Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull’Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l’abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove – nuove al vecchio canto –
a ripetere ingenuo quello che fu.
“Il canto popolare”, Pier Paolo Pasolini
Nell’introduzione al Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare che Pasolini pubblicò per Guanda alla fine del 1955 si legge: “Salve le aree depresse, la tendenza al canto popolare nella nazione è a scomparire. Il popolo moderno, cosciente di sé in quanto classe, e politicamente organizzato verso la conquista del potere, tende ad abolire l’irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto: tende ad essere autonomo, autosufficiente nell’ambito ideologico: a dissimilarsi”. Inoltre “le armi di diffusione dell’ideologia della classe al potere sono immensamente potenziate: e la loro influenza, nel popolo, è di condurlo a prendere l’abito mentale e ideologico di quella classe: ad assimilarlo”. Pasolini conclude: “Dissimilazione, dunque, e insieme assimilazione, tra le due culture: con una frequenza intensissima, insieme di simpatia e di lotta, del ‘rapporto’. La poesia popolare, come istituzione stilistica a sé, è in crisi”.
Nella povera Italia degli anni 50 sopravvivevano gli scampoli di un popolo che per secoli era stato una comunità viva, ma che ora, con i suoi usi e costumi, tendeva a scomparire, vittima del capitalismo, dell’industrializzazione, della modernità.
Nella parte conclusiva del poemetto Il canto popolare, inserito nella raccolta Le ceneri di Gramsci, edita nel 1957, Pasolini intravedeva una quasi regressione di quel mondo popolare, identificata in un ragazzo del proletariato romano che cantava spensierato sulla riva dell’Aniene la nuova canzonetta e con essa “la antica, la festiva, leggerezza dei semplici”.
Il canto, per secoli tramandato di padre in figlio, si svuotava di significato e le nuove generazioni avevano perso la consapevolezza di un’identità. Nell’antico canto, quello del popolo prima della civiltà industriale, e nel suo recupero, Pasolini scorgeva l’antidoto a quello svuotamento, avvenuto a seguito dei cambiamenti sociali, politici, economici a cui l’Italia andava incontro negli anni della ricostruzione post bellica e del miracolo economico.
La trasformazione di un’economia da rurale a industriale influiva pesantemente sulle tradizioni delle comunità da sempre legate ai ritmi della vita contadina che, dalle campagne, se ne andavano in città, alla ricerca di occasioni di lavoro, di una vita diversa, rinnegando quasi quel passato fatto di fatica quotidiana, di schiena piegata e di mani sporche di terra. Ma anche di canti, di usanze, feste e cerimoniali che di quelle comunità erano il collante. Alla distruzione del paesaggio rurale si aggiungeva, dunque, quella del paesaggio sonoro che ne era espressione. Emanazione di un mondo stretto attorno alle ritualità del lavoro contadino, dei piccoli gruppi sociali che celebravano gli eventi principali della loro vita: battesimi, matrimoni, funerali. Di quando il canto aveva la funzione di tenere unita una collettività con le sue tradizioni.
Negli scritti di Pasolini e dei tanti studiosi che in quegli anni animavano il dibattito, tema chiave era quello di riconsegnare alle classi rurali subalterne che lo avevano abitato, e a quelle che ancora resistevano, un ruolo di primo piano nella vita sociale del Paese per l’arte di aver prodotto cultura. Una cultura tramandata di bocca in bocca e per questo ancora più preziosa, bagaglio di saperi raccolti nell’arco di secoli in cui quel mondo era rimasto escluso dalla cultura alfabetizzata e ne aveva creata una propria.
Allo scopo di preservare questo patrimonio si sviluppava il movimento culturale di riscoperta dei canti del mondo popolare, il folk revival, che si diffondeva in tutta Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta. Qui si concretizzavano le riflessioni intellettuali, condotte dai tanti musicologi, studiosi, ricercatori che davano forma a un pensiero forte: educare alla consapevolezza della propria forza anche culturale le masse popolari, coinvolgerle nella presa di coscienza di un proprio valore che doveva materializzarsi in una maggiore partecipazione alla vita sociale e politica del Paese.
Studiosi, operatori e musicisti furono influenzati dalla lettura delle Osservazioni sul folklore di Antonio Gramsci, pubblicate per la prima volta nel volume Letteratura e vita nazionale (1950), dove alla cultura delle classi subalterne erano attribuite concezioni del mondo autonome e antagoniste rispetto alla cultura dominante. L’idea di un folklore come manifestazione di cultura progressista permeava fortemente il folk revival italiano.
In questo contesto di riscoperta del mondo popolare, si inserivano le operazioni culturali di Italo Calvino che, nel ’56, si dedicava al recupero delle fiabe tradizionali italiane e del citato Canzoniere pasoliniano, antologia dei canti popolari e della poesia dialettale (’55) in cui il dialetto, non più lingua di realtà, diventava espressione di poesia. Lo scrittore friulano richiamava alla tutela delle tradizioni contro l’affermazione di nuovi fascismi.
Il lavoro di Ernesto de Martino, poi, apportava una serie di riflessioni sul ruolo dell’intellettuale. Egli doveva operare sulla storicizzazione della cultura popolare. Tracciare una strategia politica basata su un uso del folklore che determinasse un rinnovamento delle politiche culturali della sinistra. A partire dal ’52, furono sue le prime spedizioni etnografiche che rivelarono le varie forme espressive del mondo contadino e operaio: i racconti di cronaca popolare, le esperienze di lotta.
In queste ricerche lo accompagnava l’antropologo Diego Carpitella, negli stessi anni (1953-1954) impegnato in alcune campagne di registrazione sul campo, dall’Alto Adige alla Sardegna, con l’etnomusicologo statunitense Alan Lomax.
Importante l’esperienza di Cantacronache (Torino 1958-’62), un gruppo di intellettuali composto da Michele Luciano Straniero, Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Margot Galante Garrone, Emilio Jona, che univa alla ricerca e al recupero di canti sociali e di protesta della tradizione contadina e operaia la creazione di nuove canzoni politicamente impegnate.
Anche le riflessioni di Gianni Bosio erano per la salvaguardia del patrimonio della cultura popolare. Nella sua teorizzazione dell’“intellettuale rovesciato” c’era l’idea che questa figura non dovesse più rappresentare l’unica a detenere il sapere, che diffondeva dall’alto, ma che il suo ruolo fosse di apprendere dalla vita reale, quotidiana e popolare, quegli elementi culturali alternativi che la contraddistinguevano e restituirla in forme nuove.
Scriveva Giovanna Marini: “L’ipotesi di Gianni Bosio era questa […]: il popolo deve diventare cosciente della propria cultura. Le canzoni sono veicoli di cultura, comunque siano, qualsiasi provenienza abbiano. Se noi cerchiamo e troviamo queste canzoni e le riproponiamo alla gente, questa le riconoscerà, se ne rimpossesserà, perché scoprirà che le sono utili, esattamente come sono utili a noi, e prenderà via via sempre più coscienza del proprio potere. Allora cercherà di intervenire sulle scelte del potere politico, cercherà di guidare l’opinione pubblica”.
La canzone popolare doveva tornare nelle mani del popolo e diventare motivo di orgoglio: il popolo sapeva creare cultura. Forte di questa consapevolezza, doveva imporsi e intervenire sulla vita politica del Paese.
Il lavoro di Bosio sfociò nelle attività del Nuovo Canzoniere Italiano (Milano, 1962-1980). Movimento nel quale militano musicisti, ricercatori, intellettuali, diedero vita a una rivista omonima, spettacoli, pubblicazioni discografiche, con l’obiettivo di riscoprire la tradizione del canto sociale italiano, della protesta, del lavoro, della Resistenza. Ripercorrere, dunque, attraverso quei canti, le vicende politiche e sociali del Paese, cercando di trarne una lettura differente e trasversale rispetto a quella ufficiale e borghese. La ricerca di fonti alternative attraverso cui ricostruire questa storia dal basso era prioritaria: “Canti degli anarchici, canti di lavoro, di osteria, di carcere, di donne, le ninne nanne, storie epiche antiche e moderne, tutto entrava in un mondo di cultura orale che rappresentava un nucleo fondamentale per gli studiosi e per chiunque avesse a cuore di mantenere il ricordo della storia passata come cosa viva, veramente vissuta, e non solo come costruzione letteraria”.
E poi c’era il mondo del lavoro che offriva ricchissimo materiale: “Durante il lavoro avviene e avveniva di cantare – scrive Cesare Bermani –: una casalinga riprende gli ultimi successi, ma anche lunghe storie (canzoni narrative); un’operaia della Furga, così come le operaie di filanda, cantavano e cantano inni, canzonette, canzoni religiose, e recitavano il rosario; le mondine di Roncoferraro cantano storie e il repertorio d’imprestito militare; i trebbiatori che operavano per mezzo del cavallo si scambiavano salaci e aperte allusioni amorose; i battipali ritrovavano il ritmo di lavoro per mezzo di canzoni religiose o tiritere infantili […]. Tutti, durante il lavoro, cantano tutto”.
A organizzare e diffondere questo lavoro di ricerca era la casa editrice Edizioni Avanti! (diventata Edizioni del Gallo nel ’64 e infine, dal ’75, Edizioni Bella ciao), mentre la produzione discografica era affidata a I Dischi del Sole che realizzò album, documenti sonori, nuove canzoni politiche, inchieste sul campo.
Insieme all’Istituto Ernesto del Martino, fondato a Milano, il gruppo di lavoro coordinato da Bosio costituì il più importante archivio sonoro di documentazione della cultura popolare in Italia.
Figure di riferimento, oltre a quelle già citate, sono Cesare Bermani, Michele L. Straniero, Alessandro Portelli, Roberto Leydi.
Tra i vari contributi si inserisce anche la ricerca di Pier Paolo Pasolini che, oltre alla realizzazione del Canzoniere Italiano sulla poesia popolare, dedicò una serie di saggi sulla musica. Classica, tra cui gli Studi sullo stile di Bach, e popolare, in particolare sulla canzone, verso cui aveva una vera passione. Soprattutto quella dialettale, quella più intrisa dell’anima delle persone, delle comunità che di bocca in bocca avevano mantenuto in vita una eredità.
Significativo il racconto di Giovanna Marini, a ribadire quanto fosse autentico l’interesse di Pasolini per il mondo popolare. Marini nel 1960 cominciava a lavorare suonando alle feste dell’intellighenzia romana. Ad ascoltarla c’erano Masolino D’Amico, Dino Risi, Nanni Loy. Quell’anno, a una di quelle feste, avvenne l’incontro che cambiò la sua prospettiva sulla musica. Pier Paolo Pasolini per la prima volta le parlò di cultura orale. Del fatto che le canzoni prima di essere stampate su un libro, con testo e accordi, fossero cantate dalla gente nelle piazze, nei campi, nelle aie. Giovanna ebbe un soprassalto, per lei la musica era solo quella edita sugli spartiti.
Le si spalancava un universo e la ricerca sui canti della tradizione diventerà la parte principale del suo lavoro di cantautrice. Le sue composizioni saranno apprezzate da Pasolini, per quel modo in cui lei aveva “infilato le parole nelle note” e le chiederà di mettere in musica le sue liriche in friulano. Opera che Pasolini non riuscirà ad ascoltare.
Marini ne completerà cinque, tratte dalla raccolta La meglio gioventù – Suite furlana (1944-’49): Il dì da la me muàrt, Lied, Madonuta, Amòur me amòur e Dansa di Narcìs, proposte al pubblico per la prima volta nel 1984 nello spettacolo Pour Pier Paolo al Festival d’Automne a Parigi.
Dopo il suo assassinio, avvenuto la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, a lui dedicherà il Lamento per la morte di Pasolini che rielaborerà successivamente, e una serie di opere ispirate alle tematiche affrontate dallo scrittore friulano, come l’omologazione e il consumismo imperante nella società moderna.
La lirica pasoliniana tornerà nelle corde della cantautrice romana con le musiche di scena per Turcs tal Friúl, spettacolo di Elio De Capitani che vincerà, proprio per le musiche, scritte per coro a cappella, il premio UBU della critica nel 1995. Riemerge il tema della paura di fronte alla devastazione del mondo contadino, espressa dai canti dei vecchi che temono di veder bruciare per sempre la civiltà rurale. Tra i brani, di grandissimo impatto, ci sono: Frus, se vèizu di siga?, Il vint.
Di nuovo Marini ricorda Pasolini nella cantata Partenze. Vent’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini (1995). All’omaggio verso il grande poeta la cantautrice romana aggiungeva il racconto dell’Italia sconvolta dalle differenze, lo stridore di un mondo contadino sopraffatto da valori imposti dalla nuova società di massa. Con storie di vita vissuta, testimonianze di sopravvivenza, argini contro l’omologazione.
Il Lamento per la morte di Pasolini, già inserito nella cantata Correvano i carri, resterà tra le scritture più suggestive. Il tema melodico si rifaceva al canto religioso L’orazione di San Donato, raccolto da Cesare Bermani in una frazione di Teramo nel 1965. Canto che risorgeva a nuova vita, mantenendo inalterata la capacità di commuovere chi lo ascolta.
Del 2001 è il cd la Cantata per Pier Paolo Pasolini.
Del 2016 è Jo i soy. Ricordando Pasolini, editore Nota.
Tornando a Pasolini, all’inizio degli anni Sessanta il suo interesse per la canzone diventò esperienza concreta attraverso la stesura di alcuni testi, su richiesta di Laura Betti, musicati poi da Piero Umiliani e inseriti nello spettacolo Giro a vuoto. Andato in scena al Teatro Girolamo di Milano nel 1960 con la regia di Filippo Crivelli, era composto di monologhi e di canzoni popolari, scritte oltre che da Pasolini, da intellettuali come Franco Fortini, Alberto Arbasino, Franco Nebbia, Fabio Mauri, Ennio Flaiano e musicate, tra gli altri, da Fiorenzo Carpi, Piero Piccioni, Gino Negri. L’attrice, regista e cantante di Casalecchio di Reno, Laura Trombetti in arte Laura Betti, amica e stretta collaboratrice del regista, nel 1968 vincerà la Coppa Volpi per il film Teorema.
Cliccando qui potete ascoltare Enrico De Angelis che racconta Giro a vuoto.
Tra le canzoni di Pasolini si ricordano Macrì Teresa detta Pazzia, racconto di una prostituta che, fermata dalle forze dell’ordine, preferisce farsi arrestare e trascorrere diverse notti a Regina Coeli piuttosto che fare il nome del suo protettore.
Il Valzer della toppa interpretata da Laura Betti
otterrà grande successo anche grazie alla successiva versione di Gabriella Ferri, folksinger romana che vi aggiungerà un tono di disperata e struggente nostalgia.
La sorella Maria Teresa raccontò che una sera Gabriella conobbe Pier Paolo Pasolini. Era a cena al ristorante La Carbonara di Campo dei Fiori dove Gabriella aveva acquistato casa. Ricordava Teresa: “Pasolini era lì con un amico regista. Finita la cena lei si alzò e andò a presentarsi. Parlarono un po’, lui le fece tanti complimenti e lei gli disse: ‘Io canterò un pezzo tuo’. ‘Non vedo l’ora di ascoltarlo’, rispose lui”.
Sarà proprio il Valzer della toppa. “Toppa” in romanesco sta per “sbronza” e il valzer vede la stessa prostituta a Testaccio che una sera si è ubriacata credendo di essere improvvisamente tornata vergine, e così riassapora una bellezza e una purezza ormai perdute. Pasolini raccontò di averla scritta per amore del mondo popolare: “Per il gusto di usare liberamente espressioni dialettali che esercitavano su di lui un grande fascino, perché capaci di esprimere fulmineamente tutto un mondo poetico”, riporta Giuseppe Micheli nel volume Storia della canzone romana.
Tra le altre canzoni interpretate da Laura Betti vi è Cristo al Mandrione, con la musica di Piero Piccioni e la voce della prostituta del Mandrione, la borgata della periferia romana, nota ai tempi per il suo degrado e la sua miseria. Non c’è riscatto da una condizione di emarginazione sociale, sembra dire. In questo quartiere Pasolini ambientò scene dei suoi film in seguito a numerose riflessioni.
Pier Paolo Pasolini, “Vie Nuove”, maggio 1958: “Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la casettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano. Vedendoci passare con la macchina, uno, un maschietto, ormai ben piantato malgrado i suoi due o tre anni di età, si mise la manina sporca contro la bocca, e, di sua iniziativa tutto allegro e affettuoso ci mandò un bacetto. […] La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto”.
Sono canzoni che si distinguono per l’uso neorealistico del romanesco, che lo stesso regista utilizzò nei film Accattone e Mamma Roma e ancor prima nei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta.
La Ballata del suicidio, musicata da Giovanni Fusco, scritta per la seconda edizione di Giro a vuoto (1962) che ebbe grande successo a Parigi, mette in scena le tragiche riflessioni della protagonista, che non ha altre vie di fuga dalla sua miseria, se non il suicidio. Interpretata in italiano da Aisha Cerami
e in francese da Laura Betti, come La Parade du suicide.
A queste si aggiunge Marilyn, su musiche di Marcello Panni, che Pasolini includerà con qualche variazione nel film La rabbia del 1963.
Tra i materiali inediti dello scrittore friulano è stata rinvenuta una cartella intitolata Roma: Canzoniere 1950, contenente testi all’apparenza destinati a essere musicati. Tra questi il tango Ay desesparadamente,
Beguine,
e Tango de li sette veli, con le musiche di Roberto Marino, interpretati da Aisha Cerami, Nuccio Siano e Roberto Marino incise nell’album Le canzoni di Pasolini, edizioni Nota.
Del 1963 è l’incontro con Sergio Endrigo, che nel suo album di esordio del 1962 incide una ballata del periodo friulano di Pasolini, Il soldato di Napoleone, tratta dalla raccolta La meglio gioventù, che Endrigo mette in musica e traduce in lingua. Il soldato Vincenzo deve abbandonare Casarsa, la terra natia per seguire Napoleone. Spedito in Russia e in Polonia, resta ferito e si ripara dal freddo nel ventre del suo cavallo. Verrà salvato da una giovane di cui si innamora. I due fuggiranno in Francia per vivere il loro amore. Casarsa è un nome mitico nella vicenda biografica di Pasolini che, al paese sulla riva destra del fiume Tagliamento, luogo d’origine della madre Susanna Colussi, dedicò la sua prima opera in versi friulani, Poesie a Casarsa, edita a Bologna nel 1942. Ed è l’esempio di quelle comunità scandite dai ritmi del mondo contadino, che nel corso del Novecento ha subito lo smantellamento quasi totale, per l’insediamento di nuovi assetti stradali, di strutture militari, dello scalo ferroviario, di impianti industriali.
Più tardi, tra il ’66 e il ’67, sarà la volta di Domenico Modugno, insieme al quale Pasolini compose, con la collaborazione di Ennio Morricone, i titoli di testa e di coda del film Uccellacci e uccellini e la canzone Che cosa sono le nuvole? per l’omonimo film, uno degli episodi di Capriccio all’italiana. Un collage di versi di Shakespeare, il cui Otello è rappresentato da una compagnia di marionette in un teatrino di provincia.
Nell’ambito della ricerca musicale condotta da Pasolini, può rientrare anche la poesia Meditazione orale, il cui testo è stampato nella copertina del disco di Ennio Morricone, La musica nel cinema di Pasolini, del 1983. Nell’incisione è lo stesso scrittore a leggere la poesia, sulla musica composta da Morricone, che aveva l’incarico di scrivere un pezzo da inserire nel disco commemorativo per le celebrazioni di Roma Capitale, per i cento anni festeggiati nel 1970.
Del 1974 è invece una collaborazione con Dacia Maraini per la traduzione in italiano di due canzoni composte da Manos Hadjidakis per il film Sweet Movie di Dusan Makavejev. Le due canzoni hanno per titolo C’è forse vita sulla terra
e I ragazzi giù nel campo. interpretate dall’artista veronese Grazia de Marchi.
A ribadire il suo amore per la musica, negli ultimi versi di Poeta delle Ceneri (1966-67), Pasolini scriveva:
“Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti/che io vorrei essere scrittore di musica,/vivere con degli strumenti/dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,/nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto/sarebbe impazzito di gioia nel vedersi/ricreato con tanta/innocenza di querce, colli, acque e botri,/e lì comporre musica/l’unica azione espressiva/forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”.
Pasolini, da poeta, ha saputo utilizzare musica e suoni nella poesia, nel cinema, nella letteratura, costruendo un atlante sonoro originale, frutto di approfondite ricerche e di richiami al proprio mondo interiore e all’esperienza di vita. A partire dalla scelta del friulano, come “una partitura di suoni musicali ricreati da lontano”, scrive Claudia Calabrese in Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Un pentagramma di parole nato per essere recitato, declamato. Per proseguire con l’uso del romanesco per ricreare quel mondo di emarginati, di uomini e donne alla deriva che Pasolini ha sempre salvato. Ma questo non gli è bastato, ha prodotto versi per canzoni e per spettacoli musicali, ha preso parte al dibattito sul canto popolare e sulla nuova canzonetta, riconoscendo alla musica l’essere detentrice di alti valori umani e civili, portatrice dell’identità profonda di un popolo che nel canto si connette alle proprie radici.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato sabato 18 Febbraio 2023
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/pasolini-perche-ce-anche-qualcosa-da-cantare-e-ballare/