Non c’era modo in cui poter dire le cose che pensavo, ma io potevo cantarle. Odetta
Quando la ventenne Odetta Felious Holmes (Birmingham, 31 dicembre 1930 – New York, 2 dicembre 2008), voce impostata sul repertorio lirico e pronta a diventare “la nuova Marian Anderson” (famosissima contralto afroamericana, Ndr), rinunciava sia al canto operistico sia al teatro musicale in favore di esibizioni a carattere politico, basate su canti di lavoro, canzoni del carcere, spirituals – e questo prima degli spettacoli di artisti di colore nelle coffeehouses – ecco, la giovane Odetta in quel momento prendeva una decisione che avrebbe radicalmente influenzato la musica americana e la cultura mondiale dei diritti civili. Per sempre.
Un talento smisurato, frutto della Grande Migrazione. Nato in Alabama e cresciuto in California, Los Angeles. Qui Odetta riceve la sua formazione classica, con lezioni di pianoforte e training vocale. Sua madre, che lavora come donna delle pulizie al Turnabout Theatre di Los Angeles, riesce a farle avere un’audizione. È così straordinaria che saranno i proprietari del teatro stesso a finanziare i suoi studi.
Qualche tempo dopo, uno spettacolo arrangiato per lei, Finian’s Rainbow, decreta il suo successo e la fama di nuova Marian Anderson. Ma lei non vuole assomigliare a nessun’altra che a se stessa e a diciannove anni sceglie la sua strada. Una compagna di scuola la introduce nel mondo delle coffeehouses di San Francisco, locali folk dove si esibiscono giovani cantautori. Comincerà lì, accompagnandosi con pochi accordi di chitarra, a cantare un repertorio completamente diverso. Composto di canzoni di lavoro, di carcere, di schiavitù, standards folk resi celebri da musicisti come Woody Guthrie, Pete Seeger, The Weavers.
Negli anni Cinquanta, quella che si forma nei piccoli club di Los Angeles, è una comunità politicamente attiva, ispiratrice dei movimenti del decennio successivo. Che si basa su una cultura radicata nel folk, il canto popolare. Un fermento non limitato al Greenwich Village e non solo nelle coffeehouses. Il circuito folk tocca, infatti, la città di New York con locali come il Cafe Wha?, il Blue Angel, il Bitter End, il Garden’s Folk City. E poi il Gate of Horn di Chicago, il Mother Blues e il Tin Angel. Il Club 47 di Cambridge, il Golden Vanity di Boston. Ma anche programmi radio come The Almanac Show, I Come For To Sing e At Home with Theodore Bikel. Festival come quello di Newport, Monterey, Mariposa, Berkeley, Sun Valley. Riviste come Broadside e Sing Out!. Case discografiche come Folkways, Electra, Vanguard. Cataloghi di testi come Book’s Folk Music USA. Luoghi di ritrovo come il Bucks Country Folk Shop (Philadelphia), il Folklore Center (Denver), il Lundberg’s Music Store (Berkeley), il Folklore Center e Allan Block’s Sandal Shop (New York). Scuole come la Chicago Old Town School of Music o l’Università della Pennsylvania, i campus attorno a Washington Square Park.
Così Richie Havens descrive la scena del Greenwich Village alle soglie del 1960: “C’erano centinaia di pittori, scrittori, poeti, cantanti, attori e cantautori che sviluppavano idee e perfezionavano il loro lavoro. Tutto il giorno si tenevano conversazioni riguardo i nuovi libri, gli spettacoli di teatro sperimentale e per tutta la notte si discuteva di che cosa stesse succedendo nelle nostre vite. Parlavamo di canzoni, di poesie e di politica. Non avevamo progetti, nessuna road map da seguire. Non sapevamo dove stavamo andando, ma molti di noi si guardavano attorno cercando di capire il senso delle cose. Imparammo a non avere paura” [Havens with Steve Davidowitz, They Can’t Hide Us Anymore, New York, Avon, p. 30].
Era la culla dell’arte americana, un luogo dove il giovane di colore Cassius Clay poteva recitare la sua poesia Bitter End. Un luogo dove tutte le culture del mondo trovavano residenza: irlandese, balcanica, israeliana, russa, caraibica.
Ed è qui che Odetta compie la sua trasformazione da cantante tradizionale a folk singer, è qui che la sua voce diventa una voce politica, una voce che educa e istruisce. La voce di una storica, di una ricercatrice, di una studiosa. “Sono una storica della musica – dice. – E sono stata fortunata con la musica folk. Con essa canto il mio insegnamento e la mia predicazione, la mia propaganda” [Mattew Frye Jacobson, One grain of sand, p. 90].
L’inizio della sua carriera è segnato, da una parte, dall’accentuarsi della Guerra Fredda e dall’altra, dall’avvio del Movimento dei Diritti Civili. Lei è una giovane studentessa di musica quando Winston Churchill, nel 1946, tiene il famoso discorso della cortina di ferro sulla divisione dell’Europa. Va in scena con lo spettacolo Finian’s Rainbow quando l’Unione Sovietica testa la sua prima bomba atomica; intraprende la sua carriera folk quando scoppia il caso Brown vs Board of Education (Brown contro l’ufficio scolastico), sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, pubblicata il 17 maggio 1954, che dichiara incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Registra il suo primo album al Tin Angel di San Francisco, nel 1955, agli inizi della guerra in Vietnam.
Poco dopo è a New York, dove entra in contatto con la comunità locale di artisti e intellettuali, tra cui l’etnomusicologo Alan Lomax. Qui viene scritturata al Blue Angel Folk, dove viene notata da Pete Seeger e poi da Harry Belafonte. Quest’ultimo la terrà a battesimo nel 1959 nel suo debutto televisivo, ospitandola nel programma Tonight with Belafonte. Si esibisce in varie parti del Paese, ma anche in Europa, arrivando a Stoccolma, Londra, Roma, Parigi. Inizialmente nei piccoli club fino a fare tappa nei campus universitari più prestigiosi, come Yale, Princeton, Berkeley. Dopo il debutto alla Carnegie Hall, nel 1958, canterà accompagnata dall’Orchestra Hall di Chicago, in grandi spazi da concerto come la Town Hall in New York, il Newport Festival, l’Apollo, il Monterey Jazz Festival, the Baltimore Civic Center. Partecipa alla trasmissione Dinner with the President con Judy Collins (link Patria) e Clancy Brother. Un momento culturale che di fatto anticipava il Civil Right Act che, nel 1964, dichiarava illegali le disparità nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche.
Ciò che colpisce di Odetta e che la rende così rivoluzionaria nel panorama folk, oltre alla vocalità, è soprattutto il repertorio. Odetta riprende canti della tradizione, studiandoli e analizzandoli come un’etnomusicologa. Canti che, nella sua reinterpretazione, si rivestono di un nuovo significato, immediatamente connessi alle vicende scottanti di quegli anni: le lotte per i diritti civili.
“Le canzoni popolari erano la rabbia, il veleno, l’odio mio verso ogni cosa – dice Odetta –. Sono state le canzoni che mi hanno aiutato a guarire” [Jacobson, p. 4]. Perché le hanno mostrato chi era veramente, da dove veniva, le sue radici. In quei canti lei, e le persone di colore, non erano la rappresentazione distorta dalle leggi razziali Jim Crow che l’America aveva prodotto. Non erano qualcosa da tenere a distanza e da segregare.
Canzoni come Midnight Special, Moses Moses, Aint’ No Grave, Ramblin’ Round Your City, One Grain Of Sand, erano un archivio di storia della cultura nera, un veicolo per comunicare messaggi rivoluzionari. Verità.
Cotton Fields, per esempio, era l’introduzione alla storia dei neri, in un tempo in cui non esisteva ancora nessuna disciplina accademica che ricostruisse quella realtà di sottomissione e povertà, e dove i libri di storia ancora spacciavano false interpretazioni di un passato nelle piantagioni fondamentalmente felice. “A scuola, mentre leggevamo qualcosa sulla schiavitù – dice Odetta – mi raccontavano che gli schiavi erano felici e che cantavano tutto il tempo […]. È stata la folk music, letteralmente la musica del popolo, le loro canzoni di dolore, cantate nelle piantagioni, i blues, le canzoni di prigionia che hanno fatto emergere tutte quelle bugie e che hanno dato sostanza a una storia diversa. Perché ciò che quella gente cantava non era certo gioia” [Jacobson, pp.11-12].
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Così, la musica folk è lo strumento per evocare un passato tenuto nascosto, mascherato, manipolato.
“La mia formazione in più ambiti è iniziata con il mio ingresso nella musica folk – continua Odetta –. Ho iniziato a studiare la storia che non ci veniva insegnata a scuola. Gli eroi di cui abbiamo appreso a scuola erano quelli che guadagnavano soldi per se stessi e stavano con i loro stivali a premere sul nostro collo. Questo è il motivo per cui le canzoni di prigionia e le canzoni di lavoro erano così significative, in un certo senso anche più delle canzoni sulla schiavitù, documentavano l’estensione della schiavitù in un periodo che alla maggior parte degli americani era stato insegnato di associare al concetto di libertà” [Jacobson, p. 23]. Ma libertà non era di certo. Erano lavori forzati quelli a cui venivano sottoposte le persone di colore: nelle miniere di carbone, nella costruzione di tunnel per le autostrade della Georgia, nei campi di cotone dove i loro antenati avevano già lavorato come schiavi.
L’orgoglio di Odetta per l’arte nera, la sua determinazione, la sua rabbia e la sua sfida ai bianchi di riconoscere l’identità delle persone di colore, chi erano e chi erano state, ha enormemente influenzato il movimento di riscatto dell’orgoglio nero. Serviva onestà e coraggio per portare avanti quella battaglia. Il coraggio di affrontare la violenza dei gruppi organizzati come il Ku Klux Klan che nel 1965 uccideva la giovane attivista per i diritti civili Viola Gregg Liuzzo durante una manifestazione in Alabama. Il coraggio, per una afroamericana di ventitré anni, di esibirsi di fronte a una platea quasi esclusivamente bianca a cui cantare canzoni come Take This Hammer, prison song registrata da John e Alan Lomax, sul tema dell’evasione e dell’antirazzismo;
o come Water Boy, lamento delle piantagioni di cotone;
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Another Man Done Gone, altra celebre prison song incentrata sulle chain gang, le squadre di lavoratori forzati alla catena.
Canzoni che evocavano la schiavitù e le mancate promesse di emancipazione.
Ma erano necessarie. “Noi sappiamo di che cosa stai parlando”, le griderà una donna nera dal balcone dell’Apollo Theatre ad Harlem durante una sua esibizione nel 1961. Perché nessun afroamericano poteva avere alcun futuro senza accettare il proprio passato. Accettarlo significava comprenderlo ed elaborarlo. Un passato inventato non avrebbe mai prodotto nulla di credibile. L’obiettivo era dunque quello di costruire su quella storia un universo di valori, dare a essa un senso nuovo, e così motivare persone, donne, uomini, afroamericani che, come lei, quel passato lo avevano subito e da cui ora volevano riscattarsi.
Così, Odetta si fa portavoce di una esplicita politica antirazziale, nelle scelte dei brani, nella voce profonda e gutturale da contralto, del suo essere una sorta di archivio di suoni, canti, melodie, storie, gesti capaci di far ritrovare alla gente di colore l’orgoglio delle proprie radici, della propria negritudine.
Il suo progetto è proprio quello di evocare una storia repressa di schiavitù e oppressione attraverso i canti delle piantagioni, le canzoni di prigione e quelle di lavoro. Canzoni raccolte e conservate nei libri del passato e nel racconto orale. Questo per recuperare e mettere in risalto gli aspetti più forti della creatività nera. Le canzoni di lavoro, per Odetta, erano canzoni di liberazione.
“Non è solo una cantante, ma un’educatrice” dirà di lei Richie Havens. [Richie Havens with Steve Davidowitz, They Can’t Hide Us Anymore, New York, Avon, p. 39]. Uno strumento di critica e resistenza, con un repertorio indirizzato alla storia dell’ingiustizia sociale del popolo nero e la consapevolezza di ispirare movimenti politici radicali.
“Il dolore della sua razza è nella sua voce”, scriverà una rivista, nel 1959. “E anche la protesta, e la sfortuna di essere sempre una minoranza, di essere sempre contro il mondo. E l’orgoglio, anche, che promana dalla potenza vocale e fisica e dalla mancanza di vergogna. Nelle sue performance Odetta restituisce l’immagine di un popolo forte e indomabile, che si manifesta tramite suoni d’organo e i colori scuri di una cattedrale”. [Jacobson, p. 5].
Il repertorio, si diceva. La scelta dei brani è fondamentale nella politica educativa di Odetta che va alla ricerca di canti popolari capaci di trasportare verità storiche che altrimenti sarebbero state dimenticate o soppresse. I Lomax, Charles e il figlio Alan, sono tra i primi raccoglitori di ballate folk. Le cercano in tutto il Paese, le studiano, le analizzano. Catalogano quel repertorio di canti del ventesimo secolo in cui si sente l’eco della schiavitù del popolo nero. Da puristi, credono nella loro restituzione filologica e li riproducono con fedeltà all’originale. L’approccio di Odetta è differente: ascolta un canto, lo studia, lo contestualizza e poi lo rielabora, lo fa suo, reinterpretandolo. Odetta, infatti, è la sofferenza degli schiavi, quando canta; Odetta è il dolore dei suoi antenati nelle piantagioni di cotone; Odetta è il lamento di chi è privato di libertà, umiliato e sottomesso. Odetta va oltre la mera esecuzione.
Numerose sono le incisioni in cui la sua voce intona le ballate più tradizionali, i blues, gli spirituals, i canti di Natale, le canzoni folk, ma è con l’album One Grain of Sand che Odetta lascia quell’orma sulla quale cammineranno in tante: Joan Baez, Miriam Makeba, Judy Collins, Nina Simone, Janis Joplin, Tracy Chapman.
L’album esce nel gennaio 1963 per la Vanguard. Un anno fondamentale, il 1963. Centesimo anniversario del Proclama di Emancipazione emesso da Abraham Lincoln che decretava la liberazione di tutti gli schiavi; anno di scontri tra bianchi e neri, tra nord e sud del paese in una vera e propria guerra civile; scontri che coinvolgono il Movimento dei Diritti Civili con la nascita di associazioni non violente, come la Birmingham Company, che si battono contro la segregazione. Anno di manifestazioni pacifiche, sit-in, cortei per le strade; anno del discorso di Martin Luther King alla Marcia su Washington del Movimento per i Diritti Civili. Con il suo I have a dream affermava l’orgoglio nero e il desiderio di libertà e uguaglianza per tutti i popoli. A quella manifestazione prendono parte in tanti: Bob Dylan canta Only a Pawn in Their Game, Peter Paul and Mary cantano Blowing in the wind e If I Had a Hammer. Mahalia Jackson intona How I Got Over e I’ve been Buked and Scorned. Marian Anderson canta He’s got the whole word in his hand. E poi c’è Joan Baez con We shall overcome e Oh freedom, canto ripreso da Odetta che ne intona la seconda parte Oh come and go with me e la terza I’m on My Way. Freedom Trilogy.
E poi, nel giugno di quell’anno John F. Kennedy parlava alla tv dalla Sala Ovale illustrando quello che sarebbe stato l’obiettivo dell’anno successivo, ovvero il Civil Rights Act. Ma intanto le bombe dei suprematisti bianchi uccidevano giovani attivisti davanti alla Chiesa Battista di Birmingham.
One Grain Of Sand non è altro che una testimonianza commovente del clima di speranza e distruzione che si respirava in quel momento. Il titolo viene da una ninna nanna di Pete Seeger, scritta per la figlia nel 1956. L’autore esprimeva umiltà e stupore di fronte alla grandiosità della nascita: One grain of sand /One drop of water in the deep blue sea /One grain of sand/ One little you, one little me (Un granello di sabbia / Una goccia d’acqua nel mare blu profondo / Un granello di sabbia / Un piccolo tu, un piccolo me N).
Una canzone che Odetta replica restando fedele all’originale, onorando anche lei l’immensità dell’amore che lega ogni essere umano.
Ma l’album è soprattutto una raccolta di canti di lotta, dolore, rabbia e resilienza del popolo afroamericano fin dall’emancipazione. Organizzato in quattro parti, in ognuna una particolare canzone è come un “granello di sabbia”, minuscola entità nell’ immensità della storia più grande di cui è, comunque, tassello fondamentale.
Un grande archivio storico in cui emergono quattro temi: la prigione, la coffeehouse, la chiesa e la piantagione. Uno spaccato di vita afroamericana, di pensieri, storie ed esperienze politiche tra gli anni dell’emancipazione e la marcia su Washington. Che si snoda tra una serie di eventi tragici e luttuosi e azioni di riscatto: 1955 l’uccisione di Emmet Till; 1956-57 il boicottaggio del Montgomery Bus; 1960 il movimento del sit-in e le azioni del comitato non violento degli studenti, SNCC; 1961 gli attivisti di The freedom riders e nel 1963 la marcia su Washington per la libertà con la piena affermazione del Movimento per i Diritti Civili.
Cool Water è la ripresa di una cowboy song del 1930, riproposta come ballata per i diritti civili. La storia semplice di un uomo e del suo cavallo che cavalcano in un deserto del Southwestern diventa una scena profetica di chi cerca acqua per purificarsi. Dove la metafora dell’acqua rimanda a passaggi tratti dalla Bibbia, già presenti nei discorsi pubblici delle manifestazioni per i Diritti Civili. Come quello di Martin Luther King, che cita il Libro di Amos dell’Antico Testamento: “Noi non saremo soddisfatti fino a che un negro in Mississippi non potrà votare e che un negro in New York non creda ci sia niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo soddisfatti fino a che la giustizia rotolerà giù come cascate d’acqua e il diritto come un fiume possente”.
“Il nome della canzone è Cool Water – dice Odetta introducendo il brano durante un concerto nel club svedese The Best Of Harlem (1976) – e io intendo acqua o acqua fresca per significare quello che io intendo che significhi. E quello che io voglio che significhi è ciò di cui ho bisogno, ed è quello che voglio, ed è ciò per cui sono disposta a difendermi e lottare” [Jacobson, p. 40].
Una rielaborazione che svela il senso del lavoro che la musica popolare stava svolgendo in quegli anni, con le coffeehouses come laboratorio culturale e politico sui temi dell’integrazione sociale e razziale. Canzoni come atti di protesta, azioni rivoluzionarie, strumento di lotta.
Moses Moses sta sul confine sfocato tra il sacro e il profano, portando il discorso sui diritti civili di nuovo nel vasto corpo delle narrazioni bibliche. Odetta la riprende da una versione registrata da Alan Lomax raccolta nel 1935 dai Georgia Sea Island Singers. Con un tempo lento di nenia. Lei lo velocizza e questo aggiunge una maggiore pressione che evoca senso di tensione e ansia. Il suo canto rende irrequietezza, fermento, inquietudine. La natura di questa versione mette in connessione la fede, il racconto biblico con la storia presente, le violenze degli scontri, le bombe, gli spari per le strade, la paura.
Cotton fields e Boll Weevil evocano la condizione di schiavitù subita nel Sud del Paese, quel South che diventa simbolo di asservimento e sottomissione. Boll Weevil, insetto nocivo che infesta semi e piante, è metafora dell’uomo bianco, allo stesso modo pericoloso. Canto tradizionale noto dal 1910, diventato traditional folk con Gid Tanner nel 1924. Le successive versioni di Vera Hall e quella di Leadbelly, registrata da Alan Lomax nel 1934, sono quelle alle quali Odetta si ispira.
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Midnight special inaugura il genere della canzone di prigione e guarda alla storia della giustizia penale del Sud post-emancipazione, da cui è emersa.
É una delle canzoni più note di Odetta. Ripresa da una registrazione originale di Alan Lomax presso l’Angola Prison in Louisiana nel 1934. Cantata da Leadbelly, riarrangiata nel 1960 dai Creedence Clearwater Revival nell’album Willy and the Poor Boys, a queste sono seguite numerose altre versioni. Ma quella di Odetta è quella che ci si porta dentro per sempre dopo averla ascoltata. La canta con tono grave, che la riporta al passato da cui è venuta: il sistema penale degli inizi del ventesimo secolo fondato su un’idea di lavoro che attingeva alla realtà ottocentesca della schiavitù. Una canzone di prigione che mescola la disperazione e la speranza che nasce dal luccichio lontano di un treno (il Midnight Special, lo Speciale di mezzanotte) nel buio: Let the Midnight Special shine her light on me/ Let the Midnight Special shine her ever-lovin’ light on me (Lascia che il bagliore dello Speciale di Mezzanotte risplenda su di me / Lascia che il bagliore dello Speciale di Mezzanotte risplenda su di me la sua luce sempre amata).
Odetta mostra il suo talento nel comprendere il senso del testo, studiando le versioni originali. Ma non è semplicemente una studiosa che sa riprodurre ciò che ascolta, è una fine traduttrice che sa dialogare con quel repertorio facendo emergere il contesto entro il quale quei canti sono nati. La profondità della sua voce scura, in contrasto con i suoni più brillanti di Leadbelly evoca una realtà di sofferenza che trasforma il canto in un lamento. Ciò esalta il senso del dramma, il senso del lutto proprio delle prison songs.
Un’altra prison song incisa da Odetta è Roll on, Buddy, in cui si narra una giornata di estenuante lavoro della gente di colore sotto l’oppressione di un capo. Nel finale la canzone allude a un antico mito secondo cui gli schiavi, incoraggiati da un sobillatore, sarebbero riusciti a sfuggire alla brutalità della schiavitù grazie a miracolose ali che li avrebbero riportati di nuovo in Africa. E anche qui la consistenza, la profondità, la grana cupa, il lamento roco che Odetta produce è il suono di una voce che trasmette un fardello, una pena. Quella del suo popolo in schiavitù, nei lunghi secoli delle colonizzazioni e delle umiliazioni in terra americana.
E poi Ain’t no Grave. Qui il senso religioso e politico assumono una nuova dimensione. Questa è una di quelle canzoni che si possono definire “di speranza”, ma cantarla è come portare sulle spalle una pesante zavorra. Scritta nel 1934 da un predicatore bianco della Virginia durante la sofferenza per la tubercolosi, è una white song che entra nel repertorio black grazie all’interpretazione church-rocking di Bozie Sturdivant registrata da Alan Lomax in Clarksdale, Mississippi, nel 1941 e a quella successiva di Sister Rosetta Tharp del 1946. Odetta parte da qui, il ritmo della sua chitarra tiene fede alla versione di Rosetta, mentre la straordinaria gamma di colori della sua voce si ispira alla versione di Sturdivant. Ma la voce di Odetta fa qualcosa di più. Benché il testo sia chiaramente un canto di passione e di fede, lei non duetta con gli angeli. Invece di esibire una voce cristallina ed eterea Odetta intona il canto con suono portentoso e blue. Così, canta il tormento di chi vuole risorgere dalla terra, di chi vuole alzare la testa. E lo fa con la voce potente della liberazione nera.
Nera e donna. Perché Odetta, tra le principali protagoniste del folk revival, si distingue non solo come interprete, ma anche come teorica, per le sue riflessioni e per la sua posizione femminista, in aperto contrasto con la visione di autenticità, riferita ai canti, proposta delle letture e rivisitazioni maschili.
“Odetta ha ricevuto una formazione operistica – scrive il magazine Christian Science Monitor – ma i puristi dimenticheranno subito questo titolo di sofisticazione quando la ascolteranno cantare blues come Easy Rider o canti Calypso come Shame and Scandal, canzoni di carcere come Another Man Done Gone e spirituals come Joshua e Glory Glory. Lei è l’artista folk con importanti capacità interpretative e un’autenticità insolita” [One grain of sand, p. 34]. Un’autenticità che non aveva nulla a che fare con la fedeltà filologica, ma che era il risultato di scelte musicali, vocali, che sapevano rendere al meglio l’aspetto psicologico, sociale, emozionale di quell’archivio di canti.
Un esempio di questo è certamente la sua versione del brano di Woody Guthrie Ramblin’ Round Your City sul tema dell’espropriazione. Odetta, in contrasto con le note più chiare e il ritmo swing della versione di Guthrie, con il suono cupo della sua voce, l’ossessionante linea melodica e lo stile convulso con cui suona la chitarra rende con maggiore immediatezza il senso disperato di chi subisce un’ingiustizia. Con Odetta la melodia diventa un’esperienza drammatica che svela le verità che l’America non voleva vedere.
Odetta è stata una studentessa di musica per tutta la vita, ricevendo una formazione classica in gioventù, conseguendo una laurea presso il Los Angeles City College in musica classica e commedia musicale, e in seguito conducendo ricerche nelle raccolte popolari di canti della Library of Congress che poi diffuse e insegnò presso varie Università nei campus della California. Un vero lavoro da storica, non solo musicale, ma con rimandi al versante sociale e politico di cui quell’archivio di canti poteva essere fonte.
Tra gli ultimi lavori, il cd To Ella (registrato dal vivo e dedicato alla sua amica Ella Fitzgerald), pubblicato nel 1998 su Silverwolf Records. E poi numerosissimi premi: il 29 settembre 1999, il presidente Bill Clinton le consegna il National Medal of Arts, mentre nel 2004 riceve il Visionary Award al Kennedy Center dopo una performance tributo di Tracy Chapman. Nel 2005, la Library of Congress la premia con il Living Legend Award.
Il film documentario del 2005 No Direction Home, diretto da Martin Scorsese, mette in luce la sua influenza musicale su Bob Dylan (link Patria), soggetto del documentario. Il film contiene una clip di archivio di Odetta che canta Waterboy in tv nel 1959, così come i suoi Muleskinner Blues
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Nell’estate del 2008, all’età di 77 anni, lancia un tour in Nord America dove canta i classici Somethimes I feel like a motherless child,
This Little Light of Mine (I’m Gonna Let It Shine);
In the house of the rising sun;
The Bourgeois Blues di Leadbelly.
Ma sarà anche in Italia all’Arena Sferisterio di Macerata per Musicultura 2008 dove canta Something Inside So Strong.
Il suo ultimo grande concerto si tiene al Golden Gate Park di San Francisco il 4 ottobre 2008, per l’Hardly Strictly Bluegrass Festival. Morirà per malattie cardiache il 2 dicembre 2008, a New York City.
Odetta resta un esempio di coraggio e creatività, che ha forgiato l’arte del canto e ne ha fatto uno strumento per affrontare le sfide di un momento politico drammatico e doloroso. Ha trasformato così la sua musica in un archivio, in un disco, in una risorsa comune, in una dichiarazione di giustizia, in una pedagogia.
“Nessuno che è arrivato dopo di lei ha provato a cantare come Odetta – dirà Joan Baez –. Perché non ne valeva la pena. Era impossibile” [Jacobson, p. 117]. Ma le sfaccettature della sua voce, il suo tocco, la serietà del suo proposito educativo hanno cambiato ogni artista che l’ha ascoltata: “La musica folk – ha detto – è parte di ciò che la nostra vita è. È la musica che è venuta fuori dalle persone semplici e di tutti i giorni […]. Siamo noi come luci incandescenti”.
Qui live, in un concerto del 1964
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
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