Siamo nel 1947 e Italo Calvino nel suo libro d’esordio Il sentiero dei nidi di ragno narra la propria esperienza di guerra, il dolore, la sofferenza, e si interroga su come affrontare la tematica, impegnativa e urgente, della lotta antifascista: “Al tempo in cui l’ho scritto”, dirà poi nella prefazione alla seconda edizione, “creare una ‘letteratura della Resistenza’ era ancora un problema aperto, scrivere ‘il romanzo della Resistenza’ si poneva come un imperativo”. Bisognava trasferire in parole quella storia, perché fosse compresa, divulgata. Ma cosa raccontare? Come raccontare? Da quali prospettive?
Calvino lo ammette: “Per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema decisi che l’avrei affrontato non di petto, ma di scorcio”. Ecco la scelta di un punto di vista insolito, quello di un bambino che vive la storia partigiana con sguardo fantasioso e ingenuo. Uno sguardo che ammanta di stupore e di magia il racconto di quella sanguinosa lotta al nazifascismo. Filtro davvero inusuale per mettere in scena vicende di guerra, ma questa scelta evita all’autore di cadere in una narrazione retorica, fatta di celebrazioni trionfalistiche, come anche di scivolare nella cronaca fin troppo didascalica. Ma soprattutto Calvino crede che la letteratura debba esprimersi in libertà, senza alcuna vocazione propagandistica e che, per questo, non possa farsi strumentalizzare da condizionamenti politici.
Così, in quel romanzo, dipinge un quadro d’insieme della Resistenza che, però, rispecchia anche la sua poetica. Ne esce un’immagine anticonvenzionale e antieroica della realtà partigiana in cui anche “in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché ha agito un’elementare spinta di riscatto umano”.
Ecco la chiave del romanzo.
“C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra.
Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro […] va perduto, tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi.
L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi”.
Siamo nel 1959 e il clima è accesissimo, tra poco le stragi di Genova e di Reggio Emilia, nel tambroniano luglio 1960, metteranno in scena un nuovo violento scontro politico e sociale tra fascisti e antifascisti. Si sente da più parti l’urgenza di tornare a parlare di Resistenza: quella storia, i valori che la permeano devono restituire un senso a quel presente, così intriso di passato.
“Mai come ora”, dirà Togliatti, “si è sentito quanto profondo sia il legame della grande maggioranza del popolo italiano con gli ideali per cui si combatté contro il fascismo, nel nome dei quali si è instaurata la Repubblica. Esso è così profondo che spinge a superare, anche se non completamente, per lo meno in grande parte, le vecchie superstizioni anticomuniste per ritrovare nell’azione i motivi del contatto, dell’intesa, della collaborazione tra tutti coloro i quali vogliono un rinnovamento democratico dell’Italia, tra tutti coloro che rimangono fedeli alla causa dell’antifascismo e della Resistenza”.
A Torino ci sono i Cantacronache, un gruppo di artisti, musicisti, cantautori, che sta cercando una strada alternativa per diffondere i valori dell’antifascismo. E grazie all’amicizia con Sergio Liberovici, musicista e compositore, che come Calvino lavora alla redazione de l’Unità, lo scrittore si lascerà convincere a collaborare con il gruppo e anzi verrà preso da “autentico entusiasmo” tanto da partecipare perfino al canto in coro con voce baritonale durante alcune esibizioni.
Ma soprattutto scriverà canzoni, metterà la sua scrittura a disposizione del moderno strumento della comunicazione, più veloce di un romanzo, più immediato, facile da comprendere. Adesso, alle soglie degli anni 60, con la nascente industria discografica, con le evoluzioni in campo tecnologico e l’ammodernamento degli apparecchi di riproduzione, con l’arrivo del 45 giri, la diffusione delle radio e delle televisioni, adesso le parole di una canzone arrivano alla gente con una velocità disarmante rispetto a quelle di un romanzo. C’è la musica che le sorregge, un buon ritornello, una melodia facile. Non è detto che per forza questi brani debbano essere commerciali, o avere una natura “gastronomica”, di prodotto industriale che non persegue “nessuna intenzione d’arte, ma il soddisfacimento delle richieste del mercato” (vedi Umberto Eco, Apocalittici e integrati). Ci sono canzoni che, benché riprendano la struttura classica sanremese strofa/ritornello, con la rima baciata finale, lasciano il segno.
Così Calvino fissa nero su bianco le parole di Oltre il Ponte (https://soundcloud.com/storicamente/oltre-il-ponte), semplice e complessa allo stesso tempo. La voce è quella di un anziano partigiano che racconta a una giovane che cosa è stata la Resistenza. Quella vicenda diventa un bagaglio di valori e di ideali da tramandare alla nuove generazioni: è la storia di scelte coraggiose, di voglia di riscatto e di libertà.
O ragazza dalle guance di pesca,
O ragazza dalle guance d’aurora,
Io spero che a narrarti riesca
La mia vita all’età che tu hai ora.
Coprifuoco: la truppa tedesca
La città dominava. Siam pronti.
Chi non vuole chinare la testa
Con noi prenda la strada dei monti.
La musica di Sergio Liberovici conferisce al brano un tono maestoso e marziale. Il tema, invece, è reso con sfumature delicate, lievità e semplicità d’immagini: un ponte è il simbolo che divide la guerra dalla pace, la vita dalla morte, con la speranza che l’amore vinca su ogni altro tentativo di distruzione.
Avevamo vent’anni e oltre il ponte
Oltre il ponte che è in mano nemica
Vedevam l’altra riva, la vita,
Tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte,
Tutto il bene avevamo nel cuore,
A vent’anni la vita è oltre il ponte,
Oltre il fuoco comincia l’amore.
Cantare Oltre il ponte significa raccontare un passaggio di consegne, testimoniare un’urgenza: le nuove generazioni, quelle dei ventenni, quelli che “non sanno la storia di ieri”, devono comprendere il senso di quell’esperienza da chi l’ha vissuta, per essere pronti a combattere sul fronte dell’impegno sociale e politico, nel mantenimento delle libertà democratiche faticosamente conquistate.
Calvino ha fatto della canzone un emblema, un monito che richiama perentoriamente alla necessità di tramandare ai posteri una storia che rischia di scomparire, quando nessuno sarà più a testimoniarla. Un messaggio che attraversa stagioni, decenni, e mode e che arriva attraverso un linguaggio semplice e allo stesso tempo penetrante. Non è un caso che diversi musicisti ne abbiano raccolto l’eredità, proponendola in versioni riarrangiate, come quella del gruppo Combat Folk Modena City Ramblers . Questi hanno rivestito il pezzo di sonorità irlandesi, consone alla loro personale ricerca musicale e nel 2005 lo hanno inserito nel loro album Appunti Partigiani.
https://www.youtube.com/watch?v=7-Kfr57Zhy0
Il messaggio, però, resta lo stesso: le nuove generazioni devono sapere, che nessuno dimentichi mai. E se una canzone, in questa trasmissione di significati e di emozioni, arriva prima di un romanzo, canzone sia.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato giovedì 5 Novembre 2015
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