It don’t mean a thing if it ain’t got that swing
It don’t mean a thing all you got to do is sing.
Lady Ella, la First Lady of Song, insieme a Billie Holiday e Sarah Vaughan, completa la triade delle grandi interpreti del canto jazz. Coloro che seppero dipingere di sfumature inattese e sorprendenti la grande tela policroma di una musica dalle origini meticciate. Prima che musicisti e grandi interpreti come loro ne facessero un genere di risonanza mondiale, il jazz era la musica semplice “dolorosa ed esultante dei negri del Sud degli Stati Uniti”, scrive il critico francese Lucien Malson. Una musica che si componeva delle influenze apportate dalle culture africane, delle popolazioni oggetto dell’azione schiavista che le aveva catapultate in America; delle componenti negro-americane tradotte in ballate e poi in forma di blues; infine delle componenti tematiche bianche. Un mix di suoni che avrebbero fatto del jazz un genere fortemente espressivo caratterizzato dal dondolio dello swing, quel caratteristico movimento “saltellante” della sezione ritmica e dell’esecuzione delle note capace di esprimere tutta la gamma dei sentimenti: “Tensione e distensione, esasperazione e rilassamento, lo swing partecipa del dolore, del piacere, del desiderio e dell’angoscia”, scrive Malson. Insomma per cantare il jazz e lo swing ci vuole una voce con una storia, con una tale vita dentro che a sentirla si immagina il mondo intero che insieme pulsa e sospira.
Perché dentro c’è anche la musica di chiesa, lo spiritual, la musica dei campi, la musica del lavoro nelle campagne, e quella degli operai che posavano le rotaie delle ferrovie, le marce funebri, la musica arrivata dall’Irlanda, dall’Inghilterra, dalla Scozia, e poi c’è il ritmo, importato dagli schiavi trasportati in nave dall’Africa occidentale. C’è anche una buona dose di protesta, una certa irriverenza cui si accompagna, però, quasi sempre, un giro melodico vivace, un accento vigoroso, uno stile pungente e ribelle, come suggerisce lo scrittore americano Barry Ulanov. Il dolore, insieme alla sorpresa e alla meraviglia. Così, come la vita di Ella.
“Quando la sentii dal vivo per la prima volta nel 1976 – scrive Alyn Shipton, critico musicale del Times – l’aspetto che mi colpì maggiormente fu la sua immutata capacità di interpretare brani standard con convinzione e perfezione vocale e, come ha osservato il critico inglese Benny Green, la sua intonazione perfetta, il suo orecchio naturale per l’armonia, l’ampiezza della sua gamma vocale e la purezza del suo timbro fanno sì che le versioni di queste canzoni cantate da Ella, splendide, argute, gioiose, tristi, fatte con amore, siano quelle definitive”.
La storia di Ella Fitzgerald, straordinaria già considerando questo punto d’arrivo, diviene eccezionale se si pensa al suo inizio.
Nata a Newport News, nello Stato della Virginia, il 25 aprile 1917, Ella perse presto il padre William, restando con la madre Temperance (Tempie), con la quale si trasferì poco dopo a Yonkers, N.Y, andando a vivere con un precedente fidanzato di lei, Joseph Da Silva. Qualche lavoretto per racimolare due soldi, mentre la madre lavorava in una lavanderia. Nel suo quartiere le bastava poco per fare amicizia, visto il carattere da maschiaccio e di tanto in tanto, con gli amici, trascorreva le giornate giocando a baseball. Ma più di tutto le piaceva ballare e cantare e quando poteva comprava un biglietto per Harlem e andava a godersi uno spettacolo all’Apollo Theatre. Fino a che, nel 1932, sua madre perse la vita in un incidente stradale. Ella restò per qualche tempo con il compagno di lei, ma poco dopo, per un infarto, se ne andò anche Joseph. Le toccò un periodo dolorosissimo di disperazione, di abbandono scolastico, di guai con la polizia, di riformatori. Da qui scappò all’età di quindici anni ritrovandosi sola negli anni durissimi della Grande Depressione.
Viveva praticamente per strada quando, il 21 novembre del 1934, vinse un concorso per esordienti proprio all’Apollo Theater di Harlem. Partecipò a una delle famose Amateur Nights, le serate dedicate alle competizioni dei dilettanti. Si era presentata con l’idea di esibirsi in una danza, ma prima di lei erano salite sul palco le sorelle Edwards che avevano sbaragliato qualsiasi altro concorrente, così Ella ci aveva ripensato e invece di danzare aveva deciso in quell’istante, tra i mormorii della gente che chiedeva cosa stesse aspettando quella ragazzina ritta in piedi su quel palco, aveva deciso, insomma, che avrebbe cantato qualcosa. Cosa? Judy di Hoagy Carmichael, una canzone che conosceva bene, tra le preferite della madre. Il pubblico si quietò alla svelta non appena lei aprì bocca e alla fine le chiese di cantare di nuovo. Timida e riservata, in quel momento Ella scopriva che sul palcoscenico ogni sua paura svaniva, che anzi sotto i riflettori si sentiva a casa, e che cantare sarebbe stato il suo futuro. Quella sera suonava nella band dell’Apollo Theatre un saxofonista, Benny Carter che, impressionato da quel talento portentoso volle introdurre Ella nell’ambiente musicale. Lei cominciò a vincere tanti altri concorsi e, nel gennaio del 1935, anche la possibilità di esibirsi per una settimana con la band di Tiny Bradshaw all’Harlem Opera House. Qui conobbe il batterista e leader Chick Webb che in breve tempo si convinse ad assumerla nella sua band. Noto per essere uno dei più famosi direttori di band e percussionista del nuovo stile “swing”, non ci mise molto a riconoscere le qualità vocali di quell’adolescente e la integrò ufficialmente nella sua orchestra come voce femminile. Alla morte di Webb, nel 1939, l’orchestra avrebbe continuato a esibirsi con il nuovo nome Ella Fitzgerald and Her Famous Orchestra.
Dal principio Webb le proposte di cantare pezzi veloci, in contrapposizione alle ballad interpretate dalla voce tenorile del crooner Cherles Lindon, e in effetti la sua fama iniziale è legata a brani brillanti, suonati da jukebox sempre più diffusi in America alla fine degli anni Trenta. Le cronache delle sue serate con Webb alla Savoy Ballroom – scrive infatti Shipton – raccontano che quando Ella cantava, tutto il pubblico si muoveva con lei.
Benché i primi pezzi, come Sing me a swing song (and let me dance) mostrassero poco della sua incredibile estensione vocale e della purezza del suo suono, brani di successo, come Undecided e Mister Paganini ben presto, misero in luce il suo stile vivace, cangiante, virtuoso e fecero di lei il fulcro del gruppo.
Con il brano A-Tisket, A-Tasket una rielaborazione di una canzone per bambini, poi, emerse tutta la sua inventiva di artista capace di improvvisare linee melodiche ardite e inusuali, meritandosi successo di pubblico e critica: “Fu la prima cantante donna – scrive Shipton – a padroneggiare la qualità strumentale della voce a un livello paragonabile a quello di Louis Armstrong. Insomma, un fenomeno”.
https://www.youtube.com/watch?v=SjJry0vhHj4
La sua era una voce fremente, dal vibrato naturale, duttile e cristallina che giocava con uno stile swing variopinto e gioioso. E quella capacità di usarla come uno strumento è ancora oggi uno degli aspetti più eclatanti della vocalità di Ella. In brani come Tain’t what you do di Tommy Young e Sy Oliver si può sentire come nella parte finale sia riuscita a improvvisare liberamente sulla melodia principale suonata dall’orchestra, generando una nuova linea di canto fatta di suoni, di fraseggi, invece che di parole.
Era la tecnica dello scat, di cui lei diventerà regina: “Con il suo orecchio raffinatissimo, l’abilità di imparare a memoria le canzoni con estrema facilità e il suo talento per l’imitazione – scrive Shipton – sarebbe diventata la cantante scat per eccellenza”.
Secondo il suo biografo Stuart Nicholson, il momento di svolta nella sua carriera avvenne nell’ottobre del 1945 quando incise una versione di Flyin’ Home, pubblicata poi nel 1947 dove la complessità del suo stile di canto si arricchiva di rimandi al bebop, insieme allo swing con scatenate virate allo scat. “Passava in rassegna tutte le tecniche vocali – scriverà poi Shipton –: dalle delicate e misurate interpretazioni di ballad, con una dizione perfetta e un profondo rispetto per la concezione del compositore, allo scat sfrenato, nel quale si difendeva bene di fronte a uno schieramento composto dai più formidabili jazzisti del tempo”.
https://www.youtube.com/watch?v=WgJsQoCeOfo
Con il passare del tempo la sua voce acquisì sempre più sicurezza e spessore e le sublimi interpretazioni delle ballad divennero l’aspetto più celebrato e osannato della sua arte, tali da renderla la principale vocalist jazz degli Stati Uniti.
Nascono così brani come Cry me a river di Hartur Hamilton, scritta proprio per lei affinché fosse cantata nel film del 1955 Tempo di furore, ma poi omessa e registrata successivamente.
Oppure Dream a little dream of me, un brano registrato anche in duetto con Louis Armostrong.
Straordinaria la sua interpretazione di The man I love, celebre brano musicale con musiche di George Gershwin e parole di Ira Gershwin,
https://www.youtube.com/watch?v=6NYWJlOL_iY
e poi i grandi standard jazz come Night and day di Cole Porter.
Sono gli anni della piena maturità artistica di Ella, la cui voce ha reso memorabili i classici della canzone d’autore americana: “Dal delicato Ella sings Gerswhin – scrive Paolo Vitolo – […], ai monumentali songbook di compositori quali lo stesso Gershwin, Cole Porter, Irvin Berlin, Duke Ellington, realizzati per la Verve nella seconda metà degli anni Cinquanta”. La vocalità le permetteva di osare qualsiasi accento, qualsiasi profondità o acutezza di suono, qualsiasi stesura ritmica, basti ascoltare Too Darn Hot, canzone popolare scritta da Cole Porter per il suo musical Kiss me Kate.
Monumentale Ella, sia quando interpretava il repertorio solistico, sia quando suonava con i più grandi gruppi musicali e le orchestre, come quella di Duke Ellington che qui l’accompagna nel capolavoro It Don’t Mean a Thing (If It Ain’t Got That Swing) apoteosi dello scat più sfrenato.
Ma ancora più grandiosa quando duettava con artisti straordinari come Luis Armstrong, con cui incise standard jazz, in Ella and Louis e in Ella and Louis Again.
Nel primo di questi album Ella and Louis c’è un’unica canzone, These foolish things (Remind me of you) in cui Ella canta da sola, senza Armstrong, incredibilmente toccante forse proprio per l’apparire inatteso e luminoso della voce solista. Un brano a cui lo scrittore giapponese Murakami Haruki ha dedicato uno spazio speciale nel suo atlante sentimentale del jazz, Ritratti in jazz.
E poi c’è il capolavoro di George Gershwin, l’opera Porgy and Bess con la struggente ninna nanna Summertime e la dichiarazione d’amore I loves you Porgy dove la voce di Ella è un infinito vibrare.
https://www.youtube.com/watch?v=niJrTX88Sto
Il concerto a Berlino del 1960 resterà memorabile per la sua interpretazione di Mack the Knife, in cui, non ricordando il testo, lo improvvisò scatenandosi poi in un crescendo acrobatico. Per questo verrà premiata con un Grammy Award. In tutto ne vincerà ben tredici.
La stessa canzone, in una esibizione live con ripresa video, mostra quanto Ella fosse irrefrenabile, straordinaria nel cantare, nel ballare, nel creare ritmo, nell’essere tutt’uno con la musica.
https://www.youtube.com/watch?v=YX2n2EE2hls
Lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta non smise mai di incidere dischi e di esibirsi in tutto il mondo, comparendo in programmi televisivi, ospite di celebri colleghi, come Frank Sinatra, Dean Martin, Nat King Cole e Dinah Shore. In Italia fu a Milano nel 1986.
https://www.youtube.com/watch?v=iNEe3Ttn-PU
Accompagnata in scena da Micheal Jackson e Eddie Murphy, ricevette poco dopo una standing ovation durante lo show dedicato all’attore Sammy Davis Jr allo Shrine Auditorium di Hollywood.
Continuò a tenere concerti fino agli anni Novanta, tornando ogni tanto alla formazione della big band con il gruppo di Count Basie.
Mancata 20 anni fa, il 15 giugno del 1996, sepolta a Inglewood, in California, con lei si celebra anche la forza dirompente del jazz e dello swing, la qualità speciale di sollecitare la parte più libera di noi stessi, la follia di stare sospesi su una corda da equilibristi, decine di metri d’altezza, funamboli tra sottili vibrazioni e le inquiete trame del vuoto.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato venerdì 17 Giugno 2016
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