“Ho creduto a lungo che la canzone fosse una fuga. Avevo torto! Se la canzone non è un’espressione, un’espressione di sé, allora è meglio non cantare per niente”.
Dalida
Dalida, ovvero Iolanda Cristina Gigliotti, diva internazionale, era nata in Egitto, al Cairo, ma aveva origini italiane. Il nonno, Giuseppe Gigliotti, sul finire dell’Ottocento, dal paesino di Serrastretta in Calabria, aveva deciso di emigrare. L’Italia offriva solo miseria e disoccupazione. I più ricchi acquistavano i biglietti per l’America, gli altri guardavano al Mediterraneo, meno lontano e più accessibile. L’Oriente era l’avvenire. Nel 1893, Giuseppe realizzava il suo sogno: raggiungeva Il Cairo, in breve tempo diventava un sarto esperto e sposava Rosa, con la quale metteva al mondo tre figli: Venicio, Eugenio e Pietro. Ma andò incontro a una morte prematura. Rosa aveva già intrapreso una relazione con un altro uomo. Era una donna frivola, vivace, focosa. Si sentiva un’artista, amava cantare in pubblico, ma con la morte del marito avev deciso di tornare a prendersi cura dei figli.
Il più giovane Pietro era fantasioso e creativo come lei. Dall’età di quattro anni suonava il violino, studiava assiduamente, si era diplomato fino a diventare uno dei migliori musicisti della capitale. Aveva fatto innamorare la bella Giuseppina, giovane italiana fuggita dall’Italia per scappare ai pettegolezzi delle malelingue. L’uomo che l’aveva sedotta e conquistata l’aveva poi abbandonata a se stessa, una volta incinta. Giuseppina, abile sarta, era la moglie ideale per il giovane Pietro, ora primo violino dell’Opéra. Nel quartiere popolare di Shubra i Gigliotti allevavano la loro famiglia: Bruno, il primo figlio, nome d’arte Orlando, e Iolanda Cristina nata il 17 gennaio 1933. Iolanda aveva tratti orientali, capelli neri, viso scolpito, ma un’infezione agli occhi la condannava già bambina a una forma di strabismo e a una lunga serie di dolorose operazioni.
All’Istituto Maria Ausiliatrice le suore francescane le insegnavano l’arabo letterario, il francese, l’italiano, l’inglese. Il mondo culturale egiziano in quegli anni viveva una stagione di grande fervore, soprattutto il cinema grazie alla creazione dello Studio Misr nel 1935. Si realizzavano film in quantità, aprivano sale di proiezione. Iolanda cresceva nell’ammirazione per le grandi dive, come l’egiziana Oum Kaothoum, e le star hollywoodiane, da Ava Gardner a Rita Hayworth.
Ma nel 1940 la guerra bussava alla porta degli italiani d’Egitto. Considerati appartenenti allo Stato fascista di Mussolini dovevano essere eliminati. Il re Faruq, sollecitato dagli inglesi, aveva gettato il suo Paese nel baratro della seconda guerra mondiale. Pietro è portato via da casa. Insieme a un folto gruppo di italiani che dell’Egitto avevano fatto una seconda patria. Di loro per giorni non si saprà nulla. Pietro viene imprigionato ai confini del deserto. Solo quattro anni dopo, con la liberazione da parte degli inglesi, potrà fare ritorno a casa.
L’Opéra aveva chiuso i battenti, e a lui non resta che suonare nei cabaret le canzonette alla moda, che detesta. Morirà a quarantuno anni per un ictus. Iolanda non ha neppure tredici anni e la sua adolescenza è turbata dalla figura paterna, assente per lungo tempo e, quando presente, spesso collerico e di umore alterno. Odiare il padre o venerarne il ricordo, resterà un dubbio cocente lungo l’intera esistenza.
Il Cairo è sconquassato da sommosse anti-britanniche. Con il colpo di stato di Nasser e la proclamazione della repubblica, il re Faruq fugge dall’Egitto. Sotto la guida del politico e militare nazionalista il popolo viene esortato a prendere in mano le redini del Paese. Gli europei che da tempo avevano cresciuto lì le loro famiglie e insediato le loro attività saranno costretti ad andarsene, su ordine dell’unità araba. Iolanda, egiziana di origine europea, non pensa a questa drammatica situazione, ascolta le canzoni di Édith Piaf, Juliette Gréco e Charles Aznavour, immaginandosi artista a Parigi.
Il trampolino di lancio per una carriera nello spettacolo è un concorso di bellezza che incorona Jolanda Miss Egitto e che le apre le porte del cinema. Niazi Mostafa le offre il ruolo di donna seduttiva che canta in italiano Desiderio di un’ora, nel film “Un bicchiere, una sigaretta” (Une verre, une cigarette, 1955) e le suggerisce il nome d’arte Dalila.
Un regista americano la vuole per la parte della controfigura di Rita Hayworth nel film “Giuseppe e i suoi fratelli”, mentre il francese Marco de Gastyne le propone una parte in “Le masque de Toutankhamon”. Le consiglia poi di spostarsi a Parigi, dove la sua immagine avrebbe avuto grande successo. Nel 1955 Iolanda festeggia il compleanno in un piccolo alloggio nelle vicinanze degli Champs-Elysées, sola, lontana da casa, alla ricerca di una parte, un ruolo, una comparsata.
Viste le difficoltà, per aumentare le possibilità di lavoro De Gastyne le consiglia di cantare. La Francia del dopoguerra è scossa da una viva passione per le voci dall’accento etnico, dalla voglia di dimenticare, di cantare e di ballare al ritmo delle canzonette leggere. Qualche lezione di canto serve a confermare un grande talento. Jacques Paolo, che dirigeva il Villa d’Este, in un elegante quartiere parigino, per primo le propone il contratto per un avanspettacolo, solo qualche canzone in apertura delle esibizioni di Juliette Gréco o Charles Aznavour. In poco tempo il pubblico comincia a interessarsi alla sua voce e lo scenografo Alfred Machand le suggerisce di adottare Dalida come nome d’arte. Immediato come uno slogan, facile da memorizzare.
La grande occasione sarà un’esibizione al cinema Olympia diventato, nel 1954, un music hall. Il direttore Bruno Coquatrix, aveva in progetto di scovare talenti, tra questi vi era Dalida che, nel 1956, su quel palcoscenico affascina i presenti interpretando L’étranger du paradis, il successo di Gloria Lasso. A quella serata assistono due persone che segneranno il destino dell’artista. Eduard Rouault (Eddy Barclay), che aveva fondato nel 1951 la prima casa di produzione discografica francese e Lucien Morisse, che si occupava di Europe 1, una giovane radio in ascesa. Si decide di far incidere a Dalida il suo primo disco nel nuovo formato di 45 giri, contenente la versione francese di Barco negro, successo di Amàlia Rodrigues, diventata Madona.
https://www.youtube.com/watch?v=FnBI33YVm2I
E poi Flamenco bleu,
Guitare flamenco
e Mon coeur va.
Nel frattempo Dalida è sottoposta a una serie di interventi: il nuovo prodotto da lanciare sul mercato deve rappresentare l’ideale della perfetta donna francese. Vanno corrette l’andatura, le movenze, le intonazioni, il trucco, l’abbigliamento. La canzone Madona verrà mandata a ripetizione sulle onde di radio Europe 1, mentre sulle copertine dei dischi appare il volto della cantante in primo piano. Per i giornalisti sarà subito l’“Orchidea nera”: spessi ricci scuri, nero sugli occhi, bocca carnosa, collo scoperto, la seduzione in persona. Quel volto incuriosce e la voce, importante, colpisce. Altre canzoni vengono incise, tra cui Le Torrent
e La Violetera.
Canzoni romantiche, che fanno sognare i francesi. Il fratello Orlando porterà questi dischi a Radio Cairo. In tutta Shubra e oltre risuona il canto di Iolanda Gigliotti, ormai per tutti Dalida.
Un successo strabiliante arriva dall’adattamento francese di una canzone napoletana, Guaglione, un brano di Marino Marini che per Dalida diventerà Bambino.
Lanciato alla radio a tutte le ore del giorno, raccoglie un pubblico sempre più vasto che, nel 1957, si innamora della canzone e dell’artista. Aprirà un concerto di Aznavour e sarà al Bobino, prima di partire per una tournée estiva. Poi all’Olympia, in apertura a Gilbert Bécaud. Per restare sull’onda del successo registra nuovi pezzi tra cui Quand on n’a que l’amour, canzone di Jacques Brel, che svelava la sua straordinaria e naturale attitudine di interprete della canzone d’autore francese.
Dall’Italia arriva un altro successo con Gondolier.
Tra il Paese dei nonni e la Francia, le sue melodie conquistano tutti. Si cantano per le strade, sul posto di lavoro, nelle case. Le jour où la pluie viendra di Bécaud,
Histoire d’un amour adattamento di una canzone latino americana con parole di Charles Aznavour, autore per lei molto proficuo;
Le gitans,
e Come prima di Tony Dallara, salgono ai primi posti delle classifiche.
Il talento era così splendente che nel 1958 Dalida riceve l’ingaggio come artista principale per esibirsi al Bobino. “La canzone che incanta ha la sua stupefacente cantante. Chioma alla Sansone e una voce capace di far tremare il soffitto di un music hall” scrivessero “Le Figaro”.
“La voce del secolo” titola il “Journal d’Egypte”. Nel 1959 a Parigi, Bruno Coquatrix impone un nuovo tipo di spettacolo intitolato “Music-hall juke box”, una serata di gala in cui Dalida interpreta nuovi successi. Capolavori della canzone popolare italiana come “Ciao, ciao bambina” di Modugno.
o Love in Portofino di Chiosso e Buscaglione,
e canzoni scritte per l’album Le Disque d’or de Dalida come Tout l’amour, Ce sarait dommage
o La chanson d’Orphée, accompagnata da una grande orchestra.
Così, la sua voce irrompe da tutti i juke box d’Europa. Con nuovi successi italiani come: “O sole mio”
la versione francese di Romantica
e C’est un jour à Naples,
altri ispirati alla Spagna come L’Arlequin de Toléde,
De Grenade à Seville, affermandosi con un’identità italo-ispanica che si arricchiva di sonorità brasiliane con Dans les rues de Bahia.
Il 1960 è una svolta nel mondo musicale: le nuove generazioni sono attratte dalla musica d’oltreoceano, il rock di Bill Haley e di Elvis Presley dall’America invade l’Europa. Così, per stare al passo, Dalida registra Itsi bitsi petit bikini, una celebre canzonetta ritmata.
Ma non ama troppo questo genere leggero e preferisce cantare canzoni come Milord, di Moustaki, nella versione in italiano.
Il successo comunque si amplifica e anche nella vita sentimentale Dalida corona il sogno del matrimonio con Lucien Morisse. Uno degli amori destinati a un epilogo drammatico. Poco dopo, Jean Sobieski, un pittore polacco incontrato al festival di Cannes, la affascina con i suoi dipinti e i modi aristocratici. Si odierà per il tradimento inflitto al marito, lasciandolo nella disperazione. I giornali nel 1961, danno in pasto la nuova storia d’amore della grande diva. Che in poco tempo appare superata musicalmente dalle voci giovani yé-yé e della nouvelle vague, come Johnny Hallyday e Richard Anthony. Dalida è diventata presto fuori moda, la voce del passato.
Per restare nell’agone registra il twist Achète-moi un juke box con le parole di Charles Aznavour, in cui gioca con ironia sulla competizione con le nuove voci.
Ma non è questa la sua strada, il suo mondo è quello delle canzoni più autentiche, da portare in scena nei templi della musica, come l’Olympia che la vede poco dopo tornare a esibirsi come star principale.
La stampa è inclemente, le fonti raccolte da David Lelait-Helo nel volume “Dalida. Da una riva all’altra”, raccontano di quanta pressione Dalida dovette subire a ogni passo della carriera, costantemente bersagliata dalla stampa, data per spacciata, ormai a fine carriera. In un’intervista del 1961 per la RDS Dalida affronta il rapporto con la stampa scandalistica.
All’Olympia in diversi giungono quasi solo per vederla cadere sotto il peso dei fischi e delle critiche impietose. Nel camerino le arriva un mazzo di fiori che porta un messaggio terribile: “Alla morte della canzone! Viva Edith Piaf!”. Charles Aznavour è lì per applaudirla, quando interpreta una canzone nuova, non un ritornello alla moda, non una canzonetta, ma una confessione: Je me sens vivre parce que je t’aime che è un trionfo, tra gli applausi di un pubblico ora osannante che le perdona anche il tradimento.
Soffoca il rimpianto alla notizia del matrimonio di Morisse, nel 1962, rintanandosi nella nuova casa parigina di rue d’Orchampt. Per lei ogni passione sbiadisce quasi subito e l’amore le appare sempre più irraggiungibile. Investìe tutta se stessa nel lavoro e nel 1963 estrae dal cilindro un pezzo memorabile, Amore scusami, che la incorona regina dell’estate. Dalida ritorna al suo mondo: la melodia, il testo, tutto ciò che sa resistere alle mode, guadagnandosi la fama di artista popolare.
Nel 1964 sconvolge la sua immagine presentandosi in scena con i capelli biondi. Ora è davvero l’artista francese che tutti vogliono. All’Olympia intona Le sainte Tatoche che Charles Aznavour ha appena scritto per lei, ancora un amore infelice.
“Sul trono della Piaf è seduta Dalida” si legge sui giornali. La stampa, decisamente volubile, è pronta a idolatrarla o a calpestarla a seconda dell’occorrenza.
Ora è di nuovo la grande diva che affronta una tournée mondiale, esibendosi anche a Tel Aviv. Mentre i Paesi arabi minacciavano Israele, intona Hene Ma Tov, canto ebraico sulla fratellanza, tratto da un testo sacro.
In Egitto interpreta Hava Naguila, una delle più celebri canzoni popolari ebraiche che significa “rallegriamoci”.
Questo è causa di censure e boicottaggi, i dischi ritirati, canzoni bandite dalle radio, non si poteva accettare che una figlia dell’Egitto cantasse nella lingua del nemico. Ma Dalida ha una concezione del palcoscenico come di uno spazio libero. Affrancato da ogni considerazione politica, religiosa, ideologica.
Dalida canta per tutti. La danse de Zorba, il sirtaki che Mikis Theodorakis aveva composto per il film “Zorba” il greco la rende celebre in Grecia,
mentre la canzone El Cordobés dedicata al toreador più famoso di Spagna le dà grande risonanza anche in America del Sud e in Turchia.
Porta l’Italia nel mondo cantando i più grandi successi, tra cui La prima cosa bella di Nicola Di Bari,
L’ora dell’amore” dei Camaleonti,
Gli zingari, testo, tra gli altri, di Leo Chiosso,
A qui dal brano di Fausto Leali,
e si esibisce con artisti come Johnny Dorelli in canti calabro-lombardi.
Iolanda non esiste più, ora c’è solo Dalida, l’artista dalla voce grandiosa, l’immagine seducente, la diva dedita al lavoro e alla carriera internazionale che incide album su album: “Non sono sposata – dirà – il pubblico è mio marito e le canzoni sono le mie figlie”. Il lavoro occupa tutto lo spazio, anche quello degli affetti.
Nel 1966 è a Roma e un giovane talento della nuova canzone d’autore, dallo sguardo cupo e sfuggente, la colpisce come un “fulmine paralizzante”, confesserà anni dopo alla rivista “Oggi”. È Luigi Tenco, ventotto anni, orfano di padre, dedito alla musica fin da giovanissimo. Le sue canzoni sono provocatorie, politicamente schierate, disturbanti, critiche verso la società dei consumi. Trattano l’amore in maniera del tutto inedita, lontana da ogni mitologia, da ogni esotismo. Raccontano di un mal di vivere profondo. Il suo pubblico è ancora ristretto, limitato al circolo degli intellettuali, degli studenti, ma la casa discografica RCA, la stessa di Dalida in Italia, intende ampliarlo, presentandolo al Festival della canzone di Sanremo. In quell’occasione, Dalida avrebbe fatto da madrina, aprendosi a una carriera come interprete della canzone d’autore italiana.
Ciao amore, ciao è la canzone scelta per il festival. Il sodalizio tra i due, fatto di incontri, registrazioni, prove, si trasforma presto in una passione che si alimenta nel segreto. Ma la canzone non viene scelta dalla direzione del Festival che prega Dalida di optare per un altro pezzo. Lei è inflessibile: o Ciao amore, ciao o niente.
Così, la sera del 26 gennaio 1967 l’orchestra intona le note della canzone. Tenco la interpreta con il suo sguardo buio, la bocca contratta, i modi sfuggenti che lo rendono spesso distaccato dal pubblico.
Quando è la volta di Dalida, invece, ogni parola trova il suo pieno significato.
L’investimento su questa canzone è totale per Tenco, il riconoscimento della sua visione del mondo, della sua protesta contro una società che condannava gli ultimi all’emarginazione, alla miseria. La sua canzone, però, non trova l’accoglienza sperata, anzi viene esclusa. E per lo sconforto, invece di concludere la serata con la prevista cena del festival, decide di restare in hotel. Anche Dalida, poco dopo, chiede di tornare in hotel, trovarsi sola a quella cena le sembra fuori luogo. Non aspetta che di rivedere Luigi. Corre da lui, la porta della sua stanza non è chiusa a chiave. Le basta spingere per entrare. È lei a trovarlo disteso a terra, a pancia in giù. Sembra dormire. Ma quando gli prene la testa tra le mani, la camicetta si macchia di sangue. Chiama aiuto, gridando a squarciagola. Ancora non comprende. Poi è un biglietto scritto da Luigi, trovato sul letto, a svelare le ragioni del suo gesto, una pallottola sparata alla tempia. Quell’evento segna l’aggravarsi di un malessere già dentro di lei. Quella morte la priva dell’amore, come quello di suo padre, anni prima.
Tornare al lavoro avrebbe risanato le sue ferite? Un invito a partecipare a un programma televisivo in Italia le offre la possibilità di indossare di nuovo il magnifico abito di Sanremo e di interpretare Ciao amore, ciao. Ma lei si è procurata un’arma e il solo desiderio è di raggiungere il suo amato. Questa volta ci ripenserà, ma il suicidio diventerà un’ossessione costante. Sente che anche la sua morte è un grido di protesta, non verso la società o l’industria musicale, ma contro la vita. Che ogni volta le porta via le persone amate.
https://www.youtube.com/watch?v=-jK2QRTeCPY&list=RD-jK2QRTeCPY&start_radio=1
Nel 1967 torna a interpretare la canzone di Tenco, nella versione francese adattata da Pierre Delanoë.
https://www.youtube.com/watch?v=Ss5Nue5zaBo&list=RDSs5Nue5zaBo&start_radio=1
L’esibizione è un canto del cigno. Nella stanza 104 dell’Hotel Prince de Galles dove negli ultimi mesi era stata con il cantautore italiano, scrive lettere di addio e si addormenta in un sonno indotto dai farmaci. Viene trovata dalla donna di servizio, in stato comatoso. Il giorno dopo tutta la Francia apprende del proposito della grande diva di farla finita. Nessuno conosce la ragione di quel gesto.
A lei servirà un lungo percorso di convalescenza e psicoterapia per far emergere la sua parte più oscura, una sconosciuta che aveva soffocato antiche sofferenze. Le pagine di “France-Soir”, tempo dopo, raccoglieranno la confessione di una donna che riconosce il suo dolore e che decide di reagire, sciogliere il nodo che da sempre la fa sentire inadeguata, sola, con l’unico desiderio si annullarsi.
La morte di Tenco, il percorso di sofferenza e di analisi la aveva cambiata profondamente. Nella ricerca di se stessa, abbandona ogni orpello, tutti i segni esteriori di seduzione che non le appartengono più. Vuole scendere nel profondo della sua anima e da qui trovare la voce autentica. “Nell’immenso oceano della ricerca spirituale, le sue nuove canzoni sono come bottiglie lanciate nel mare”, scrive David Lalait-Helo.
Con le parole della sorprendente J’ai décidé de vivre, ritorna al suo pubblico, al palcoscenico, alla vita. Aprés un long silence/Entre la vide et moi/Aprés m’être noyée/Dans la vie sans but/J’ai décidé de vivre (Dopo un lungo silenzio/Tra il vuoto e me/Dopo essere annegata/Nella vita senza scopi/Ho deciso di vivere).
E poi Entrez sans frapper, a cui seguirono la travolgente Je reviens te chercer di Bécaud
e Loin dans le temps di Luigi Tenco, di cui Dalida firmava la versione francese, prima volta come autrice.
Canzoni come medicine per una possibile guarigione. Bruno Coquatrix mai aveva visto tanto impeto dopo la Piaf.
Da qui partirà un viaggio tra cadute e ritorni alla vita. Per quattro anni Dalida si consacra a letture di testi di Sigmund Freud, sprofondando in un lavoro di ininterrotta introspezione. E poi Jung, le poesie mistiche di Rabindranath Tagore. Per scoprire la forza dei desideri repressi. Per far rinascere la fiamma della sua arte che nel 1968 la porta a intonare, su una melodia russa, Le temps des fleurs che da il titolo al ventunesimo album.
Nel viaggio verso il suo mondo interiore incontra Arnaud Desjardins, esperto di yoga, buddismo e induismo, maestro tibetano, scrittore. Un uomo che le comunica armonia e saggezza e le apre le porte della cultura orientale, e di un nuovo amore. Un’altra relazione impossibile. Arnaud è sposato. E i suoi allievi, delusi e scandalizzati, non approvano l’interesse del grande maestro per una cantante. Fine della storia.
Torna alla musica e all’Italia con l’interpretazione di Quelli erano giorni, traduzione di Le temps des fleurs
e di Lacrime e pioggia, versione italiana di Rain and tears degli Aphrodite’s Child.
Capolavori. Ma la morte si ripresenta. Lucien Morisse, il suo primo marito, si suicida, lasciando una moglie e tre figli. A questo lutto, segue quello della madre che Dalida onora cantando, per la prima volta in televisione, ospite di L’invité du dimanche, Avec le temps di Léo Ferré.
Il tempo che non cancella il dolore e corre sempre più veloce. Lei canta Il faut du temps, Comment faire piur oublier, Diable de temps.
È una metamorfosi quella che si è compiuta nel corpo, nel pensiero, nel fondo dell’anima di Dalida quando il gelido 23 novembre 1968 appare in scena all’Olympia, dopo quattro anni di assenza dalla scena parigina. Intona Non, con la voce pura che sorge dal fondo della scena, in un corpo diventato sottile.
Lancia appelli, perché vi sia amore tra gli uomini, e pace. Poi canta Une vie di Michel Legrand e Jean Drèjac,
Chanter les voix di Michel Sardou,
Toutes les femmes du monde di Serge Lama, Avec le temps di Léo Ferré, Deux colombes di Gianni Esposito,
la versione italiana di Mamy Blue,
il folklore israeliano di Hene Ma Tov e chiude con Ciao amore, ciao. Tutti brani di grande intensità, sui temi dell’amore impossibile, della precarietà della vita, della nostalgia. Un ritorno trionfale.
Nella vita di Dalida ora si apre un capitolo nuovo, quello dell’incontro con la politica e con François Mitterrand, segretario del Partito Socialista. Invitata a cantare per le feste di partito, poi nel 1972 per il venticinquesimo anniversario della vita parlamentare di Mitterrand. L’amicizia, l’ammirazione, la stima che le viene riconosciuta, il successo nel lavoro fanno sì che in questo momento la vita di Dalida le sorrida.
Un terzo uomo fa la sua comparsa, un nuovo amore. Un soggetto indecifrabile, Richard Chanfray, convinto di essere la reincarnazione del conte di Saint-Germain. Affascinante, affabulatore, la travolge di parole e di attenzioni.
Nel 1973 nella musica di Dalida si avvicendano nuovi temi come la solitudine e l’omosessualità, in Pour ne pas viver seul, che la rendono artista icona dei diritti per le libertà di espressione, di identità e di orientamento sessuale.
Il duetto con Alain Delon Paroles, paroles, canzone originale di Mina e Alberto Lupo, le garantisce un successo fulmineo, internazionale.
Come la leggera Gigi l’amoroso che farà il giro del mondo.
E poi Je suis malade di Serge Lama, brano che racconta l’infelicità di una vita senza la persona amata, che si trasforma in una vita insopportabile.
E Il venait d’avoir 18 ans di Pascal Auriat e Pascal Sevrat, canzone che ha per tema la differenza d’età tra un giovane e una donna più matura. La canzone è sconveniente, le ricorda la breve relazione con un giovane italiano da cui era rimasta incinta, decidendo poi di abortire. Dalida non teme di affrontare argomenti tabù. Presentarli anche nel tempio della canzone, l’Olympia, lei sacerdotessa che sa svelare i profondi conflitti dell’animo umano.
Con questi ultimi brani Dalida raggiunge nel 1974 l’“Oscar mondiale del disco”, in conseguenza di un successo di vendite strepitoso. In quello stesso anno, al fianco di Juliette Gréco, Michel Piccoli e Guy Bedos si esibisce a Tolosa per la campagna elettorale di Mitterand e lo farà ancora nel 1981 a Lille in occasione del discorso del politico francese il primo turno di elezioni che vincerà il 19 maggio. Di lui apprezzava la saggezza interiore, l’onesta, le politiche sull’omosessualità, considerata non più reato. Provava amicizia, stima. Ma Dalida affermerà spesso di non voler essere etichettata, di non riconoscersi come paladina di nessuna ideologia politica. La musica, le canzoni, il palcoscenico saranno sempre uno spazio aperto, di libertà e tolleranza verso tutte le lingue, le culture, le fedi.
La capacità di far convivere canzoni su temi leggeri, evasivi, con altre, incentrate su questioni intime, il mal di vivere, l’amore non corrisposto, la trasgressione agli stereotipi, è ciò che rende l’artista straordinariamente sfaccettata, e sempre aperta a sperimentare nuove possibilità. Così, dopo essere stata la regina del twist, della canzonetta, della canzone d’autore, quando dall’America arriva la musica dance ecco che la sua versione disco di J’attendrai la rende un idolo.
Nel 1977 il palco dell’Olympia è il palcoscenico ideale dove festeggiare i vent’anni di carriera, con uno spettacolo che è il racconto delle sue mille sfumature e delle tante nostalgie. Il’y a toujours une chanson apre lo spettacolo, c’è sempre una canzone legata ai nostri ricordi.
Segue Et tous ces regards, canzone complessa, tra parlato e melodie diverse.
Titoli autobiografici, brandelli di vita, Tablées séparées, gli amori infelici e il rimpianto di ciò che non è stato.
Comme si tu étais là, dolore, assenza, speranza di incontri impossibili.
Amoureuse de la vie, perché c’è sempre una ragione per tornare a vivere.
E via tutto il repertorio, con le storie dolorose e vere che appartengono a tutti, che parlano al cuore di tante donne, deluse, non amate, abbandonate.
In quello stesso anno, con una tappa trionfale a Beirut e una serie di spettacoli ad Alessandria e al Cairo, Dalida, dopo le censure cui andò incontro, si fa promotrice di una conciliazione con il mondo arabo. Un giovane compositore egiziano riscriverà per lei le melodie e i ritmi moderni su un canto tradizionale in lingua egiziana, Salma y salama. Tradotto in tutte le lingue, avrà un successo senza eguali in Medio Oriente. La canzone, che è un inno alla pace risuonerà in aeroporto all’arrivo in Terra Santa del presidente dell’Egitto, Anwar al-Sadat, premio Nobel per la pace ex aequo con il primo ministro israeliano Menachem Begin, pel processo di pace israelo-egiziano, da loro avviato.
Dalida, voce per la pace, voce per l’unificazione dei popoli in Medio Oriente. Messaggera di libertà e tolleranza, come prima di lei Oum Kalthoum, sua figlia spirituale, così ben raccontata nel film di Michel Dumoulin Dalida pour tojours, trasmesso in quel momento alla televisione. Dalida diventa per tutti un’eroina, promulgatrice di uguaglianza e libertà. Regina d’Egitto, di cui svela quartieri, strade, la realtà del suo popolo. Intensa in teatro. (Parte prima, Parte seconda, Parte terza).
Voilà pourquoi je chante, è un’autobiografia quasi parlata, a metà tra un testamento e una preghiera. Per ricordarsi di tutte le volte che ha ricominciato, dopo ogni caduta, dopo ogni trauma, dopo ogni abbandono. Demain et dans mille ans, je recommencerai.
Il 1978 è segnato dal successo in America. New York: Carnagie Hall. “Il trionfo di Dalida è il sogno dell’UNU”, scrive “France Soir”. Perché con lei canta il pubblico in lingua araba intonando Salma ya salama e poi Helwa ya baladi (Com’è bello il mio paese).
Su La danse du Zorba, ballano i greci; quando intona Hene Ma Tov la comunità ebraica fa sentire la sua voce. Su Je suis malade si commuovono i francesi. Dalida sa coinvolgere tutti.
Il 1979 la consacra regina dello spettacolo a 360 gradi, protagonista di uno show di canzoni, balletti, costumi e scenografie in scena al Palais del Sports, più del doppio di posti dell’Olympia. Dalida è impeccabile anche in questa versione di artista dai mille talenti, che sa interpretare danze e canti con incredibile versatilità, passando dal biografico e intimo Je suis toutes le femmes,
allo standard Alabama Song di Kurt Weil, rediviva Marlene.
Icona della canzone d’autore, della dance, del twist, artista di cabaret. Et Dieu créa Dalida sarà il titolo di un album uscito tra adoranti titoli di giornali: “Dalida è la Francia profonda autentica”, “Dalida è una donna-fiamma che brucia il palcoscenico”. Nella nuova canzone À ma meniére, proclama la sua libertà.
A cinquant’anni la carriera di Dalida si completa con una serie di show televisivi prodotti da Maritie e Gilbert Carpentier e con la promozione del nuovo album Les p’tits mots che, tra musiche leggere e accordi festosi, non tralascia di far emergere la vena di malinconia e tristezza che appartiene all’artista da sempre, nelle canzoni più autobiografiche come Bravo.
Tema ricorrente, il tempo che avanza, i ricordi, la nostalgia di un mondo che non c’è più. E poi Mourir sur scéne, dialogo tra l’artista e la morte.
Sono anni di cambiamenti radicali nella società francese. Gli anni Settanta si dileguano insieme agli abiti scintillanti, gli eccessi, i balli della disco lasciando il posto a un mondo di immagini virtuali, ai video televisivi che distraggono giovani disillusi con le spille da balia alle orecchie, sconcertati e rassegnati a una vita senza futuro. Gli artisti non recitano più nei teatri, nelle televisioni spopolano le serie americane.
In questo clima desolante una notizia torna a sconvolgere Dalida. Richard Chanfray si è suicidato. Insieme alla sua ultima compagna. Tre uomini: Lucien, Luigi, Richard, uniti dallo stesso destino. I tre amori di Dalida che non hanno aspettato la fine della vita per morire. Il ricordo del suo tentativo di suicidio torna a ossessionarla.
Nel 1984 lo show televisivo Dalida Idéale, prodotto da Jean-Christophe Averty, nato come messa in scena dei grandi successi dell’artista, esce in video cassetta. Vestita come una star di Hollywood, rivive la sua vita attraverso le sue canzoni, in francese, italiano, inglese, arabo, tedesco, spagnolo. Un testamento per immagini.
Parte prima:
https://www.youtube.com/watch?v=UWuYh3t1q1o
Parte seconda:
https://www.youtube.com/watch?v=S9Hqy7YdAbQ
Ci sono importanti battaglie che la riportano all’impegno: quella per la sopravvivenza delle radio libere in Francia, nate da giovani autori negli anni Ottanta e quella contro l’Aids, in cui, nel 1985, viene coinvolta da Elizabeth Taylor in una campagna di solidarietà e sensibilizzazione.
Nel 1986, registra un nuovo album Le visage de l’amour, da una canzone di Charles Trenet con un testamento di brani molto autobiografici, come Les hommes de ma vie dedicata agli uomini amati, cattivi o buoni, a partire dal padre, figura ideale sempre ricercata.
Un progetto in cui crede molto è Le sixiéme jour, un film ambientato nel Cairo del 1947, sotto il governo britannico, tra miseria e precarietà, in cui Dalida per la prima volta non deve recitare se stessa, ma può interpretare un ruolo vero, una lavandaia che deve occuparsi della famiglia, durante un’epidemia di colera. Parlare in egiziano, sua lingua madre, significa tornare alle radici, ricominciare la vita dal principio, far rinascere Jolanda. Quasi non le interessa nemmeno promuovere il disco registrato poco prima ora in uscita. La nuova relazione con un medico francese viene data di nuovo in pasto al grande pubblico dai giornali scandalistici, quando lei vorrebbe solo silenzio. Il film, in Francia, non riceve il successo sperato. Si vuole solo che lei canti. Ma lei è decisa a percorrere un’altra strada.
Artista poliedrica, attrice e cantante, capace di attraversare sempre con stile impeccabile e autorevolezza il mondo della canzone, riuscendo a unire in un’unica grande voce la canzonetta, la canzone d’autore, la disco, la canzone tradizionale della sua terra, idolatrata in tutto il mondo, con un concerto ad Adalia, sulla costa turca, Dalida salutava il suo pubblico medio orientale, per il quale tanto si era adoperata. Poi, via il trucco, gli abiti di scena, i tacchi, le acconciature, e tornava Jolanda. Non la grande diva, ma la donna sola e da sempre privata dell’amore, del padre e di tutti gli uomini che se ne erano andati. Poco dopo, il 2 maggio 1987, nella sua casa di Montmartre, ingeriva quattro scatole di sonniferi affogandole con del whisky. In poco tempo sprofondava in un sonno senza risveglio. Pardonnez-moi, la vie m’est insupportable, diceva un biglietto.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato lunedì 10 Aprile 2023
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