Nato sotto il segno dei pesci, ascendente cavedano in carpione.
Nanni Svampa
Giovanni Svampa nasce a Milano, Porta Venezia, il 28 febbraio 1938. Nasce in casa, come si usava prima della guerra. Che scoppia quando lui ha due anni. Non se ne accorge, perché quella sua prima infanzia trascorre al sicuro nella campagna dell’alto Varesotto, nella grande casa rurale del nonno materno. Fino ai nove anni è tutto un saltellare nei campi di grano, rotolarsi nel fieno, inseguire animali da cortile, fare merenda con pane e lardo, vivere spensierato. Ai bambini si fa di tutto per garantire un’infanzia serena.
Ma le madri devono preoccuparsi che ci sia sempre qualcosa in tavola per pranzo e per cena e i padri che lavorano a Milano devono sopportare il rischio dei bombardamenti sulle loro teste.
I genitori di Nanni vengono dalle rive opposte del lago Maggiore. Il padre è amministratore dell’impresa di costruzioni del suocero e si sposta tra i vari cantieri che sorgono durante la ricostruzione. Arrivato a Milano da Cannobio per lavorare come ragioniere in uno studio da commercialista – e intanto fare la bella vita nei locali notturni, tra barzellette e ballerine –, in un salotto borghese una sera conosce quella che diventerà sua moglie, la madre di Nanni. Con il matrimonio la coppia rimane a vivere nella grande casa patriarcale e lui viene inglobato nell’impresa edile. Brillante e talentuoso barzellettiere, nei suoi viaggi in treno sulla Milano-Luino trova regolarmente posto vicino all’amico Dario Fo che racconta storie stralunate. Quel cabaret nato sul treno diventerà la Piccola rivista degli sfollati nel teatrino dell’oratorio di Sangiano.
Dotato anche nel canto, è lui a insegnare al figlio le canzoni milanesi di Giovanni D’Anzi.
La madre di Nanni, diplomata in pianoforte, per qualche tempo accompagna una cugina che canta le canzoni americane da poco arrivate in Italia. Rappresentano la fine di un incubo e la voglia di libertà di un popolo sfiancato.
L’estate si trascorre a Cannobio, sulla sponda piemontese del lago Maggiore, dai nonni paterni. A Cannobio passano le vacanze anche le famiglie dell’alta borghesia milanese e torinese: bigotte e chiuse nell’unico pensiero di conservare il denaro. Tutto il contrario di Sangiano, dai nonni materni: paesino di contadini e piccoli artigiani dove si vive alla buona, fra campi, osterie, cascine e cortili.
È a Cannobio, centro di battaglie tra partigiani e tedeschi, che Nanni prova l’angoscia della guerra. L’uccisione di soldati tedeschi è causa di rastrellamenti, con le SS a gridare per tutte le case, alla ricerca dei responsabili. Tra questi anche lo zio e il padre di Nanni. In piazza ci sono già le forche per impiccarli. L’intervento di un prete evita la strage, ma in molti verranno deportati.
Dopo la Liberazione, tutta la famiglia si stabilisce a Milano.
In città la famiglia diventa un grande clan facente capo al nonno Cerutti, imprenditore edile di lunga gavetta. Una famiglia che diventa sempre più ingombrante, votata ai valori del risparmio e del lavoro in azienda.
Valori che orienteranno gli studi di Nanni: il liceo scientifico prima, e l’università Bocconi poi, facoltà di Economia e commercio. Con sarcasmo Nanni racconterà lo stato d’animo di allora in Io vado in banca /stipendio fisso così mi piazzo / e non se ne parla più [Svampa, p. 79].
È proprio in Università, in realtà che, con un gruppo di goliardici compagni di studio, cominciano le prime esperienze di teatro satirico. Nell’autunno del ’59 la compagnia è già pronta per un vero palcoscenico, quello del Teatro delle Erbe, con la prima rivista dal titolo I soliti idioti. Tra i brani che diventeranno celebri c’è La ballata dei teddy boys che resterà nel repertorio dei Gufi.
I progetti teatrali si concretizzano in un debutto importante: nel ’61 al Teatro Piccolo di Milano, con il beneplacito di Paolo Grassi, va in scena lo spettacolo Prendeteli con le pinze e martellateli. “Lo spettacolo – racconta Nanni – si apriva con un processo all’Italia; poi la satira spaziava dalla scuola confessionale all’educazione sessuale, dalla tratta delle bianche allo snobismo dei salotti e così via” [Svampa, p. 62]. Si chiudeva con lampi, il suono di uno sciacquone e un water in mezzo al palcoscenico.
Poco dopo, nonostante gli esami a rilento, Nanni si laurea con una tesi in diritto del lavoro. Non si occuperà mai di diritto del lavoro. Una diversa vocazione lo conduce verso il palcoscenico, sempre più consapevolmente. Sono gli anni in cui Nanni scopre il grande poeta Georges Brassens, grazie ai primi 33 giri arrivati in Italia. Sarà una continua ispirazione a trovare una via per innovare la canzone, considerata, a differenza della Francia dove ha sempre mantenuto una sua valenza culturale e artistica, semplicemente prodotto di evasione. “Pur conoscendo abbastanza bene la lingua francese – dice Nanni – ai primi ascolti capivo solo in parte i testi delle canzoni, vuoi per la particolare pronuncia vuoi per la densità di concetti che il grande Georges riusciva a mettere nelle sue storie. Ma era più che sufficiente per farmi pensare che quello era il mio maestro, quella la strada che dovevo seguire per dare importanza e dignità alla canzone, soprattutto satirica e umoristica”. [Svampa, Scherzi della memoria, p. 68]. Più tardi gli verrà la geniale idea di tradurre quelle canzoni nel dialetto milanese, e intraprendere così un percorso creativo originale per la sua carriera a per la storia della canzone popolare.
Non arrivano solo quei primi 33 giri, è Brassens stesso che si esibisce a Roma, nel 1950. Anche se in un concerto andato praticamente deserto. Artista incompreso, per il pubblico italiano di quegli anni, abituato alle canzoni mielose del dopoguerra, tutte patria, mamma, cuori e lacrime, che a breve avrebbero spopolato sul palcoscenico di Sanremo. Impossibile comprendere l’ironia di Georges, la critica al mondo ai bigotti e borghesi benpensanti, il rifiuto di un sistema di valori così retrogradi e conservatori. Preferendo argomenti scabrosi o di contestazione sociale, la difesa degli umili, e un cantare schietto, sui tempi musicali improvvisati del jazz.
Il servizio militare a Treviso trascorre nella costrizione di dover diventare caporale e poi caporal maggiore, visto il titolo di laurea. Ma a Nanni non importa quella carriera, in quel tempo comincia a scrivere e pensa a nuovi spettacoli.
Nel ’64 con la fine della leva le notti milanesi si animano di spettacoli nei club, nei teatri, nei night: il Derby, il Santa Tecla, il Capitan Kidd. Così Nanni ha una prima idea di costituire un gruppo di cabaret musicale. Alle prime uscite ottiene già un buon successo, tra canzoni, monologhi e parodie.
Ma il vero consenso arriva quando porta in scena il primo repertorio di Brassens tradotto. Anche se canzoni come Mi sont un malnatt scatenano qualche controversia tra il pubblico, lo spettacolo è richiesto nei locali e ristoranti.
Tra i tanti brani: Pover Martin,
L’erba matta,
El testament,
El Gorilla.
Cantabrassens è una selezione dei più popolari partendo da I Assasit, versione milanese di L’assassinat.
A queste canzoni si aggiungono le storie sociali come Piazza Fratelli Bandiera, scritta da Nanni sul mondo degli anziani. Racconta di un vecchietto milanese a cui un giorno sradicano il giardinetto sotto casa.
E poi le storie della “mala” e sulla Milano delle ringhiere, quella popolare dei quartieri degradati, dove si vive di espedienti. “Gli anni d’oro che la cronaca ci ha tramandato sono quelli della fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento quando il ventre di Milano – quasi imitando il ventre di Parigi – ospitava tra le sue mura e i suoi palazzi fatiscenti del centro storico di fondazione romana una mala fatta di ligera – bande di ladruncoli che ripulivano del portafogli i passanti – ragazze di vita conosciute e amate dalla povera gente, poliziotti che facevano i duri” [Svampa, p. 83].
Tra le prostitute c’è anche Rosetta, uccisa nel 1915, non si è mai saputo da chi. A lei è dedicata la canzone La povera Rosetta.
Questo repertorio trova come estimatore Enrico Intra, direttore del famoso Derby Club, che invita il gruppo per alcune serate e poi per una tournée estiva a Castiglioncello. Proprio la metà degli anni Sessanta è segnata dal fenomeno del cabaret a Milano: l’Intra’s Derby Club diventa il più popolare, con una proposta artistica innovativa, lancia infatti autori come Enzo Jannacci, il jazz di Enrico Intra e Franco Cerri, nuovi artisti come Paolo Villaggio. E poi il Cab ’64 che ospita Bruno Lauzi, Paolo Poli, gli sketch di Cochi e Renato. C’è anche il Lanternin che vede nascere il gruppo fondato da Nanni, I Gufi, nome facile da memorizzare, calzamaglia nera e bombetta bianca come costumi di scena, neri come i gufi che la notte scrutano il mondo appollaiati su qualche ramo. Ne fanno parte oltre a lui, Roberto Brivio, Lino Patruno, Gianni Magni con il loro “cabaret macabro-social-popolare” [Svampa, p.94].
Patruno è art-director alla Ricordi, cosa che gli permette di approfondire le novità in ambito jazz e di affermarsi con uno stile chitarristico estremamente personale. Brivio, diplomato all’Accademia dei Filodrammatici, è attore, regista, autore di canzoni macabro-umoristiche. Magni ha studiato alla scuola del Piccolo Teatro. Nanni intende riproporre la cultura popolare attraverso la canzone, riscoprendo canti della tradizione o scrivendone di nuovi di satira sociale o su temi di attualità. Nel suo progetto c’è anche la messa in scena dell’intero repertorio di Brassens. È la scuola milanese: “Più musicale, con uno spirito tra il surreale e l’impegnato; negli anni del boom economico i protagonisti delle caves cantavano già storie di emarginati o di sballati, facevano satira politica e sociale” [Svampa, p. 91]. Ambientazioni tipiche delle canzoni milanesi sono le case di ringhiera della periferia, dove si vive di solitudine, droga, prostituzione. Gli spettacoli di cabaret traggono spunti da questa varia umanità per raccontarne le ingiustizie e le fatiche quotidiane. Un mondo di emarginati che viene evocato attraverso canzoni originali scritte in dialetto insieme a canti della tradizione. È un folk revival che coinvolge diversi artisti in questi anni in tutta Italia, mossi dall’urgenza di raccontare un Paese dimenticato. Quello dei poveri diavoli che hanno subito il boom economico, ridotti sempre più ai margini di una società che non li tollera. Quegli spettacoli si rifanno alla tradizione popolare della protesta e della satira per fotografare il presente e gli italiani del dopoguerra.
Oltre ai locali ci sono le osterie storiche in cui questi canti vengono riproposti insieme a quelli nuovi, a sceneggiature e copioni teatrali. Sono la Briosca, el Tranin, il Praticello, la Magolfa, il Gatto nero. Qui, al confine tra città e campagna, anche Maria Monti aveva fatto il suo apprendistato di ricerca e studio sulla canzone popolare.
“C’era una specie di osmosi fra osteria e cabaret – racconta Nanni –: noi andavamo a succhiare dagli ultimi cantori quel grande patrimonio della tradizione orale che scuola e famiglia ci avevano segato” [Svampa, p. 92]. Tra questi c’è il Berto, che canta ballate per tutta la notte accompagnandosi alla chitarra. A volte suona una fisarmonica e tiene il ritmo con un tolon, contrabbasso fatto con un bidone vuoto, una corda, un manico di scopa. Canta storie spinte, di entraîneuses che fanno spendere ai clienti tutti i loro denari in quelle notti trasgressive. Di personaggi in bilico.
Nanni racconta le osterie milanesi:
Il ’65 è l’anno della grande affermazione dei Gufi che a Torino trovano un pubblico di estimatori: “Si vendevano più dischi in milanese a Torino che a Milano […]. Alla fine degli spettacoli eravamo sommersi da inviti a cena nelle belle case antiche del centro storico o nelle ville i collina” [Svampa, p. 97]. Torino e la sua tradizione di canti di protesta, di canti sociali, e l’attenzione alla realtà politica dell’Italia del dopoguerra. Torino e il Cantacronache che alla fine degli anni Cinquanta inventa una canzone che va oltre l’evasione. Torino accoglie l’arte della contestazione satirica. Così, il locale Los amigos diventa il palcoscenico prediletto in cui I Gufi propongono spettacoli composti di monologhi, sketch e canzoni comiche, parodie del café chantant, esecuzioni corali alternate a pezzi più impegnati. Come: Si può morire, canzone che parla di tutti i modi in cui la gente può andare all’altro mondo: razzismo, lavoro precario, povertà, malattia, violenze della polizia. “I nostri spettacoli erano un fuoco d’artificio quasi sempre imprevedibile, un susseguirsi incalzante di cambi di atmosfera, in cui nel bel mezzo di una serie di follie umoristiche arrivava il momento serio che invitava a riflettere su temi di attualità” [Svampa, p.99].
Nel ’65 il successo arriva anche a Milano, consacrato al Derby Club. È la Milano della spensieratezza, della creatività, della partecipazione al dibattito ideologico, della ripartenza, della voglia di ricominciare dei giovani. Con l’emancipazione femminile, il distacco dai genitori, le nuove mode. In quell’estate il successo si sposta al Bussolotto, piccolo cabaret sopra la Bussola in Versilia.
E poi i teatri. A fine gennaio ’66 è il debutto al Cinema Fiammetta di Roma. Con tutta l’intellighenzia di attori, registi, critici. Poi al teatrino di Vittorio Gassman.
Al Teatro Odeon di Milano sono in scena con lo spettacolo Teatrino dei Gufi. Spettacolo che gira tutta l’Italia e che per questo si arricchisce anche di brani popolari di altre regioni. Di grande successo è la ballata S. Antonio allu desertu, canto abruzzese su S. Antonio tentato dal diavolo.
Un po’ per il linguaggio popolare, un po’ perché l’Italia in quegli anni è bigotta e moralista, a causa di alcuni versi di questa canzone il gruppo riceve una doppia denuncia: per vilipendio della religione e degli oggetti di culto e per turpiloquio. Ma il processo si chiude in niente. Così il gruppo continua tour e spettacoli. Il Teatrino dei Gufi
A Milano nel ’67 va in scena Milano canta
e nella stagione successiva Non so, non ho visto, se c’ero dormivo, satira delle speranze riposte nella Resistenza, disattese negli anni che seguirono.
Nel ’68 Nanni realizza il progetto del recital sull’opera di Brassens. Un Brassens in milanese al Piccolo Teatro di Milano che ottiene grande successo, considerando la sperimentale traduzione di testi complessi. È la lingua, soprattutto, che rende difficile una trasposizione, perché la lingua del poeta francese nasce da riferimenti letterari colti, a cui si aggiungono neologismi, giochi di parole, termini gergali, termini popolari e goliardici. Il dialetto milanese risulta però congeniale per restituire temi, personaggi, atmosfere, da Parigi a Milano. Nell’idea di Svampa, infatti, “tradurre deve essere un’operazione che dia nuova linfa ai testi originali, permettendosi magari alcune libertà a vantaggio della credibilità, mantenendo naturalmente intatti i contenuti” [Svampa, p. 116].
Che cosa avvicina Nanni a Brassens? Lo spiega bene la studiosa Mirella Conenna: “Anticlericale, antimilitarista, emotivo, abitudinario, Svampa ha il gusto della parolaccia detta gentilmente ed il culto delle tradizioni popolari. Molto sensibile alle sfumature ed al potere del linguaggio, è il fotografo di una certa realtà della sua città: i bar, la nebbia, i personaggi strani e patetici, fuori dal tempo e profondamente umani” [Svampa, p. 117].
L’anno successivo è l’ultimo dei Gufi che portano in scena Non spingete, scappiamo anche noi di Gigi Lunari, recital, nelle intenzioni originarie, antimilitarista, poi via via andato modificandosi per i troppi mugugni tra gli spettatori.
https://www.youtube.com/watch?v=YXIia3LaPw0&list=RDYXIia3LaPw0&start_radio=1&t=19
Così Nanni procede da solo e ha già in mente uno spettacolo sulla canzone popolare milanese, La mia morosa cara, che inaugura la stagione del Piccolo Teatro con Lino Patruno e l’attrice-cantante Franca Mazzola. Un viaggio nella tradizione popolare tra canzoni da osteria, di lavoro, della mala, epopee di poveri cristi e lamenti di migranti. Tra i vari canti, quello che dà il titolo allo spettacolo,
l’intramontabile Madonina,
Il tamburo della banda d’Affori,
Faceva il palo.
Il trio mette in scena poi Patampa e È tornato Barbapedanna, con sketch, canti, parodie: El magnano,
Veronica andava a Rogoredo,
La famiglia Brambilla in vacanza.
Per la Rai tra il ’70 e ’73 il trio registra anche: Addio Tabarin spettacolo sulla storia della canzone popolare e del varietà: Puntata 1:
Puntata 2:
Puntata 3:
Solo nel ’73 Nanni assiste al Bobino al concerto del suo grande maestro e finalmente ha l’occasione di conoscerlo. Gli ha sempre inviato i dischi con le sue traduzioni ricevendo risposte gentili e ringraziamenti sinceri. Una volta Brassens gli scrive addirittura di essere “felice di avere un fratello dalle parti di Milano” [Svampa, p. 129]. E l’incontro è memorabile: “Sedersi a parlare con Georges fu come sentirsi al di fuori dello spazio, degli oggetti, del tempo. La sua voce calma, la sua serenità, il suo sguardo profondo e pieno di dolcezza e di malinconia non facevano che accrescere in me l’amore per le cose che aveva scritto e la poesia che ci aveva trasmesso” [Svampa, p. 130].
Il referendum abrogativo sul divorzio diventa occasione di dibattiti. Insieme a Michele Straniero, Nanni realizza XI non abrogare, spettacolo propagandistico a favore del no, presentato in cooperative, circoli culturali, teatri. È costruito con canzoni sul clericalismo, battute e sketch comici fino al numero più politico con I quattro cavalieri dell’Apocalisse. I personaggi sono parodie di Gedda, Lombardi, Almirante, la Dc. La scena clou è il processo di separazione tra marito e moglie: lei chiede il divorzio al Tribunale civile, lui la anticipa chiedendo l’annullamento alla Sacra Rota. Pellegrin che vien da Roma, spettacolo sull’anno santo e sui rapporti tra Stato e Chiesa, scritto sempre con Straniero, gira l’Italia, ricevendo approvazioni e dissensi. Nel finale si canta Bandiera rossa sull’aria di Mira il tuo popolo, in una festa al Vaticano con ospiti i dirigenti del Pci.
Prima della fine della collaborazione con Patruno, Gigi Lunari propone al duo il ruolo da protagonisti per uno sceneggiato Rai ambientato nel mondo popolare milanese: Una bella domenica a Gavirago al Lambro, storia di due famiglie, una del nord e una del sud, in una casa di ringhiera milanese. Situazioni comiche, litigi e discussioni, trasgressioni e travestimenti, restituiscono, in chiave parodistica, il fermento dell’Italia di quegli anni, con le contestazioni, i cambiamenti sociali e culturali.
Puntata 1:
Puntata 2:
Puntata 3:
Le elezioni amministrative del ’75 vedono il famoso sorpasso a sinistra che rappresenta una rivoluzione anche in ambito culturale: diversi giovani della sinistra chiedono a Nanni di portare i suoi spettacoli nei circoli e nei club di zone da sempre restie a quel tipo di cultura, come la Brianza. In questi luoghi Nanni si arrischia perfino a cantare La vocazion di Brassens, canzone su chi vuole imporre la fede.
Il lavoro su Brassens, del resto, non si è mai arrestato e, con la collaborazione del chitarrista e arrangiatore Ettore Cenci, vengono prodotti una serie di concerti a tema: al Teatro Uomo di Milano (nel ’75) e poi al Palacongressi di Lugano. La canzone con cui Nanni chiude gli spettacoli è Quand pensi a la Cesira, ballata sull’onanismo maschile.
Nel successivo concerto, Nanni Milano Svampa Cantata, la collaborazione con Cenci si fa ancora più pregnante e i suoi arrangiamenti diventano elemento di forte connotazione.
Gli anni Ottanta spengono le tensioni ideologiche, nella società, nella scuola, nel mondo culturale: è il riflusso verso il privato e l’evasione. L’evoluzione interiore, l’interesse per il corpo, le filosofie orientali prendono il posto della ricerca collettiva verso soluzioni politiche, la partecipazione e spettacoli satirici e militanti.
Riflusso Riflesso è il cabaret musicale con cui Nanni racconta questa fase evanescente della storia d’Italia: Ma se per voi non ci sono problemi/ e in discoteca vi tirano scemi/posso dormire tranquillo, anzi russo/c’ho anch’io il mio hobby: l’hobby del riflusso! [Svampa, p.171]. Ne esce un Lp con gli arrangiamenti di Gian Piero Reverberi.
Questi anni vedono anche il proliferare di emittenti televisive locali che offrono spazi di visibilità. Antenna 3 Lombardia ospita, nel 1981, il grande evento I Gufi a colori, reunion del gruppo che ripropone canti della tradizione milanese come El me gatt.
Il gruppo sarà poi ospite a Sanremo con la canzone Pazzesco.
Sempre meno sono gli spazi dedicati alla canzone popolare, nel disinteresse di istituzioni e di pubblico. Occorre trovare nuovi arrangiamenti per rilanciare canzoni delle quali non si vuole perdere memoria. Sempre dalla collaborazione con Cenci nasce Concerto per Milano e Archi: recupero di brani popolari arrangiati per sette strumenti, una piccola orchestra che reinventa il repertorio delle antiche arie, con le canzoni di D’Anzi e di Bracchi, quelle degli importanti autori del dopoguerra, la riproposta del Brassens milanese.
Nel decennale della scomparsa di Brassens al Teatro Lirico di Milano si organizza un convegno di studiosi, docenti universitari, traduttori, interpreti che si alternano nel raccontare l’opera poetica del maestro francese. Nanni, con gli arrangiamenti di Cenci, interpreta nuovi pezzi come Il fantasma presentato anche al Club Tenco.
Tre le ultime esibizioni negli anni Novanta c’è il Cabaret concerto, recital di canzoni e racconti umoristici.
Per l’impegno nella diffusione della canzone popolare nel 2001 riceverà l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano. Nanni Svampa muore a Varese il 27 agosto 2017, dopo vari interventi chirurgici al cuore.
La più grande delle soddisfazioni è l’aver portato in Francia il suo recital dedicato a Brassens. E aver potuto raccontare le sue memorie: “Storie vere e inventate. Del resto – scrive – io la vita me la sono inventata” [Svampa, p. 204].
Nanni 70. I peggiori 70 anni della mia vita
Nanni Svampa si racconta
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato giovedì 23 Luglio 2020
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