dal principio i cantori locali, dedicano tempo a riflettere sui cambiamenti in atto nelle campagne: “Tutto quello che apparteneva alla tradizione popolare doveva essere cancellato – racconta Antonio Adriano nel libro citato –, in quanto simbolo, per molti, di miserie morali e materiali (…). La gente scappava dalle campagne come da un luogo maledetto e con l’incalzare delle ruspe e del progresso sparivano come in un gorgo tradizioni, parlate oggetti, visioni del mondo, che sino a quel momento avevano segnato la vita degli uomini della terra”.
Sparivano le cerimonie e i riti antichi, le feste patronali. “Ricordo immalinconiti, vecchi contadini attendere invano sulle aie, a carnevale, il passaggio anche di una sola sperduta maschera – continua Adriano –. Le feste comunitarie erano fatte apposta per essere attese. Il loro mancato arrivo era vissuto da molti come un segno di precarietà e di agonia spirituale”. La festa, invece, illuminava quei luoghi e raccoglieva uomini e donne, giovani e anziani in un incontro collettivo, un girotondo in cui ogni partecipante aveva consapevolezza del proprio ruolo nel rito.
“Ecco la festa – racconta Adriano –: piccole vallate inondate di luna, risonanti di canti augurali. Risate e balli e voci allegre, ospitali sulle aie della questua. Ecco un vecchio padrone di casa sentirsi toccare il sangue dal canto festivo. Si unisce al coro della brigata. Canta sugli acuti ma con una voce che viene dal profondo, come sgorgante da mille strati di ricordi, da mille giovinezze perdute e poi felicemente e inaspettatamente ritrovate”.
Infine i doni, cibi e vini locali, prodotti appena raccolti e offerti alla comunità. E di nuovo canti e inni a suggellare ricordi indelebili e rinnovati.
Sono giovani i cantori di Magliano Alfieri che nel 1963-’64 decidono di far rinascere le feste e le ritualità del loro paese. Non se ne vanno ma, anzi, vogliono riappropriarsi della loro identità, dalle profonde radici contadine. Non intendono dimenticare e annullare la loro origine subalterna, soggetta alle leggi di un padrone. Raccolgono testimonianze di quell’epoca antica in cui i loro avi hanno coltivato e concimato la terra per averne frutti, cibo, sopravvivenza. Attrezzi, oggetti d’arte popolare che poi sono diventati patrimonio di un piccolo polo etnografico, il museo dei Gessi, di cui Adriano sarà ideatore e direttore, all’interno del Castello degli Alfieri.
Recuperano canti di lavoro e di osteria che appartengono al mondo rurale, come Guarda la luna,
canti di nozze come Il canto della sposina.
Altri fanno ricerche sul teatro popolare e realizzano spettacoli che mettono in scena le vicissitudini della povera gente, come Il popolo racconta la guerra, rievocazione scenica della Prima guerra mondiale osservata dal punto di vista dei contadini. Si istituisce poi una biblioteca che possa conservare documenti della storia del paese e si redige un giornale locale. Costruire un tessuto culturale diventa prioritario, fornire materiali e argomenti di riflessione, stimolare un pensiero critico, allargare l’interesse verso le tematiche della cultura popolare, denunciando gli effetti del degrado ambientale, l’impoverimento del paesaggio, il rischio della perdita di socialità, partecipazione e impegno civile.
Sono le ballate le protagoniste nei ricordi delle contadine e dei contadini di Magliano che li intonano a quei giovani in cerca di testimonianze orali. Canti narrativi di origine probabilmente medievale, organizzati anche in lunghi cicli che raccontano di amori violenti, donne assassinate, uomini crudeli, neonati uccisi, trame segrete, cavalieri in fuga, soldati che ritornano dopo una guerra, pastorelle ingannate, falsi matrimoni, così come fasulle erano le spose e le monache narrate.
In quanto prodotto della cultura del mondo popolare – spiega Leydi nel Dizionario della musica popolare europea, scritto con Sandra Mantovani – la ballata è sempre legata alla realtà materiale dell’esistenza e in questo consiste il suo valore di documento storico: anche quando racconta leggende, eventi di contenuto magico e miracoloso.
Restituiscono un mondo in cui le donne rappresentano un pericolo e per questo subiscono esilio, crudeltà, lunghe penitenze. Oppure sono in condizione di fragilità e necessitano di protezione e custodia. Nei canti più funzionali alla celebrazione delle feste paesane conquistano, invece un ruolo di emancipazione e riscatto: sono ragazze gioiose che amano corteggiare ed essere corteggiate.
Tra le ballate più note riportiamo Maria Maddalena, uno dei rari canti narrativi religiosi presenti in Italia, raccolto a San Damiano d’Asti. La figura femminile protagonista, a differenza di tutte le donne che si ritrovano in altre ballate, considerate peccatrici e tentatrici, ha una possibilità di salvezza, previo pentimento e lunghe penitenze: sette anni in un deserto, a bere acqua di mare, a dormire su un fascio di spine, e poi altri sette anni per raggiungere la grazia di Dio.
Na sun tre surelinhe, ovvero L’infanticida alla forca, ha per tema un argomento molto diffuso tra le ballate che circolavano per l’Europa in epoche passate. Ovvero quello dell’infanticidio messo in opera da una giovane ingenua e inesperta in fatto di uomini che, rimasta incinta, dopo aver partorito un bambino lo uccide gettandolo in mare. Questo evento così presente in altre ballate rivela un’usanza per niente rara nel mondo rurale di un tempo premoderno, un’epoca in cui una ragazza madre subiva pressioni sociali e morali tali da essere indotta al gesto estremo verso un figlio che sarebbe comunque cresciuto nell’infamia e nella vergogna. Per il suo gesto non può, però, che meritare la morte. Niente la salva, neppure del denaro da offrire a un giudice.
Apparentemente tema di una donna che induce l’uomo al peccato e che dunque va condannata alla morte è la ballata I’ e’ ’na fia d’in povr’om, ovvero Cattivo custode che in realtà si discosta dallo schema narrativo tradizionale presentando la grande novità del lieto fine: qui, infatti, la giovane non viene rapita per essere uccisa ma per convolare a nozze consensuali.
Ma non sono solo delitti e drammi: compare anche il sentimento dell’amore nei canti della comunità di contadini piemontese. In Questua delle uova i giovani salutano le ragazze da marito con epiteti di rara dolcezza: In questa casa/c’è una ricciolina/la vedeste andar per casa/sembra una rondinella.
Nel Cantar Maggio sono invece le fanciulle a fare la corte: Guardate là quel giovane/ha tanto un bel sorriso/con le sue manine bianche/si arriccia i suoi baffi. E poi il sentimento della protezione di un fratello verso una sorella che potrebbe cedere alle lusinghe di un uomo senza scrupoli, in Gentil Galant (Tentazione), rafforza l’idea di una comunità basata sull’importanza dei legami affettivi.
“Negli ultimi quindici anni, si legge in una nota, il numero dei componenti del Gruppo è pian piano diminuito ed è diminuita anche la possibilità di tenere concerti. Restano una decina di amici che in occasione di particolari eventi culturali nel Roero o nelle Langhe sono chiamati a dare testimonianza, con il loro canto, del lungo lavoro di ricerca portato avanti negli anni. Tuttavia dal nucleo iniziale ha preso vita un gruppetto autonomo, sono i figli o i nipoti che bambini e poi giovinetti seguivano i genitori a cantare le questue o a suonare sui palchi le vecchie musiche popolari accompagnati dai “maestri”, vecchi suonatori del Gruppo. A loro si sono aggiunti altri amici e ora frequentano le piazze dei nostri paesi con concerti ‘somma’ di vecchi e nuovi pezzi musicali”.
Una storia, dunque, che prosegue e chi resta diventa la voce di tutta una comunità, del suo passato e del suo presente. Una voce che non è mai sola. Le ricerche e la ripresa dei canti e delle manifestazioni rituali da parte del Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri sono testimonianza di un lavoro animato da grande passione e impegno civile.
Le riflessioni di Antonio Adriano, mancato nel 2006, sono oggi attualissime, invitano a ritrovare un contatto autentico con il mondo della natura e con le tradizioni attraverso cui contrastare omologazione e perdita di riferimenti identitari. “Folklore è oggi termine altamente degradato – scriveva –. Esso non significa più, secondo l’etimologia, sapere del popolo, ma si traduce spesso in artificiosa e manierata rusticità e tipicità, con le quali si tenta invano di rimettere in sesto l’anima sradicata a borghesi cittadini e a contadini tecnologici che hanno quasi sempre, nella realtà, distrutto le fondamenta e gli spazi dei riti e dei miti. Quindi non più la tradizione e la natura come vivai di simboli dell’uomo, non più la cultura popolare come esperienza vissuta, ma prevalentemente travestimento da parata e da vetrina (…). È invece secondo noi più che mai necessario ricomprendere che campi, piante, colline e animali non sono merce usa e getta, ma essenze vitali che legano indissolubilmente l’uomo ad un ambiente e ad una cultura altra”.
Chiara Ferrari, autrice del libro appena uscito in libreria Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato lunedì 25 Ottobre 2021
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/quelle-ballate-a-valle-di-lassu-dove-il-cielo-sattacca-alla-collina/