cover_serata colorataVoi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/il cibo caldo e visi amici:/considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/che non conosce pace/che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,/senza capelli e senza nome/senza più forza di ricordare/vuoti gli occhi e freddo il grembo/come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato: vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore/stando in casa e andando per via,/coricandovi alzandovi;/ripetetele ai vostri figli. /O vi si sfaccia la casa,/la malattia vi impedisca,/i vostri nati torcano il viso da voi. (Primo Levi, 27 gennaio 1945).

Così, con la poesia Shemà, breve testo in versi liberi, incomincia Se questo è un uomo (1947) romanzo di Primo Levi in cui viene descritto l’internamento e la prigionia nel campo di Monowitz e di Auschwitz dal febbraio 1944 al gennaio 1945.

Shemà, parola ebraica che significa “ascolta”, compare in una fondamentale preghiera della liturgia ebraica, recitata durante le orazioni del mattino e della sera. Con essa l’autore si rivolge ai lettori, che prestino attenzione a ciò che stanno per leggere. Nella loro memoria deve incidersi la testimonianza agghiacciante della Shoah. Perché, unico strumento per reagire al dramma è il ricordo, affinché quella tragedia non avvenga mai più. Levi è perentorio: “considerate”, “meditate” – chiede ai lettori. E poi li intima: “scolpitele”, “ripetetele”. Le parole del dolore, della disperazione, della sofferenza inaudita. Come in un nuovo Inferno la legge del contrappasso colpirà, quale castigo divino, chi non converrà a questa sorta di comando morale: perpetrare il ricordo dell’orrore, tenerne viva la memoria.

Beppe Servillo

Così, il 26 gennaio in occasione del Giorno della Memoria che si celebra il 27, l’imperativo di Primo Levi si è affermato attraverso la voce della musica. La sala Sinopoli dell’Auditorium Parco Della Musica a Roma ha ospitato il concerto Serata colorata in cui hanno risuonato le musiche scritte ed eseguite dai prigionieri del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia in Calabria, evento realizzato sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. A dare voce ai racconti degli internati, Peppe Servillo, front men del gruppo Avion Travel. “Do il mio contributo – rivela in un’intervista al quotidiano la Repubblica – per testimoniare, con questa vicenda per molti sconosciuta, che l’umanità è sopravvissuta a momenti bui e che per questo serve testimoniare la memoria nella sua integrità, per conservarla e perpetuarla”.


Una immagine del concerto

Dall’Auditorium Parco della Musica Sala Sinopoli CONCERTO PER IL GIORNO DELLA MEMORIA Serata Colorata Musiche dal Campo di internamento di Ferramonti – voce narrante Peppe Servillo.

Qui il link 


In programma musiche tipiche degli anni Trenta: jazz, kabarett, canzonette, avanspettacolo, un tipo di musica molto presente a Ferramonti, perché lì erano internati musicisti e compositori amici e compagni di studio di Kurt Weill, jazzisti, musicisti klezmer.

In scaletta, infatti, brani di musica classica, come My God, why hast thou forsaken me? di Felix Mendelsshon, una bellissima Ciaccona del compositore italiano Tomaso Antonio Vitali, scritta nel 1700, la cui partitura è stata ritrovata tra i molti documenti musicali di Ferramonti, raccolti dagli internati

Lost in the stars di Kurt Weill, Muted music del compositore internato Isak Thaler. E poi canti corali e pezzi tratti dal repertorio ebraico, tra cui uno struggente Kaddish del pianista Kurt Sonnenfeld, insieme ad altre sue composizioni: Two stars for us (con parole di Vitoria Astuni), Radio Spielen, Dear always walking, It’s the fault of the rain, Dis moi La La, Do you like red, Ferramonti waltz.

Straordinario il cast dei musicisti: Fabrizio Bosso, guest star apprezzata internazionalmente, con la sua tromba; e un gruppo di virtuosi come Vince Abbracciante alla fisarmonica, Giuseppe Bassi al contrabbasso, Seby Burgio al pianoforte; Andrea Campanella al clarinetto, Daniel Hoffman al violino, Eyal Lerner voce e flauto. Le voci sono quelle di Lee Colbert, Myriam Fuks, Giuseppe Naviglio. Con il Coro Petrassi e il Coro C. Casini dell’Università di Roma Tor Vergata, direttore Stefano Cucci. Regia di Fabiano Marti. Consulenza storica di Carlo Spartaco Capogreco, autore del volume “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista” ed. La Giuntina, 1987 e di altri lavori su campi di internamento e concentramento. 

ferramonti-segnaleSorprende scoprire che, in uno dei più grandi campi fascisti della Seconda Guerra Mondiale, ferveva l’attività artistica. Una storia eccezionale di cui si sono quasi perse le tracce, che torna a vivere grazie all’imponente lavoro di recupero e di ricerca musicale di Raffaele Deluca, musicista e musicologo del Conservatorio di Musica “G. Verdi” di Milano. Di tutta questa ricchezza musicale si era quasi persa traccia, finché Armida Locatelli, erede e per anni assistente del pianista internato Kurt Sonnenfeld, non si presentò un giorno al Conservatorio di Milano con una scatola di spartiti manoscritti che aveva ricevuto in eredità. Erano le musiche scritte ed eseguite a Ferramonti, ma anche fotografie, diari, lettere: un materiale inedito di cui il musicista e musicologo Raffaele Deluca comprese subito lo straordinario valore storico.

Parte dei documenti rinvenuti, inoltre, sono oggi custoditi presso la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, nel fondo dell’ingegnere lettone Israel Kalk, fondatore della Mensa dei bambini a Milano, centro di raccolta dei figli dei profughi ebrei [http://www.cdec.it/Fondo_kalk/mostra_fascicoli.asp?id_struttura=3&indice=2].

Si scopre quindi che i detenuti del campo di concentramento di Ferramonti erano affermati direttori di teatro, compositori che avevano eseguito musica in festival importanti insieme ad Arnold Schönberg e Anton Webern, cantanti, coristi, pianisti, orchestrali, musicisti jazz, klezmorim. Come il trombettista Oscar Klein, il direttore d’orchestra Lav Mirski, il pianista Sigbert Steinfeld, il cantante Paolo Gorin, il compositore Isak Thaler, il pianista Kurt Sonnenfeld.

Prima dell’inizio delle esecuzioni musicali pubbliche organizzate all’interno del Lager, i documenti ritrovati raccontano che tra i musicisti circolasse un motto: “Ci ritroviamo alla fine” (Wir treffen uns am Schluss). “Mancavano le condizioni per le prove di insieme – si legge nelle ricerche svolte da Deluca con il Centro Studi di musica sacra Tomo Quarto – gli strumenti musicali erano pochi e difficilmente reperibili, le voci dei cantanti angosciate dalle continue privazioni”, ma era importante ritrovarsi insieme sull’accordo finale di ogni brano, come a significare che alla fine di quella tragedia la vita, per tutti, sarebbe ricominciata. La musica, anche solo per un momento, era un balsamo lenitivo, per sopportare con dignità quella traumatica reclusione forzata. [http://www.tomoquarto.it/attivita/pubblicazioni/wir-treffen-uns-am-schluss-ci-ritroviamo-alla-fine/].

“C’è una grandissima varietà di stili e generi musicali – dice Deluca in un’intervista a Il Sole 24 Ore –: si va dalla musica liturgica ebraica alla canzonetta da cabaret alla moda negli anni Trenta, fino al pezzo classico. La carriera di tanti compositori non si è arrestata con l’esperienza del campo, anzi. Negli anni successivi nelle opere di molti di loro rimane il richiamo a Ferramonti. Ad esempio Sonnenfeld negli anni Settanta scriverà musica sinfonica ma anche chansonnes in cui si sente l’eco di quell’esperienza”. [http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-01-27/dall-auditorium-all-argentina-palcoscenici-roma-come-non-dimenticare-shoa–091222.shtml?uuid=AEUjg5I].

E Ferramonti? Cosa emerge del più numeroso campo d’internamento italiano per ebrei? La sua attività inizia nel giugno del 1940, unica realizzazione edilizia costruita conseguentemente alle leggi razziali. Il primo gruppo di ebrei stranieri è formato da professionisti che risiedevano in Italia da tempo, in particolare a Roma. Poi arriveranno ebrei provenienti da varia parti d’Europa, dalla Serbia, dalla Croazia, da Rodi, e gruppi di religione non ebraica: greci, slavi, cinesi. Liberato il 14 settembre 1943, sarà l’ultimo a essere chiuso, l’11 dicembre 1945.

Qui una documentazione del Museo della Memoria di Ferramonti.

“Ferramonti di Tarsia – scrive Ernst Klopfer in uno dei documenti recuperati – consisteva in una cinquantina di baracche assai primitive che, in forma di ferro di cavallo, erano disposte in fila. Nel mezzo del ferro di cavallo c’era una costruzione piccola che fungeva da cucina e che aveva due vasche laterali, che ci servirono per la toeletta personale e per il lavaggio di stoviglie e indumenti. […] Io mi resi conto fin dal primo momento che bisognava “fare qualcosa” per non divenire oppresso da questi pensieri di letargo. Esisteva già qualche piccolo segno di vita culturale, ma il tempo era stato troppo corto per creare qualche attività organizzata e fruttuosa. […] Le autorità del campo erano del tutto disinteressate a qualsiasi attività degli internati. Ma d’altra parte non avevano niente in contrario che si organizzasse qualche cosa. Così cominciai ad agire per conto proprio. Cominciai a raccogliere dei chiodi storti in terra per raddrizzarli a martellate. Quanti pezzi di legno sciolti fissi segati! […] Per procurarmi i materiali mancanti, mi era di grande aiuto il padre cattolico del campo […]. Organizzai un corso di arti grafiche, un corso di artigianato, costruivo un teatrino di burattini, disegnavo cartelli e diplomi. […] Si faceva qualche rappresentazione teatrale, esposizioni di quadri di artisti internati, organizzazione di concerti di solisti che davano qualche tono di luce alla vita monotona del campo”.

Una storia incredibile quella di Ferramonti, in cui si sopravvive alla barbarie della segregazione grazie a una serie di fattori unici. Da una parte l’atteggiamento tollerante di Paolo Salvatore, il primo e più importante direttore del campo. “Con noi era buono – ricorda uno dei primi internati, testimonianza raccolta in Ferramonti di Carlo Spartaco Capogreco – ci lasciava fare e molte volte chiudeva pure un occhio su cose che non erano proprio in perfetto accordo col regolamento e con le disposizioni”. [Ferramonti, Giuntina ed. p. 48]. Fondamentale fu anche l’opera di supporto pragmatico e spirituale di Callisto Lopinot, un monaco cappuccino inviato nel campo dal Vaticano. Merito suo se la vita in quel luogo di segregazione fu davvero più umana. “Era puntuale, preciso e accurato – racconta un internato –, d’uno zelo e d’una laboriosità indefessa, e un accanito avversario del regime nazista, che riteneva opera del demonio” [Ferramonti, p. 81]. E poi la particolare convivenza tra gli internati, gli abitanti di Tarsia e i contadini dei dintorni: all’interno di Ferramonti, infatti, è frenetica l’attività culturale mentre al di fuori la popolazione calabrese è per metà analfabeta. Così “l’enorme squilibrio culturale tra la piccola città ebraica – scrive Vittorio Cappelli nella prefazione del libro Ferramonti – e l’ambiente umano circostante determinerà una inevitabile soggezione psicologica dei liberi contadini rispetto ai prigionieri di Ferramonti. E succederà anche che gli eventi culturali, organizzati all’interno del campo, come i concerti, divengano rare occasioni mondane per le autorità e la borghesia locale”. Ma è poi nella vita quotidiana che si stabiliscono le relazioni, “un’intesa, più o meno tacita, tra custodi e custoditi”: col lavoro agricolo consentito a gruppi di internati presso la aziende locali, con lo scambio di prodotti artigianali realizzati dai prigionieri.

Infatti, non era certamente permesso uscire dal campo, ma le autorizzazioni si riuscivano ad avere. Non si poteva ascoltare musica, ma diversi ebrei testimoniano l’abitudine di Salvatore di mettere la radio vicino alla finestra aperta dell’edificio dove abitava. Era vietato possedere una macchina fotografica, ma i fotografi professionisti presenti nel campo scattarono centinaia di foto. Salvatore permise la creazione di una scuola e così i bambini di Ferramonti ricevettero tutti un’istruzione. I nuclei familiari non venivano separati, ma vivevano insieme nella stessa baracca, usufruendo di una propria cucina.

All’interno del campo, poi, erano allestite tre sinagoghe e una chiesa dove gli ebrei si prestavano a cantare durante le liturgie cattoliche e i cattolici in quelle ebraiche. C’era anche un forno comune in cui si potevano cuocere le matzah rituali, c’era uno spaccio di alimentari. Venne realizzato un teatrino per bambini e si svolgevano campionati di calcio ai quali era invitata anche la popolazione di Tarsia. Si affrontarono squadre formate da ragazzi di una stessa nazionalità, come veri campionati europei. I bambini di Ferramonti, infatti sono chiamati i “bambini felici”.

Esistevano, inoltre, la sala di lettura, la biblioteca e si stampava un giornalino. Si organizzavano conferenze sulla storia ebraica, i Bunter Abend (Serata Colorata), intrattenimenti musicali all’interno di una baracca adibita a sala concerti. Il 23 marzo 1941 i documenti raccontano di un concerto con brani di Schubert, di Schumann, ma anche di Beethoven, di Liszt. Arie di Wagner dal Tannhäuser, quella di Germont dalla Traviata di Verdi, quella della morte di Rodrigo dal Don Carlo verdiano. Un baritono, chitarra e violino ad accompagnare. I violini pare fossero prodotti da una famiglia di liutai della zona, i De Bonis: “Nicola De Bonis decide di andare a Ferramonti per un consulto medico, perché sapeva che lì erano internati bravissimi dottori – racconta Deluca –. Quando nel campo si venne a sapere che era un liutaio venne preso d’assalto. I musicisti cominciarono a chiedergli dei violini, anche se i De Bono producevano chitarre classiche. Nicola decise di rubare del legno di noce e di costruire un violino per loro”. [http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-01-27/dall-auditorium-all-argentina-palcoscenici-roma-come-non-dimenticare-shoa-091222.shtml?uuid=AEUjg5I].

Famoso era anche un harmonium mandato, attraverso Lopinot, da Pio XII: le testimonianze raccontano di come tale harmonium fosse utilizzato sia per le cerimonie ebraiche che per quelle cristiane. Domenica 8 marzo 1942 era la volta del coro maschile con le voci soliste a intonare arie di Pergolesi, di Verdi dall’opera La forza del destino. Maestro concertatore e direttore era sempre Lav Fritz Mirsky a cui tutti erano fortemente legati. “Più di un anno e mezzo or sono che il Maestro Mirsky venne in questo campo – si racconta nei documenti – e forse lo voleva la previdenza che noi, nel tragico destino della nostra esistenza, venissimo arricchiti dal Maestro Mirsky, la cui forza sovrumana e genio artistico seppe svegliare in noi nuova vita”.

Si eseguivano anche canzoni popolari polacche, e poi i brani di Kurt Sonnenfeld, tra questi Il tuo ritorno, canzone per piano e voce, spartito ritrovato tra i documenti. Il musicista così si racconta: “Arrestato a Milano il 1° febbraio 1941 e portato in Questura sono stato – dopo un breve interrogatorio – arrestato col furgone cellulare alla prigione San Vittore da dove fui inviato, dopo tre settimana di detenzione, al campo di concentramento Ferramonti Tarsia nei pressi di Cosenza. Era una landa malarica desolata nella quale si vedevano alcune svariate decine di baracche circondate da colline. Per mia fortuna mi è stato assegnato un posto nella baracca n.14, dove si trovavano già due giovani, dei quali uno ci faceva sentire tutti i giorni il suono di una fisarmonica e l’altro suonava la chitarra”.

Come emerge dal secondo volume della collana Studi e Ricerche il Centro Studi (Tomo Quarto), si sa che i genitori di Sonnenfeld furono trucidati dai nazisti nel campo di sterminio di Maly Trostenets in Bielorussia. Moriranno dopo un viaggio sfiancante di mille chilometri da Vienna, intrappolati nelle Gaswagen, gli autocarri della morte, rinchiusi nel cassone e asfissiati con altri ebrei dal monossido di carbonio emesso dagli scarichi. Il padre aveva tentato la salvezza per il suo giovane figlio preparandogli in fretta i documenti per Milano. A 18 anni Kurt Sonnenfeld era già sfuggito a due retate della polizia, ma nel 1940 subì l’arresto definitivo a Milano e la detenzione forzata, per settimane, nell’isolamento del carcere di San Vittore. Alla prigionia seguì la lunga notte della deportazione, durata quattro anni, nel Sud dell’Italia.

Lontano da tutti i suoi affetti, costretto nei pensieri e nella libertà fisica con altri duemila internati, sopravvisse a Ferramonti, nella landa desolata e malarica di quella remota valle fluviale della Calabria. Lo salvò la musica.

Che non lo abbandonerà mai. Nell’immediato dopoguerra si guadagnerà da vivere, suonando il pianoforte in taverne, osterie, locali da ballo di Milano.

Nessuno degli internati, a Ferramonti, fu vittima di violenze o fu deportato in Germania, ma con il proseguo della detenzione le condizioni di vita divennero ogni giorno più gravi a causa della scarsezza di viveri. L’autorizzazione allo sgombero arrivò più tardi che negli altri campi, ma dissoltosi l’incubo dei tedeschi e divelto il filo spinato, si tornò a respirare il profumo della libertà: “Quando nel campo sono giunti gli americani – racconta un internato – abbiamo fatto una grande festa e abbiamo ballato per tutta la notte al suono della loro banda”. Musica, comunque. Musica, ancora e sempre.

Qui altre testimonianze e documentazioni sulla storia di Ferramonti.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli


Il 27 gennaio RAI5 ha trasmesso un altro concerto di musica dai campi di concentramento SONGS FOR ETERNITY. La voce di Ute Lemper, la narrazione di Moni Ovadia, il racconto di Gioele Dix, il lavoro appassionato e accurato del musicista Francesco Lotoro danno vita a uno spettacolo sul filo della necessaria memoria di quello che è stato e non deve mai più ripetersi.

http://www.raiplay.it/video/2017/01/SONGS-FOR-ETERNITY-4dfa70de-787d-4995-a6e5-b2ecdf44d8fe.html

Su Francesco Lotoro, ecco il link a un articolo pubblicato su Patria indipendente cartacea del giugno 2014: http://anpi.it/media/uploads/patria/2014/34-35_TUSSI_n.6-2014.pdf